lunedì 2 giugno 2025

“Il furfante di Radicofani” di Alberto De Stefano

Mi sono imbattuta in questo volume e nel suo autore, con il quale ho scoperto di condividere la passione per la terra Toscana, al Salone del Libro di Torino, attratta, non tanto dalla copertina come spesso accade, quanto dal titolo. Radicofani, borgo incastonato nella bellissima Val d’Orcia lungo la Via Francigena, è celebre soprattutto per la sua imponente fortezza.

Il romanzo racconta la storia di Ghino di Tacco, nobile ghibellino della famiglia dei Cacciaconti, nato nella seconda metà del XIII secolo.

A causa delle esose richieste di pagamento imposte dalla Chiesa senese a favore dello Stato Pontificio, Ghino e il fratello Turino presero parte alle scorribande del padre e dello zio nei dintorni del castello di La Fratta, dove vivevano. Dopo la cattura e la condanna a morte dei loro parenti, Ghino e Turino, ancora minorenni, vennero risparmiati e si rifugiarono a La Fratta, salvo poi riprendere l’attività predatoria qualche anno dopo, occupando la rocca di Radicofani, considerata inespugnabile.

Della figura di Ghino di Tacco parlano sia Dante che Boccaccio. Se il secondo lo rese protagonista di una novella della decima giornata del Decameron, narrando il suo sequestro dell’abate di Cluny, il primo lo menziona nel VI canto del Purgatorio (vv. 13-14) quando, tra le anime morte per violenza, Dante incontra Benincasa da Laterina, il giurista che condannò i parenti di Ghino e che venne ucciso dal fuorilegge per vendicarli:

"Quiv'era l'Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte."

Ghino di Tacco è una sorta di Robin Hood ante litteram: un brigante gentiluomo, le cui azioni erano guidate da un ferreo codice d’onore. Era un ladro, sì, ma rubava solo ai ricchi, lasciando loro sempre il necessario per sopravvivere. Talvolta, arrivava persino a offrire un banchetto ai derubati prima di lasciarli andare incolumi per la loro strada.

Alberto De Stefano ripercorre le avventure di Ghino di Tacco, rielaborando il materiale storico a disposizione e trasformandolo in un racconto avvincente, dove realtà e finzione si intrecciano armoniosamente.  Pur basandosi su eventi documentati, l’autore romanza ampiamente la narrazione, arricchendola con personaggi e situazioni che amplificano la dimensione epica e avventurosa della vicenda.

Tra le tante figure di fantasia spicca Dulce, la donna amata dal fuorilegge, che aggiunge alla narrazione un pizzico di romanticismo nel ritmo serrato della storia, bilanciando l’azione con momenti di intensità emotiva.

Un avvincente romanzo storico che restituisce nuova vita a un personaggio già leggendario nella sua epoca, facendolo rivivere con intensità e fascino.

 

domenica 1 giugno 2025

“Le camelie invernali” di Ermal Meta

Nel XV secolo, il condottiero albanese Lekë Dukagjini trascrisse il Kanun, un codice di comportamento che regolava la vita individuale, familiare e sociale degli albanesi. Le sue leggi furono tramandate oralmente per secoli, ma col tempo molte caddero tutte nell'oblio, tranne una: la gjakmarrje, la vendetta di sangue.

Secondo questa norma, se qualcuno veniva ucciso, un membro della sua famiglia aveva il diritto di vendicarsi, uccidendo a sua volta un membro della famiglia dell'assassino per ristabilire l'onore. Tuttavia, donne e bambini erano esclusi dalla vendetta, che non poteva avvenire dentro casa. Questo obbligava i maschi della famiglia dell'assassino a vivere reclusi in casa, fino alla consumazione della vendetta o alla concessione del perdono da parte della famiglia della vittima.

Nel 2025, Lara, studentessa di giornalismo nata in Italia da genitori albanesi, visita per la prima volta l'Albania. Il suo obiettivo è intervistare un uomo che non esce di casa da trent'anni.

Il filo dei ricordi dell'uomo misterioso intervistato da Lara ci riporta in Albania, nel 1995. 

Halil e Rozafa vivono nel dolore per la scomparsa della loro figlia, svanita nel nulla anni prima. Incapaci di trovare pace, riversano tutto il loro amore sull'altro figlio, Uksan. Samir è il suo migliore amico, i due ragazzi sono inseparabili. La vita di Samir è segnata da un ambiente familiare difficile: un padre violento e sempre ubriaco che picchia la moglie, e degli zii che impongono la loro autorità con prepotenza.

In un crudele gioco del destino, sarà proprio Samir a dover versare il sangue di Uksan per rispettare la legge del Kanun e preservare l'onore della sua famiglia.

Ho affrontato questo secondo romanzo di Ermal Meta con un po’ di timore, dopo aver amato il suo esordio letterario Domani e per sempre. Anche questa storia è coinvolgente, seppur in modo diverso. Non ho ritrovato i richiami ai testi delle sue canzoni presenti nel primo romanzo, ma, conoscendo e apprezzando la sua musica, non ho potuto ignorare il dettaglio della bambina scomparsa che porta il nome di Nina. Inoltre, nelle pagine iniziali, mi è tornata in mente l’immagine della cavallina storna che portava colui che non ritorna, un ricordo poetico intenso. Alcune frasi, poi, mi hanno evocato gli scritti di Tolstoj, senza un motivo preciso. Non c’è alcun legame diretto con l’autore o con la storia, solo mie sensazioni che emergono spontaneamente.

Con questo secondo romanzo, Ermal Meta conferma il suo talento nel narrare storie avvincenti e nel creare personaggi profondi e autentici, capaci di entrare nel cuore del lettore.  

La sua abilità nel delineare i caratteri dei protagonisti li rende vivi e reali. La struttura narrativa con continui flashback non distrae, ma mantiene alta l’attenzione, facendo sì che nulla venga perso nella storia.

È un racconto intenso e potente, un pugno nello stomaco, ma che allo stesso tempo lascia spazio alla tenerezza: la determinazione di due ragazzi nel voler vivere, il momentaneo abbassarsi di una maschera, un amore che, pur profondo, non può essere confessato. Dolcezza e tristezza danzano insieme nella sofferenza, intrecciandosi in un equilibrio dove i confini tra luce e ombra sfumano, perché nulla può esistere soltanto in bianco o in nero.

