venerdì 23 agosto 2019

“Io, Caterina” di Francesca Riario Sforza

IO, CATERINA
di Francesca Riario Sforza
TEA
Caterina, figlia di Galeazzo Maria Sforza e della sua amante Lucrezia Landriani, nacque nel 1463 e fu allevata, con i fratelli nati dalla medesima relazione, insieme ai figli legittimi del duca nati dal matrimonio con Bona di Savoia.

Caterina Sforza diede prova del suo forte carattere già da bambina quando, ad appena  dieci anni, accettò di sposare senza alcun timore il pretendente per lei scelto, Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV, un matrimonio che l’avrebbe resa la figura femminile più importante dello Stato Pontificio.

Quando quattordicenne giunse a Roma per le nozze, Caterina trovò un ambiente che la ammaliò per il suo sfarzo ma che allo stesso tempo fu in grado di stimolare il suo già vivo interesse per l’arte e la cultura.

Dopo che il marito venne assassinato, a seguito di una congiura ordita ai suoi danni, Caterina dimostrò ancora una volta tutta la sua fierezza e la sua propensione al comando.

Infatti, come già accadde in occasione della morte di papa Sisto IV, quando ella non esitò a barricarsi dentro Castel Sant’Angelo tenendo in scacco l’intero Stato Pontificio pur di salvare le proprietà del marito, così, anche in questa occasione, la Tigre di Forlì non si tirò indietro pur di difendere quanto spettava al legittimo erede di Girolamo, Ottaviano Riario, che all’epoca era solo un bambino.

La vita di Caterina Riario Sforza fu una vita davvero avventurosa e vivace.

Rimasta vedova, dopo una breve e passionale relazione con Antonio Maria Ordelaffi, sposò in seconde nozze Giacomo Feo, fratello del suo castellano, molto più giovane di lei e, quando pure lui morì per mano della congiura ordita tra gli altri anche dal suo primogenito Ottaviano, sposò Giovanni de’ Medici, fratello di Lorenzo de’ Medici e figlio di Pierfrancesco de’ Medici, appartenenti al ramo cadetto dell’illustre famiglia.

Proprio dal matrimonio con Giovanni nascerà l’ultimogenito di Caterina Sforza, l’ultimo di molti figli nati da lei nel corso degli anni.

Il piccolo Giovanni, che passerà alla storia con il nome di Giovanni dalle Bande Nere, sarà il padre del futuro Cosimo I de’ Medici, il primo Granduca di Toscana.

Caterina Sforza lottò a lungo per difendere i suoi possedimenti di Imola e di Forlì; unica donna in mezzo agli uomini, riuscì per anni a destreggiarsi tra guerre, faide e congiure, fino a quando anche lei, come molti altri, dovette arrendersi di fronte al famigerato Cesare Borgia, il duca Valentino, il figlio del tanto discusso papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia.

Caterina, dopo essere stata rinchiusa per quasi un anno in una prigione senza sapere quale sarebbe stato il suo destino, venne finalmente liberata e le fu concesso di vivere gli ultimi anni della sua vita lontano dalla scena politica nella città di Firenze dove morì nel 1509.

Caterina Sforza fu una donna fuori dal comune, capace di guidare un esercito in battaglia, così come di saper fronteggiare gli avversari nel più sottile gioco della politica e della diplomazia.

Possedeva una cultura vastissima che sconfinava anche in quei campi che fino ad allora erano stati di esclusivo appannaggio maschile come l’alchimia e la chimica.

Appassionata di erbe, di medicina e di cosmesi, scrisse lei stessa un trattato giunto ai giorni nostri con il titolo di Experimenti composto da quattrocentosettantun ricette per combattere le malattie del corpo e conservare la bellezza. 

Dotata di un fascino speciale oltre che di una particolare bellezza, riuscì ad ammaliare artisti quali Leonardo Da Vinci e Botticelli, nei dipinti dei quali è oggi forse possibile individuare alcuni tratti che la ritraggono.
Nel libro si fa riferimento ad esempio al volto di una delle Grazie nella “Primavera” del Botticelli ed al sorriso della “Gioconda” di Leonardo Da Vinci.

“Io, Caterina”, scritto proprio da una discendente della protagonista del romanzo, Francesca Riario Sforza, è un libro molto piacevole e di facile e scorrevole lettura.

