Siamo nell’Hindostan del
XVI secolo, alla corte del sultano Akbar, nipote del fondatore della dinastia
Moghul d’India Babur.
La corte del terzo
imperatore Moghul è un luogo dove, per volere dello stesso sultano, sono accolte tutte le religioni; islamici,
sunniti, sciiti, indù, ebrei, zoroastriani e nazareni possono dialogare tra
loro e professare liberamente la propria fede.
Akbar fu un sovrano
illuminato, tanto che nel libro alcuni cortigiani non esitano a paragonarlo a
Federico II di Svevia e persino al grande Salomone. Egli più che per le sue vaste conquiste (Afghanistan orientale,
Bengala, Kashmir e gran parte del Deccan), sarà
ricordato dalla storia proprio per il suo audace tentativo di riforma religiosa
che mirava a pacificare ogni tipo di etnia, tentativo purtroppo che non ebbe
alcun seguito.
Torniamo però al
romanzo che come avrete capito intreccia fortemente fedeltà storica e finzione
letteraria.
L’apertura a ogni etnia come è facile aspettarsi suscita
nella corte molto malcontento. Non solo ci sono due fazioni contrapposte quella dei tradizionalisti e quella del
ragionamento a scuotere le mura della Casa del Culto, ma anche forti interessi
personali e invidie come in ogni corte che si rispetti.
La maggior parte dei personaggi che animano le pagine della
Luce di Akbar sono storicamente esistiti: l’erudito Abul Fazl, il rigoroso
Badauni, il gesuita Acquaviva, i due rivali Shahbaz khan e Aziz Koka.
Le lotte e gli intrighi non interessano solo i cortigiani, ma i figli stessi del Grande Re: il
primogenito Salim bello e tormentato,
Murad, cinico e arrogante, Daniyal, aitante e ingenuo.
Proprio Salim è uno dei protagonisti principali del romanzo
insieme a Samir, figlio dell’ingenuo funzionario hindu Jamal, una delle tante inconsapevoli
vittime delle spietate trame di corte.
Salim e Samir hanno in
comune due cose: il risentimento che
nutrono nei confronti dei rispettivi padri e l’amore per la bella principessa
Man Bai.
Tante le tematiche di
questo libro: dal già citato conflitto genitori/figli, alle guerre di
religione, alla sete di potere e di vendetta, alla condizione delle donne nello zenana fino all’amore impossibile e non
corrisposto.
Navid Carucci fa
rivivere davanti ai nostri occhi quel mondo lontano e a noi sconosciuto, un
mondo che quasi mai viene considerato dai nostri testi scolastici di storia
anche se, come ricorda Franco Cardini nella prefazione, non dovrebbe esserci
estraneo dal momento che l’opera di evangelizzazione svolta dai Gesuiti fra il
XVI e il XVIII secolo in quelle terre avvenne attraverso molti membri italiani
della Compagnia di Gesù.
L’idea del sincretismo
religioso a cui aspirava Akbar credo possa essere riassunta nell’evocativa
immagine suscitata da queste parole che Navid Carucci fa pronunciare al Grande
Re:
Pensate ad una grande ruota: lungo il bordo si allineano le
religioni, ma al centro di tutte vi è Dio. I mistici, da qualsiasi religione
muovano, tendono come i raggi verso il centro; e più si avvicinano a Dio, più
si avvicinano tra loro.
Molte guerre sono state
nei secoli indette nel nome della religione, ma la verità è che la religione è sempre stata solo un
pretesto per mascherare i veri motivi: sete di potere, desiderio di prevaricazione,
interessi politici ed economici.
Il fallimento del grande progetto dell’illuminato Akbar non
fu dovuto alla mancanza di dialogo, ma agli interessi personali dei vari gruppi
religiosi.
Triste è purtroppo dover
constatare che con il passare dei secoli poco o nulla sia mutato, costretti
oggi come allora ad assistere allo scontro delle diverse etnie in nome di una
religione che poco dovrebbe avere a che fare con odio e faziosità ma piuttosto
essere fonte di dialogo e rispetto reciproco.