Una storia dura e crudele, che si sviluppa in un climax di emozioni e tensione, un susseguirsi di colpi di scena fino a un epilogo inaspettato. 

Un epilogo che lascia un senso di amarezza, ma che appare inevitabile. Un finale che si vorrebbe diverso, perché violenza e ingiustizia dovrebbero essere sempre sconfitte, eppure continuano a ripetersi nel tempo, dimostrando che l’umanità, forse, non impara mai dai propri errori.



giovedì 29 maggio 2025

“Ottaviano de’ Medici e gli artisti” di Anna Maria Bracciante

Il mio incontro con il libro di Anna Maria Bracciante è stato del tutto casuale, ma si è rivelato una scoperta affascinante, capace di gettare luce su un personaggio poco noto della famiglia Medici: Ottaviano de’ Medici. Questo volume ci parla di una figura che ha operato nell'ombra, lasciando però una significativa eredità culturale.

Ottavio de’ Medici (1482-1546) apparteneva a un ramo cadetto della dinastia, discendente di Giovenco di Averardo. Suo padre, Lorenzo, fu stretto collaboratore di Lorenzo il Magnifico, risiedeva di fronte alla chiesa di San Marco e nel 1504 si iscrisse all’Arte della Lana. Ottaviano si mantenne distante dalla scena politica per i  primi quarant’anni della sua vita, lasciando spazio ai suoi fratelli e preferendo dedicarsi agli affari di famiglia, così da avere più tempo libero per coltivare i propri interessi culturali.

Il suo legame con i Medici fu saldo e profondo, intrecciando amicizie con Leone X e Clemente VII. Quest'ultimo lo scelse per incarichi di fiducia, affidandogli l’amministrazione dei beni medicei e l’educazione di Alessandro e Ippolito durante il loro soggiorno fiorentino. Per un breve periodo, fu anche tutore della giovane Caterina de’ Medici, destinata a diventare regina di Francia.

Pur nutrendo affetto per Cosimo I de’ Medici, durante il governo di questi, Ottaviano preferì ritirarsi dalla scena politica a causa della sua diversa concezione del mecenatismo. Mentre Cosimo considerava l’arte uno strumento di propaganda per rafforzare l’immagine del principe, Ottaviano ne aveva una visione più vicina a quella di Lorenzo il Magnifico, ritenendola un mezzo di formazione culturale ed etica. La sua idea di mecenatismo implicava un’affinità spirituale con gli artisti che sosteneva, un rapporto basato sulla condivisione di valori e aspirazioni piuttosto che sulla mera commissione di opere.

Ottaviano ebbe un ruolo di primaria importanza nella supervisione amministrativa della Villa di Poggio a Caiano, dimostrando una notevole capacità organizzativa e gestionale. In particolare, la sua influenza si rivelò determinante nella selezione di almeno due artisti di grande rilievo: Andrea del Sarto e il Franciabigio, entrambi fondamentali nella decorazione e realizzazione delle opere pittoriche della villa.

La sua vicinanza agli ambienti artistici del tempo lo portò a sviluppare profondi legami con alcune delle figure più eminenti del Rinascimento fiorentino. Fu non solo amico, ma anche un fervido sostenitore di Andrea del Sarto e Lorenzo di Credi, offrendo loro protezione e opportunità per esprimere pienamente il loro talento. Tuttavia, uno dei rapporti più significativi che intrattenne fu quello con il giovane Giorgio Vasari, che lo considerava una sorta di mentore e guida intellettuale. Grazie alla sua influenza e ai suoi consigli, Vasari poté affinare il proprio percorso artistico e intellettuale, gettando le basi per la sua carriera di pittore e storico dell’arte.

Il libro di Anna Maria Bracciante analizza con grande precisione le committenze artistiche di Ottaviano e il suo rapporto con gli artisti dell’epoca, dipingendo il ritratto di un uomo discreto ma influente.

Sebbene le sue tracce possano sembrare effimere nella grande storia, la sua impronta è rimasta viva nelle opere che contribuì a far nascere e nei pensieri di coloro che lo amarono e ne riconobbero la grandezza, da Andrea del Sarto a Pietro Aretino, da Giorgio Vasari a tanti altri.

Un libro che riscopre un protagonista dimenticato, ma essenziale, della cultura rinascimentale.



domenica 11 maggio 2025

“Il paggio e l’anatomista” di Walter Bernardi

La corte granducale di Ferdinando II de’ Medici fu un luogo di straordinario fermento culturale e scientifico, in cui l’Accademia del Cimento e l’Accademia della Crusca rappresentavano centri nevralgici di sperimentazione e innovazione. Tuttavia, dietro la facciata di progresso e ricerca, si celavano dinamiche di potere, rivalità e intrighi degni di una tragedia teatrale.

In quella corte, fortemente improntata al maschilismo, si muovevano personaggi dalle vite complesse e spesso contraddittorie: un ambiente dove l’omosessualità, seppur palesemente diffusa, non veniva mai apertamente dichiarata. 

Il desiderio di prestigio alimentava incessanti lotte interne, in cui la delazione e le maldicenze erano strumenti di guerra quotidiana. Non c’era scrupolo nel colpire gli avversari con ogni mezzo possibile, mentre la scienza conviveva con passioni e vendette in un intrico inestricabile di sapere e potere.

Tra i protagonisti di questa storia spicca il conte Bruto della Molara, amante per vent’anni del granduca Ferdinando II, figura enigmatica la cui influenza si intrecciava inesorabilmente con la politica e la vita di corte.

Altro protagonista della scena era Francesco Redi, il medico granducale, scienziato e letterato, uno degli ultimi ingegni veramente enciclopedici della cultura italiana.

Attorno a loro si animava un firmamento di studiosi, un mosaico di menti eccelse che trovavano nella corte medicea il luogo ideale per dare forma alle loro intuizioni: Vincenzo Viviani, devoto allievo di Galileo; Lorenzo Magalotti, sofisticato intellettuale e diplomatico; Giovanni Alfonso Borelli, pioniere della fisiologia e della fisica; Nicola Stenone, lo scienziato che avrebbe rivoluzionato la geologia. Nomi che hanno attraversato il tempo, lasciando un’eredità che superava le vicissitudini personali, accompagnando la corte fino agli anni di Cosimo III.

