Cosimo III de’ Medici, Pellegrino
tra trono e altare, come recita il sottotitolo scelto dall’autore,
visse la sua vita con lo sguardo più rivolto verso la beatitudine celeste
che verso le miserie umane e terrene. Il suo lungo regno che si
snodò sotto ben dieci pontificati, da Urbano I fino a Innocenzo XIII, fu
caratterizzato dai suoi eccessi religiosi e moralistici.
Nonostante l’educazione
umanistica impartitagli da insigni e autorevoli precettori, dimostrò assai
scarse risorse intellettuali. La stessa sua committenza artistica fu quasi
sempre rivolta verso il culto. Non esitò a dilapidare il patrimonio del
Granducato per costruire chiese e conventi, così come non esitò ad alienare
parte delle collezioni medicee per arricchire gli apparati liturgici delle
chiese. Ossessionato dalle reliquie, di cui cercava in ogni modo di fare
incetta, non si risparmiò mai dal mettere in campo ogni risorsa per la
moralizzazione dei costumi, arrivando anche a bruciare parecchi libri perché considerati pericolosi per la fede. Insomma, arrivò a comportarsi persino peggio
del Savonarola e dei suoi Piagnoni.
Non stupisce quindi che quando,
alla veneranda età di 81 anni e dopo ben 53 anni di regno, Cosimo III lasciò
la vita terrena, i fiorentini videro la sua morte come una liberazione tanto a
lungo attesa. Nessuno, se non qualche ipocrita, poté rimpiangere la
dipartita di un sovrano che non dimostrò mai alcun amore per quei suoi sudditi
che nel corso degli anni aveva ripetutamente tassato e spremuto fino all’ultima
goccia a favore del clero.
La figura di Cosimo III fu vista come una macchietta dai suoi contemporanei persino in Vaticano nonostante
egli profondesse tanto denaro a favore della religione. Il suo matrimonio
disastroso con la cugina del Re Sole, Marguerite Louise d’Orleans che
abbandonò il tetto coniugale per far ritorno in Francia, ma che pur lontana non perdette mai occasione per rendergli la vita amara, e l’anaffettività dimostrata
nei confronti dei figli maschi, il Gran Principe Ferdinando e Gian Gastone, non
fanno che avvalorare l’immagine di un sovrano che altro non fu che la parodia della
grandezza dei suoi predecessori.
Impietoso è il giudizio di
Alberto Bruschi per questo sesto Granduca di Toscana, la cui ottusa
bigotteria fu pari solo alla sua superbia, tanto da escludere quasi con
certezza che nessuna futura scoperta potrà mai salvarlo dal giudizio negativo
con cui la storia lo ha accompagnato fino ai giorni nostri.
Nei testi dedicati agli ultimi
esponenti della dinastia Alberto Bruschi è sempre stato molto imparziale; non
ha mai fatto loro nessuno sconto, però, è sempre riuscito a cogliere quell’elemento
delle loro vicende che, senza voler giustificare nessuno, poteva essere quanto
meno un’attenuante per gli errori commessi. Attenuanti che Bruschi non negò
neppure ad Anna Maria Francesca di Sassonia-Lauenburg, moglie di Gian Gastone, la
fiorentina mancata, nel libro a lei dedicato.
Per Cosimo III, invece, Alberto
Bruschi sembra non riuscire neppure a trovare delle attenuanti e, anche
impegnandosi a ricercare qualche elemento che possa riscattarne almeno in parte
l'operato, poco o nulla emerge se non l’aver riportato a
Firenze il corpo di Giovanni dalle Bande Nere che dal 1526, anno della sua
morte, riposava a Mantova.
Di questo libro che Alberto
Bruschi ha dedicato a Cosimo III de’ Medici sono state stampate nel 2018 invero
(parola tanto amata dall’autore) solo poche copie.
Alberto Bruschi fu molte cose nel corso della sua vita:
antiquario, ricercatore, archeologo, medievalista, studioso di araldica,
difficile se non impossibile stilare un elenco completo visti i suoi molteplici
interessi, ma non è per nulla singolare che in questo specifico caso egli, che fa riferimento a stesso utilizzando il plurale maiestatis, si
definisca un cantastorie.
Ebbene sì, questo volume non
è solo il racconto di Cosimo III de’ Medici, ma è l’affresco dell’epoca in
cui egli visse. È una summa di aneddoti non solo contemporanei al sesto Granduca di Toscana, ma anche il
racconto di eventi occorsi in epoche precedenti così come di eventi che avranno luogo negli anni successivi.
Non è facilissimo seguire il
filo della narrazione poiché, a differenza degli altri scritti di Bruschi, qui
il racconto segue un percorso funambolesco; un percorso, se vogliamo
difficile, che mette a dura prova il lettore, ma allo stesso tempo lo rende
anche molto attento e partecipe.
Si avverte in questo scritto
quasi un’urgenza da parte dell’autore di voler trasmettere tutti quegli
elementi riemersi dal passato, quasi una sorta di testamento perché nulla
di quello da lui raccolto nel corso di tanti anni di ricerca possa
andare perduto. In queste 450 pagine, infatti, tantissimi sono gli spunti che meriterebbero un ulteriore approfondimento; sarebbe davvero impossibile incamerare tutto ciò che è qui riportato nel corso di una sola lettura.
Il libro, come tutti gli
scritti di Alberto Bruschi, presenta una scrittura elegante e raffinata. È sempre un
piacere per il lettore incontrare quelle belle parole, tante ahimè ormai desuete,
che sono state non solo dimenticate, ma nel caso in cui
qualcuno per errore si azzardasse a pronunciare, verrebbe apostrofato malamente
in virtù del fatto che è oggi imperativo usare tanti begli anglicismi imposti da questa nostra società globale.
Non manca neppure la solita ironia
fiorentina del Bruschi a me tanto cara, ma si percepisce in questo suo
scritto una sorta di impercettibile cambiamento nel suo sentire, quasi che egli
avesse avuto qualche avvisaglia che il suo tempo stesse per giungere alla fine. Eppure,
Alberto Bruschi mancherà tre anni dopo la pubblicazione di questo volume.
C’è un’altra particolarità che
distingue questo libro dai precedenti dedicati dall’autore agli ultimi Medici o
comunque ai personaggi a loro vicini. Qui, più che nei precedenti
libri, emerge molto più forte lo sguardo del Bruschi rivolto al
mondo contemporaneo. C’è il suo pensiero sulla politica europea e
nazionale, sulla Chiesa e sull’Oriente. In questo volume, più che nei
precedenti, Bruschi prende una posizione netta e ne esce prepotentemente la
figura di un uomo che non ha più nessuna remora, se mai
davvero l'abbia avuta, ad apparire non politicamente corretto, Un uomo
forse anche po’ amareggiato da ciò che lo circonda, senza dubbio ormai disilluso.
Nelle ultime pagine, in
quelle poche righe dedicate all’amato Gian Gastone de’ Medici, però, ogni
disinganno e amarezza cedono il passo alla consueta sensibilità
e a quel sentimento di pietas che Alberto Bruschi nutrì sempre verso
quell’ultimo Granduca Medici che si ritrovò sul trono senza mai averlo
desiderato e che “(…) permise tutto a tutti. Solo a se stesso mai permise di
credersi qualcuno più importante di qualsiasi altro uomo”.