La corte di Ferdinando II de’ Medici non fu dunque soltanto un cenacolo di sapere, ma anche un teatro di passioni umane, dove ambizione, talento e desiderio si mescolavano in un affresco vibrante di luci e ombre.

Il saggio di Walter Bernardi ci invita a guardare questi uomini sotto una luce diversa. Non più come icone irraggiungibili, ma come esseri umani, immersi nelle loro contraddizioni, nelle loro lotte interiori, nella loro sete di conoscenza mescolata all’ambizione.

Attraverso un’attenta ricerca, l’autore riporta frammenti di corrispondenza che svelano il volto nascosto di questi protagonisti della scienza. Le lettere diventano testimonianze di dissidi, di confronti feroci, di alleanze e tradimenti, di dubbi che precedono ogni grande scoperta.

Bernardi suggerisce che molto è ancora celato negli archivi, che il passato non ha ancora rivelato tutti i suoi segreti. Il suo lavoro è più di un racconto storico: è un viaggio nei meandri dell’umano, un invito a leggere il passato con occhi nuovi, a riconoscere che il genio non esiste senza il suo contesto, senza le passioni, senza le fragilità che lo rendono profondamente autentico.



martedì 6 maggio 2025

“Ombre di spada e di vento” di Poppy Kuroki

Il quadrisavolo di Isla MacKenzie fu, con ogni probabilità, uno dei valorosi guerrieri che combatterono al fianco di Takamori Saigō, il leggendario capo ribelle dei samurai.

Nel 1877, i samurai insorsero contro l'Imperatore, dando vita a una delle ultime grandi battaglie della loro epoca. Lottarono con straordinario coraggio contro l'esercito imperiale, fino a sacrificare la propria vita per il codice d'onore che li aveva guidati per secoli. Con la loro sconfitta, si chiuse definitivamente il capitolo della loro storia, segnando la fine della loro esistenza.

Isla si trova in Giappone per un anno di studio e, durante questo periodo, decide di dedicare qualche giorno alla ricerca delle sue origini. La sua meta è Kagoshima, il luogo dove visse l’eroico avo materno.

Isla, però, non può immaginare neppure lontanamente che le sue ricerche la trascineranno, attraverso un portale temporale, nel lontano 1877. Le figure che aveva studiato sui libri, i personaggi le cui storie aveva appreso nei musei dedicati alla loro memoria, si animeranno davanti ai suoi occhi, trasformando il sapere in esperienza e la storia in realtà pulsante.

Nella Kagoshima del 1877, Isla incontrerà un giovane samurai Keiichirō Maeda  con cui intreccerà un legame indissolubile. L’amore che sboccerà tra loro sarà così profondo da far vacillare ogni certezza, spingendola a mettere in discussione il suo ritorno nel 2005. Nonostante la nostalgia di casa e il richiamo degli affetti familiari, il cuore di Isla resterà ancorato a quel mondo lontano dove si intrecceranno indissolubilmente passato e destino.

Diciamolo chiaramente, l’idea di un viaggio nel tempo non è certo originale. La letteratura e il cinema ci hanno regalato già innumerevoli storie basate su questo affascinante leitmotiv. Tuttavia, la trama del romanzo riesce a conservare un certo un fascino.

A mio avviso, la caratterizzazione dei protagonisti, Isla e Keiichirō, risulta un po’ superficiale, e la loro storia d’amore, per quanto peculiare, non è riuscita a coinvolgermi emotivamente come avrei sperato.

Mi sarei aspettata in generale una descrizione più ricca e sfaccettata dei diversi personaggi, considerando anche l’epoca in cui si svolge la narrazione. Un’epoca in grado di offrire spunti preziosi per arricchire l’intreccio di un romanzo e trasformarlo in un romanzo storico più strutturato e immersivo.

Il libro di Poppy Kuraki è un romance che strizza l’occhio al genere storico più di quanto lo abbracci pienamente. Sebbene gli elementi storici forniscano un’ambientazione suggestiva e intrigante, l’aspetto romantico rimane il cuore pulsante della narrazione. Purtroppo il finale è piuttosto prevedibile, non c'è una spiegazione logica e rimane forte l’impressione che l’autrice abbia scelto la via più semplice per chiudere la vicenda senza riflettere su un epilogo più ragionato e autentico.

Il romanzo ha però un suo fascino e, grazie al suo ritmo fluido e alla trama accattivante, riesce a intrattenere il lettore, offrendo nell’insieme una storia godibile e ben strutturata. Bellissima ed evocativa la copertina.




giovedì 1 maggio 2025

“Quanti moccoli in paradiso” di Lorenzo Andreaggi

Il titolo, pur evocativo, non fa riferimento alle imprecazioni che potrebbero venire in mente, bensì a una salita dalla storia affascinante.

La celebre Salita dei Moccoli si trova nella zona sud di Firenze, nel quartiere Gavinana. Il percorso prende avvio a metà di Via del Paradiso e si sviluppa fino al Borgo dei Moccoli, lungo Via Benedetto Fortini.

L'origine del nome affonda le radici in un'antica tradizione legata alla processione del Corpus Domini. In occasione di questa celebrazione, lungo i muri di cinta venivano sistemati gusci di chiocciole svuotati, riempiti d’olio e dotati di uno stoppino. Questi piccoli lumi, chiamati “moccoli”, illuminavano il cammino della processione, creando un’atmosfera suggestiva e solenne che avvolgeva la strada e ne conferiva il nome. Un dettaglio storico che rende questo angolo di Firenze ancora più affascinante.

Questa è però solo una delle tante affascinanti storie che Lorenzo Andreaggi racconta nel suo approfondito volume dedicato alla storia del contado fiorentino del Bandino.

Attraverso una ricca narrazione, l'autore porta alla luce un patrimonio fatto di memorie, leggende e testimonianze che tratteggiano la vita e le tradizioni di questo territorio. Il libro è un vero e proprio viaggio nel tempo, in cui prendono forma i racconti legati ai personaggi che hanno animato queste terre, ma anche gli aneddoti familiari che hanno contribuito a tessere la storia quotidiana della comunità.

Un’attenzione particolare è riservata alla suggestiva Grotta del Bandino, un luogo affascinante che racchiude in sé storie e leggende legate al passato e alla cultura locale. 

Il libro di Lorenzo Andreaggi si caratterizza per l'accuratezza della ricerca, la passione per le tradizioni e il desiderio di mantenere viva l'essenza di un territorio che merita di essere valorizzato.

Arricchito da un’accurata selezione di fotografie e dettagliate piante topografiche, il volume offre un quadro visivo che riesce a coinvolgere anche il lettore che non ha familiarità con questo territorio, accompagnandolo alla scoperta del contado fiorentino.

Un lavoro curato nei minimi particolari, capace di trasmettere non solo informazioni storiche, ma anche l’emozione di un luogo intriso di memoria e fascino.




sabato 26 aprile 2025

“Onesto” di Francesco Vidotto

Rapito in tenerissima età, Onesto ritrova la sua famiglia all’età di cinque anni. Un ristretto nucleo famigliare composto esclusivamente da lui, suo fratello gemello Santo e sua madre Rita. I tre vivono in condizioni di povertà, lottando ogni giorno per sopravvivere. Tuttavia, ciò che non manca è l’amore, che rappresenta la loro ricchezza più grande, un legame capace di resistere alle avversità più dure.

Nonostante l’amore famigliare, il destino di Onesto sarà segnato dalla solitudine e, forse per riempire quel vuoto, o forse per aggrapparsi ai ricordi, Onesto inizierà a trovare conforto nella scrittura. Le sue lettere, indirizzate non a persone, ma alle amate montagne del Cadore, diventano il suo diario segreto, la voce con cui confidare tutto ciò che gli pesa sul cuore. Le montagne, immutabili e silenti, sono per lui non solo un rifugio fisico, ma anche emotivo, un simbolo della sua eterna appartenenza.

Guido Contin, soprannominato Cognac, possiede solo due cose di grande valore: la sua dentiera e quelle lettere, accuratamente conservate in una cartellina nera dai bordi alzati. È proprio attraverso la lettura di quelle lettere che si svela al lettore la complessa e struggente storia di Onesto, del gemello Santo e di Celeste, la donna amata da entrambi sin da quando erano poco più che bambini.

Quella di Onesto è una storia familiare che, all’apparenza, potrebbe sembrare comune a tante altre, ma si rivela straordinaria per i tanti eventi che l’hanno attraversata: il rapimento, la miseria, la violenza, la guerra che hanno segnato le vite dei protagonisti. Sullo sfondo, le montagne del Cadore rimangono immutate, testimoni silenziose del tempo che passa, in contrapposizione ai cambiamenti nei paesi e nelle persone.

Il lettore si trova immerso nel racconto, quasi seduto accanto a Guido Contin e Francesco Vidotto, leggendo quelle lettere, vivendo le emozioni dei protagonisti, condividendo il loro dolore, la loro gioia, la loro speranza e le loro delusioni. È un’esperienza così coinvolgente che anche chi legge il romanzo può ritrovarsi sopraffatto da queste emozioni.

Ad un certo punto della narrazione, l’autore vorrebbe leggere l’ultima lettera per scoprire il mistero che essa custodisce, ma Cognac lo trattiene, affermando che, una volta letta, tutto sarà finito. Anche il lettore si ritrova combattuto: da un lato, la voglia di scoprire il finale; dall’altro, il rispetto per quei momenti che necessitano di riflessione e assimilazione.

Mi sono ritrovata a chiudere il libro, posandolo con cura, nonostante il desiderio di proseguire fosse forte, quasi irresistibile, ho scelto di aspettare il giorno successivo, seguendo i saggi consigli di Guido Contin. È stato un atto di rispetto, non solo verso la narrazione, ma anche verso il tempo necessario per assimilare e riflettere su ciò che avevo letto.

Il romanzo di Francesco Vidotto è un’opera che emoziona, commuove e tocca corde profonde. È una storia triste, ma intensa e autentica, in cui i sentimenti narrati emergono con forza. Le lettere, le montagne, e i personaggi diventano parte di un quadro che racconta la forza della memoria e dell’amore. È un libro che riesce a trasformare il dolore in poesia e che lascia il lettore con il desiderio di custodire ogni emozione narrata come un tesoro prezioso.

 


martedì 22 aprile 2025

“Claudia de’ Medici sul trono del Tirolo” di Louise von Mini-Hansen

Claudia de’ Medici (1604-1648), ultima figlia di Ferdinando I e Cristina di Lorena, fu una figura straordinaria per determinazione e lungimiranza.

La sua vita fu segnata da eventi drammatici e scelte coraggiose che la portarono a emergere come una delle donne più influenti della sua epoca.

Nel 1621, Claudia sposò Francesco Ubaldo Della Rovere, duca di Urbino, un matrimonio che si rivelò infelice a causa del carattere distante e arrogante del marito. L'unione generò una sola figlia, Vittoria Della Rovere, ma non riuscì a garantire la continuità dinastica del Ducato di Urbino, che tornò sotto il controllo papale. Rimasta vedova a soli diciannove anni, Claudia tornò a Firenze con la figlia e si ritirò in convento.

Il 25 marzo 1626, Claudia sposò per procura l'arciduca Leopoldo V d’Asburgo, diventando arciduchessa d’Austria e contessa del Tirolo. Questo secondo matrimonio fu felice e prospero, ma si concluse prematuramente con la morte di Leopoldo nel 1632. Nonostante le iniziali resistenze dell'imperatore, Claudia fu nominata reggente del Tirolo, seguendo le volontà testamentarie del marito, e governò con saggezza fino alla maggiore età del figlio primogenito, Ferdinando Carlo.

Claudia si distinse per la sua abilità politica e amministrativa in un contesto dominato dagli uomini e segnato dalla guerra. Fu una sovrana attenta ai bisogni dei suoi sudditi, promotrice del bilinguismo e delle arti, trasformando la corte di Innsbruck in un centro culturale di grande prestigio. Inoltre, incentivò gli scambi commerciali istituendo il Magistrato Mercantile, contribuendo a rafforzare l'importanza internazionale di Bolzano.

Profondamente cattolica, Claudia lasciò che la sua fede guidasse molte delle sue azioni, ma non permise mai che il suo ruolo di donna la relegasse ai margini. La sua determinazione e il suo spirito innovativo la resero una figura unica nel panorama politico e culturale dell'epoca.

La sua vita è narrata in forma di romanzo, una lettura piacevole e coinvolgente, sebbene non priva di gravi errori storici.

Tra gli errori presenti nel libro, spicca la congiura dei Pazzi, che l'autrice colloca erroneamente il lunedì di Pasqua invece che nell'ultima domenica di Pasqua, come realmente accaduto. Un altro errore riguarda il nome del fratello di Lorenzo de' Medici: nel libro è chiamato Piero, ma il suo nome era Giuliano (Piero era invece il nome del loro padre).

Particolarmente grave è la confusione tra Cosimo I e Cosimo il Vecchio, che l’autrice perpetua per diverse pagine. Louise von Mini-Hansen attribuisce a Cosimo I, nonno di Claudia, il merito di aver commissionato a Brunelleschi i lavori per la cupola del Duomo di Firenze, arrivando persino a definirlo il "talent scout" dell'architetto. Le date fornite nel testo (nascita 1519 e morte 1574) riferite a Cosimo I sono corrette, peccato che Brunelleschi visse molti anni prima (1377-1446), rendendo questa attribuzione evidentemente impossibile.

Gli errori genealogici e storici proseguono, ma anche limitandosi ai sopracitati, è evidente quanto incidano negativamente sulla qualità del volume.

La figura di Claudia de’ Medici rimane affascinante e merita di essere ricordata per il suo contributo alla storia e alla cultura del suo tempo, ma le gravi inesattezze riportate nel libro rendono difficile consigliare la lettura dell’opera. Un vero peccato.

 



domenica 20 aprile 2025

“Alma” di Federica Manzon

Il passato: fardello o risorsa? Questo interrogativo attraversa tutto il romanzo, insinuandosi nelle riflessioni della protagonista e nelle dinamiche della trama. Indubbiamente, il passato è essenziale per comprendere se stessi e le proprie origini. Eppure, può trasformarsi in un peso soffocante, un bagaglio ingombrante da sotterrare per vivere più serenamente, concentrandosi esclusivamente sul futuro. Non di rado viene percepito come un masso legato alla caviglia, un vincolo che ostacola il percorso verso la realizzazione personale e l'apertura a nuove prospettive.

Alma, protagonista del romanzo di Federica Manzon, incarna perfettamente questa lotta interiore. Decisa a lasciarsi alle spalle il suo passato, si trasferisce a Roma per ricominciare a vivere. Tuttavia, i ricordi si rivelano tenaci, inseguendola nonostante i suoi tentativi di rimuoverli. Inevitabilmente, giunge il momento in cui Alma è costretta a confrontarsi con quell'eredità che tanto aveva cercato di ignorare. La chiamata arriva sotto forma dell'eredità paterna: Alma deve tornare nella sua città natale, Trieste.

Trieste è per Alma il crocevia delle sue radici, un intrico di culture e lingue diverse. Da un lato, la tradizione del nonno, legata all’Impero Austro-Ungarico e al mondo accademico e borghese. Dall’altro, il retaggio paterno, permeato della cultura slava e di un universo estraneo, eppure famigliare al tempo stesso, il "di là". 

In questo ritorno, Alma si scontra con la complessità del proprio passato e delle proprie origini. La sua infanzia era stata segnata da un mosaico di passioni per la letteratura, il teatro e la poesia, retaggi di un’Europa antica, intrecciati al comunismo slavo e ai paesaggi del Carso, dove la famiglia si era trasferita dopo la rottura con i nonni materni.

Il difficile rapporto di Alma con il padre, una figura enigmatica divisa tra l’Italia e l’ex Jugoslavia di Tito, rappresenta un nodo irrisolto; il padre è al contempo un personaggio distante e affascinante.

L’assenza di radici solide, frutto della scelta consapevole dei genitori per garantire ad Alma la libertà di plasmare il proprio futuro senza vincoli, si rivela una libertà ambivalente. Crescendo senza punti di riferimento chiari, Alma si rifugia nell'evitare legami profondi e nell'esperienza di relazioni fugaci.

Non meno complesso è il legame con la madre, che canalizza tutto il suo amore verso il marito, lasciando Alma ai margini e contribuendo al suo senso di alienazione.

Il romanzo di Federica Manzon si distingue per una narrazione stratificata, densa di introspezione psicologica e riflessioni sulla storia. Contrappone figure opposte, come il nonno e il padre di Alma, mentre la protagonista emerge come un simbolo delle tensioni e degli ideali delle loro culture.

Un altro personaggio che arricchisce la narrazione è Vili, giovane figlio di intellettuali belgradesi, in fuga dalle persecuzioni di Tito. Anche lui vive lo sradicamento, lontano dalle sue origini, condividendo con Alma il tormento di una ricerca identitaria. Due anime affini, accomunate dalla difficoltà di trovare un equilibrio personale e di coppia.

La prosa di Federica Manzon sfida il lettore, procedendo con lentezza iniziale e conquistandolo a poco a poco. L’autrice non offre riferimenti geografici espliciti, affidando al lettore il compito di collegare luoghi e contesti storici, come l’ex Jugoslavia di Tito e le guerre che ne seguirono. Il romanzo indaga le sfumature della storia, dove bene e male si intrecciano, dove i fatti sono sempre sporchi e opachi, dove spesso i crimini restano impuniti e le ferite dell’anima si trasformano in cicatrici profonde.

"Alma" un libro che stimola riflessioni profonde, proponendo una visione sfaccettata e complessa delle eredità culturali e delle scelte personali.

 

 


domenica 13 aprile 2025

“Il nonno racconta Firenze” di Luciano e Ricciardo Artusi

Si afferma che ignorare il passato precluda la comprensione del presente e condanni all'ignoranza sul futuro, per quanto esso rimanga insondabile.

Partendo da questa riflessione, Luciano e Ricciardo Artusi dedicano il loro libro alle nuove generazioni, con l'obiettivo di stimolarne la curiosità verso il passato e di incoraggiarle a esplorare l'immenso patrimonio artistico, storico e culturale lasciato dagli antichi fiorentini.

Il racconto inizia dalle ere geologiche più antiche, quando l'area destinata a ospitare Firenze era sommersa da un vastissimo lago, che si estendeva fino a Pistoia. Da questo scenario primordiale, il viaggio si snoda attraverso le epoche, raccontando la Firenze romana, medievale e rinascimentale, con i suoi straordinari contributi artistici e culturali. Particolare enfasi è posta sull'influenza delle dinastie medicea e lorenese, che hanno plasmato la città e l'hanno resa un faro di arte e civiltà. Il percorso culmina con gli anni in cui Firenze fu scelta come "Capitale" del neonato Regno d’Italia, un periodo cruciale che si estese dal 1865 al 1871.

Il libro segue un rigoroso ordine cronologico, arricchito da una miriade di aneddoti, modi di dire, vicende storiche, curiosità e personaggi che tornano in vita attraverso le sue pagine. È un viaggio affascinante e dettagliato, lungo ben 483 pagine, che attraversa i secoli, permettendo al lettore di immergersi completamente nella storia di Firenze.

Camminando per le strade di questa città unica, ci si imbatte in numerosi segni tangibili del suo passato glorioso: targhe commemorative, tabernacoli, pietre, simboli, tutti testimonianze silenziose di ciò che è stato.

Il libro di Luciano e Ricciardo Artusi si rivela una vera e propria mappa di questi segni, un invito a interpretarli e decifrarli, per riscoprire il significato nascosto dietro ogni dettaglio.

Il volume è organizzato in brevi capitoli, strutturati come delle schede tematiche. Ogni capitolo esplora uno specifico argomento che, grazie a riferimenti incrociati, si intreccia con gli altri, garantendo al lettore un racconto coerente e uniforme. Questa struttura rende il libro un’esperienza coinvolgente e istruttiva, ideale per chi desidera approfondire le molteplici sfaccettature della storia fiorentina.

Un'opera che affascina e incanta, proprio come la sua protagonista: Firenze.


 


giovedì 27 marzo 2025

“Per ornamento dello Stato, per utilità del Pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri” a cura di Samuele Lastrucci

Dal 2001, ogni 18 febbraio, Firenze celebra il giorno dedicato alla memoria di Anna Maria Luisa de’ Medici, ricorrenza che segna l'anniversario della morte dell'Elettrice Palatina, ultima discendente del ramo granducale dei Medici. Questo tributo sottolinea il suo straordinario apporto alla tutela del patrimonio culturale della città e della Toscana.

Grazie alla sua visione e determinazione, Firenze e l'intera regione hanno potuto preservare una concentrazione ineguagliabile di opere d'arte e documenti d'archivio.

Diversamente da ciò che accadde in altri Stati italiani, dove collezioni come quelle Farnese del Ducato di Parma e Piacenza furono trasferite a Napoli o quelle del Ducato di Urbino finirono in Toscana come eredità di Vittoria della Rovere, Anna Maria Luisa de’ Medici riuscì a proteggere le collezioni medicee da una simile dispersione.

Con la Convenzione sottoscritta il 31 ottobre 1737 insieme a Francesco Stefano di Lorena, l'Elettrice stabilì il vincolo delle collezioni alla città di Firenze e alla Toscana, un atto di coraggio straordinario per il suo tempo.

Il volume offre le copie anastatiche del celebre "Patto di Famiglia" in francese e in italiano, insieme a documenti correlati, come la ratifica di Francesco Stefano di Lorena, le lettere e l'Inventario delle gioie di Casa Medici. Questi preziosi materiali, conservati nell'Archivio di Stato di Firenze (fondo Trattati internazionali al n. 56), permettono di approfondire il contesto storico dell'accordo.

Le intenzioni di Anna Maria Luisa non si limitavano a tutelare le sole opere d'arte: ella desiderava infatti salvaguardare argenti, mobili, reliquie e altri beni preziosi delle guardarobe, ville e palazzi di città e campagna. Tuttavia, il testo definitivo della Convenzione escluse questi oggetti, considerandoli d'uso quotidiano, il che ne consentì purtroppo la dispersione.

Un'importante sezione del volume, curata da Samuele Lastrucci, approfondisce la complessa situazione politica europea ai tempi di Cosimo III e di Gian Gastone, facendo chiarezza anche sulla natura degli Stati medicei, natura che in verità appariva piuttosto confusa ieri come oggi.

Il volume, pubblicato dalla Regione Toscana, mira a coinvolgere cittadini e studiosi nella riscoperta della storia legata alla trasmissione del patrimonio mediceo. Attraverso le sue pagine, viene messo in evidenza il ruolo fondamentale svolto dall'Elettrice Palatina nel definire l'identità culturale di Firenze e della Toscana.

La sua lungimiranza non solo ha salvaguardato un patrimonio inestimabile, ma ha anche anticipato i tempi, gettando le basi per la nascita del turismo culturale come lo intendiamo oggi.





domenica 23 marzo 2025

“Il buio e le stelle” di Luigi De Pascalis

Luigi De Pascalis torna a narrare le vicende di Andrea Sarra, già protagonista de “La pazzia di Dio” (2010), in una nuova opera che espande e completa la storia precedente.

Nel romanzo originale, la narrazione prendeva avvio con la nascita del protagonista nel 1895, seguendo la sua crescita fino alla partenza per Zanzibar nei primi anni ’20 del Novecento. In questa nuova versione, intitolata “Il buio e le stelle,” “La pazzia di Dio” viene inglobato e integrato come parte di una narrazione più ampia che approfondisce ulteriormente il destino di Andrea.

Il romanzo si apre con l’introduzione del capostipite della famiglia Sarra, Sigismondo, il nonno di Andrea. Sigismondo è descritto come un uomo autoritario, consapevole del potere che gli derivava dalla sua posizione di proprietario terriero. Questo spaccato risale agli anni successivi all’Unità d’Italia, un periodo segnato anche dal fenomeno del brigantaggio, offrendo un affresco storico denso di dettagli.

Il vero fulcro dell’ampliamento della narrazione, tuttavia, è costituito dalla permanenza di Andrea a Zanzibar, un luogo che rappresenta tanto un rifugio quanto un teatro di conflitti personali e politici.

Ne “La pazzia di Dio,” il viaggio di Andrea lasciava il lettore col fiato sospeso e con molte domande sulla possibilità di trovare la libertà e la verità sulla figura paterna. Ne “Il buio e le stelle,” scopriamo un Andrea profondamente trasformato, segnato dagli orrori della guerra e sempre più ossessionato dal desiderio di comprendere il passato del padre. Nonostante il genitore sia deceduto, Andrea sembra ancora alla ricerca della sua approvazione, come quando da ragazzo scelse di partire per il fronte.

Il contrasto tra il mondo di Borgo San Rocco, immaginario paese abruzzese che fa da sfondo al primo romanzo, nonché alla prima parte di questa nuova edizione, e la realtà tumultuosa di Zanzibar è netto. Se da una parte Borgo San Rocco rappresenta un microcosmo di provincialismo e tradizioni radicate, dove reale e imponderabile riescono a coesistere; Zanzibar appare come un mondo affascinante ma pericoloso, popolato da avventurieri, schiavisti e politici corrotti. Eppure, nonostante l’immensa distanza dall’Italia, Andrea non sfugge al controllo del regime fascista, trovandosi a dover affrontare rappresentanti del partito anche lì, in quella che avrebbe dovuto essere per lui una terra di libertà.

La narrativa di De Pascalis tesse abilmente una trama in cui i fantasmi del passato si mescolano con la realtà cruda e complessa del presente, creando un racconto ricco di pathos e introspezione.

La scelta di completare e ampliare il romanzo iniziale si rivela non solo coerente, ma anche necessaria per fornire una conclusione più esaustiva alla storia di Andrea Sarra.



venerdì 21 marzo 2025

“Don Antonio de’ Medici e i suoi tempi” di Filippo Luti

Quando nel 1587 Francesco I de’ Medici e Bianca Cappello morirono in misteriose circostanze a poche ore di distanza l’uno dall’altro, il figlio Antonio aveva appena undici anni.

La tragica scomparsa dei granduchi portò molti a incolpare, oggi si ritiene ingiustamente, il futuro granduca Ferdinando I. Tuttavia, è certo che Ferdinando orchestrò un inganno a danno di Don Antonio.

Infatti, questi era nato fuori dal matrimonio, quando Francesco I era ancora sposato con Giovanna d’Austria. Dopo il matrimonio con Bianca, Francesco lo legittimò come suo erede. Ferdinando, però, insinuò dubbi sulla paternità di Francesco e persino sulla maternità di Bianca.

La figura di Don Antonio è senza dubbio una delle meno conosciute del panorama mediceo, ma in verità si tratta di un personaggio molto interessante e di notevole spessore.

Dimostrò sin da giovane straordinarie doti diplomatiche e militari, anche se fu costretto ad abbandonare quasi subito la carriera militare per motivi di salute. Uomo colto e affascinato dal sapere scientifico, ebbe contatti con personaggi illustri del tempo, tra cui Galileo Galilei. Appassionato di musica e spettacolo, fece costruire un teatro nel Casino di San Marco, eletto a sua dimora in città. Proprio qui fu messa in scena l’Euridice di Ottavio RInuccini, sotto la direzione di Giulio Caccini.

Don Antonio non fu appassionato solo di musica e teatro, di scienza e alchimia, di caccia, cavalli e armi, che fabbricava egli stesso, ma mostrò grandissimo interesse anche per l’arte e il collezionismo. Oltre a busti, statue e bassorilievi possedeva una meravigliosa quadreria. Alcuni artisti presenti nelle sue collezioni: Andrea del Sarto, Leonardo Da Vinci, Raffaello, Mantegna, Botticelli, Michelangelo, Pontormo e Giambologna.

Nonostante la frode che Ferdinando I attuò nei confronti del nipote, i loro rapporti furono molto stretti; il granduca di fatto si appoggiò moltissimo al nipote del quale riconosceva la vasta cultura e  le grandi doti diplomatiche.

Il rapporto con la corte si raffreddò sempre più dopo la morte di Ferdinando. Don Antonio aveva acconsentito alla richiesta dello zio di entrare nell’Ordine dei Cavalieri di Malta accettando di conseguenza il celibato, ma durante la sua vita ebbe due compagne che gli diedero quattro figli. Preoccupato per il futuro dei suoi eredi, Don Antonio avviò cause legali per garantirne il benessere, cause che si protrassero anche dopo la sua morte.

L’opera di Filippo Luti offre l’analisi più completa sulla vita di Don Antonio, superando in dettaglio quella di Pier Francesco Covoni (“Don Antonio de' Medici al casino di San Marco”) di fine Ottocento e il lavoro più recente di Paola Maresca (“Don Antonio de’ Medici. Un principe alchimista nella Firenze del '600, 2018).

Don Antonio de’ Medici e i suoi tempi” è un saggio molto ben articolato ed esaustivo, corredato di una vasta bibliografia, tantissime citazioni e ricco di richiami al cospicuo patrimonio epistolare.

Un vita, quella di Don Antonio, caratterizzata da intrighi, cultura e dedizione alla famiglia, che lo rendono una figura del suo tempo oltremodo affascinante.




lunedì 10 marzo 2025

“Natività. Madre e Figlio nell’arte” di Vittorio Sgarbi

Nel mondo pagano, gli dèi erano incarnazioni ideali della perfezione umana: più belli, più forti, più saggi, ma al contempo inaccessibili e distanti. Con la religione cristiana, questo paradigma viene capovolto. L'amore sostituisce la potenza divina: Dio si fa uomo per amore degli uomini. Il Figlio di Dio nasce da una donna, da una madre.

Nel suo saggio, Vittorio Sgarbi ci accompagna in un affascinante viaggio attraverso i secoli, rivelando come gli artisti abbiano rappresentato un tema che è, insieme, sacro e profondamente umano. L'arte diventa un riflesso intimo e universale della semplicità degli affetti, celebrando il legame primordiale e tenero tra madre e figlio.

Il percorso inizia con le Natività e le Annunciazioni bizantine, immerse in cieli dorati. Da Duccio, ultimo e più grande esponente dello stile bizantino, il viaggio prosegue toccando le opere di maestri immortali quali Giotto, Botticelli, Leonardo, Piero della Francesca, Raffaello, Michelangelo e Rubens. Il cammino sfocia nella pittura moderna dell'Ottocento e del Novecento rappresentata da Segantini, Previati e Gaudenzi.

Pagine di particolare rilievo sono dedicate all'analisi della Madonna del Parto di Piero della Francesca, all'Annunciazione di Lorenzo Lotto e al confronto tra il Bambino dipinto nel Tondo Doni e quello scolpito nella Madonna di Bruges, entrambi capolavori di Michelangelo.

Un dettaglio storico merita una doverosa correzione: Girolamo Savonarola non fu arso vivo, bensì impiccato prima di essere arso.

Il saggio prende in esame una miriade di artisti; tuttavia, i limiti di un volume non potevano includere ogni voce significativa. Una lacuna a mio avviso, ma solo per l’amore che porto a quest’opera, è l'assenza di un riferimento ad Andrea del Sarto e alla sua Madonna delle Arpie,

Sono particolarmente apprezzabili i richiami ai versi danteschi, che hanno ispirato molte opere d'arte. La cura grafica del volume e la straordinaria documentazione fotografica lo rendono un volume di grande pregio.

Questo saggio non è solo una lettura, ma un invito a visitare musei e chiese, a scoprire tesori nascosti. Un viaggio che accende la curiosità e il desiderio di immergersi nella bellezza senza tempo dell’arte.

 


 

sabato 8 marzo 2025

“La pazzia di Dio” di Luigi De Pascalis

Andrea Sarra nasce a Borgo San Rocco il 12 marzo 1895. È lui il protagonista e io narrante della vicenda che prende avvio proprio dal racconto dei suoi primi trent'anni di vita. Una narrazione che si intreccia con quella dei suoi familiari, dei compaesani e, in un gioco di sovrapposizioni, con le grandi vicende della Storia, quella con la "S" maiuscola.

Dal 1895 al 1925, Andrea attraversa il delicato passaggio dall'infanzia all'età adulta, crescendo e forgiandosi come uomo. Sullo sfondo troviamo un mondo sconvolto da eventi epocali: la Prima Guerra Mondiale, le ondate di emigrazione, l'epidemia di spagnola e l'avvento del fascismo.

La pazzia di Dio si presenta come un romanzo di formazione, ma è al contempo anche un racconto corale. Borgo San Rocco, il paese natale di Andrea, è frutto della fantasia dello scrittore, così come lo è la famiglia Sarra, protagonista della vicenda. Questo microcosmo immaginario diventa metafora e ritratto della realtà contadina, quella stessa realtà destinata a scomparire nel volgere di pochi decenni.

La narrazione si dipana attraverso diversi registri, riflettendo la varietà dei personaggi che animano le pagine del romanzo. Anche il ritmo del racconto muta costantemente: accelera o rallenta in sintonia con l'intensità degli eventi. Così, la scrittura passa dall’essere ironica e divertente all’uso di toni riflessivi e malinconici, seguendo il fluire imprevedibile delle circostanze.

Nella vita nulla resta invariato, tutto è cambiamento. I rapporti tra le persone si trasformano: ci si scopre spesso più vicini a coloro che si ritenevano tanto diversi e più distanti da chi invece si pensava essere tanto simile.

La pazzia di Dio è un'opera di legami familiari, di sogni spezzati, di speranze tradite e di rimpianti. Ma è anche un racconto intriso di voglia di riscatto e di speranza.

De Pascalis dipinge un mondo antico e ancestrale, intriso di riti, credenze e religiosità. Un mondo dove il rispetto e la dignità rappresentano valori assoluti, indipendentemente dal ceto sociale, e dove non sorprende neppure incontrare il fantasma di famiglia aggirarsi tra le mura di casa. È un mondo scandito dal ritmo ciclico delle stagioni, armonizzato con la terra.

Ma quel mondo antico, con le sue buone maniere e l’importanza dell'abito della festa, si sgretola sotto il peso del progresso e delle rivoluzioni sociali lasciando sempre più spazio alla forza e alla prepotenza del nuovo che avanza.

Quello dipinto da De Pascalis con tanta maestria è un mondo capace di imprimersi profondamente nel cuore e nella memoria del lettore, lasciando in lui una traccia indelebile.

 


domenica 23 febbraio 2025

“I sette corvi” di Matteo Strukul

Nicla Rossi vede due alunni allontanarsi durante la pausa e decide di seguirli per riportarli indietro. Si addentra nel bosco, li chiama, ma di loro non sembra esserci traccia. L’insegnante avverte qualcosa di diverso in quel luogo a lei tanto familiare, percepisce la presenza di un qualcosa di inquietante e primordiale che non sa spiegare. Nicla Rossi non uscirà viva da quel bosco.

Ad indagare sul presunto omicidio vengono inviati da Belluno la giovane ispettrice Zoe Tormen e il medico legale Alvise Stella. Il caso si rivelerà fin da subito complesso e carico di dettagli inspiegabili.

 

Zoe Tormen indossa abiti sportivi, una camicia a quadri e un parka, è dotata di un fascino molto particolare. È appassionata di rally, guida una Lancia Delta Martini, è amante della montagna e ascolta musica grunge.

 

Zoe e Alvise hanno due caratteri molto diversi. È la prima volta che si trovano a lavorare insieme, ma tra i due nasce subito un’ottima intesa, grazie anche alla capacità del medico legale di saper rispettare le zone d’ombra di Zoe.

 

Per la prima volta Matteo Strukul si cimenta con il genere thriller e direi che lo fa nel modo migliore. Il soggetto è una leggenda nera che dimora da cinquecento anni in un immaginario paesino di montagna situato al confine tra il Veneto e il Friuli. È un paesaggio a metà tra reale e fantastico quello in cui si trova immerso il lettore, un luogo ai confini del mondo popolato da centinaia di leggende, un luogo dove il limite tra possibile e impossibile diventa pagina dopo pagina sempre più impalpabile.

 

Come per ogni suo romanzo, si vede quanto lavoro di ricerca ci sia stato prima di arrivare alla stesura definitiva del racconto che non presenta mai una sbavatura. La storia è perfettamente ambientata nella metà degli anni ’90 e un aspetto che ho molto apprezzato è quello di aver arricchito il racconto con una colonna sonora di quegli anni. The Cure, The Cranberries, Nirvana, The Black Crowes sono solo alcuni degli artisti citati. Molto indovinata l’idea di inserire al termine una playlist delle canzoni.

 

Se tante sono le citazioni musicali, altrettante sono le fonti di ispirazione e le citazioni letterarie e fumettistiche; da quelle più evidenti, come “Il Corvo” di James O'Barr o “Gli Uccelli” di Daphne du Maurier, a quelle meno palesi. Potrei citare una frase su tutte: “cadde come corpo morto” di dantesca memoria.

 

“I sette corvi” è un thriller dal ritmo incalzante, una fiaba gotica dove leggenda e magia si fondono in un intreccio oscuro e affascinante.

 

Una cosa è certa, sia che si tratti di un romanzo storico, sia che si tratti di un thriller, Matteo Strukul sa sempre come catturare l’attenzione del lettore.