I riferimenti storici e l’ambientazione sono stati quasi sempre rispettati tranne laddove ovviamente l’autrice ha dovuto prendersi qualche licenza a favore dell’economia narrativa, non possiamo dimenticare che si tratta pur sempre di un romanzo.

Caterina Sforza fu indubbiamente un personaggio davvero singolare, una donna che pure alla fine dei suoi giorni non riuscì a rassegnarsi all’idea di dover ormai ricoprire un ruolo da comprimaria, lei che aveva voluto essere sempre padrona del suo destino anche a costo di pagare duramente le proprie scelte.

Aveva saputo lottare come una tigre per difendere gli interessi suoi e dei suoi figli distinguendosi, in un mondo di uomini, come una donna indipendente, forte e coraggiosa.

Caterina Sforza fu in grado di anticipare i tempi, una donna moderna alla quale, seppur vissuta quasi seicento anni fa, dovremmo ancor oggi ispirarci guardando a lei come ad un esempio da cui trarre ispirazione.










martedì 20 agosto 2019

“Resto qui” di Marco Balzano

RESTO QUI
di Marco Balzano
EINAUDI
Il romanzo è ambientato in Val Venosta nel Südtirol, una terra di confine e di lacerazione che, con l’avvento del fascismo, fu segnata dalla forte politica di italianizzazione; Mussolini, nella messa al bando della lingua tedesca, arrivò persino ad imporre il cambiamento dei nomi sulle lapidi.

Trina, ormai avanti con gli anni, decide di scrivere la storia della sua vita e lo fa rivolgendosi immaginariamente alla figlia, quella figlia scomparsa quando era appena una bambina senza lasciare traccia.

Sono passati tanti anni da quel giorno, Marica ormai sarà diventata donna, ma Trina può solo immaginarne l’aspetto ed interrogarsi su che tipo di madre sarebbe stata per lei.
                                                                                
Trina inizia raccontando il suo desiderio di diventare maestra, un sogno realizzato solo in parte poiché, l’anno  in cui aveva conseguito il diploma, le scuole del paese erano state sostituite dalla scuole di lingua italiana dove venivano assunti solo maestri che arrivavano da fuori.

Trina però non si era data per vinta e aveva iniziato ad insegnare nelle catacombe ossia a fare la maestra clandestina.

Sulla sua decisione aveva influito anche il voler far colpo su Erich, un ragazzo che faceva il contadino e che sarebbe divenuto di lì a breve, grazie all’intervento paterno, suo marito.

La vita di Erich e di Trina era stata una vita difficile segnata prima dall’ingerenza fascista, poi dall’intromissione di Hitler nella politica del Südtirol e subito dopo dallo scoppio della seconda guerra mondiale a cui aveva fatto seguito un dopoguerra che non aveva portato nessuna pace per le loro terre.

Trina, pagina dopo pagina, ci racconta del dolore provato per la scomparsa della figlia, della delusione per un figlio seguace del Führer e di quei giorni in cui insieme al marito, disertore sulle montagne, aveva imparato a non temere più nulla, neppure la morte.

Trina è una donna caparbia ed intelligente, una donna che non si lascia intimorire facilmente e che crede nel potere salvifico della parola, forte e resiliente come solo la gente di montagna sa essere.

Il racconto di Trina è il racconto di Curon e della sua gente, di quella gente che era rimasta e di quella che aveva lasciato il paese; è il racconto di coloro che erano tornati invalidi dalla guerra e di coloro che invece non ce l’avevano fatta; è il racconto dell’angoscia delle madri per i figli dispersi e della tristezza di quelle madri i cui figli, invece sopravvissuti, avevano scelto volontariamente di non tornare più al paese natio che non aveva più nulla da offrire loro.

Così leggendo degli eventi che si susseguono nella vita di Trina, pagina dopo pagina ci ritroviamo ad osservare anche la costruzione della diga, quella diga che per anni aveva tenuto con il fiato sospeso gli abitanti di Resia e di Curon nella speranza che il progetto non sarebbe mai stato portato a termine.

Invece, un giorno, l’acqua inonderà le case e le strade, e, nel nome del progresso, tutto verrà sommerso; là in mezzo al lago artificiale resterà visibile solo un campanile a ricordare che sotto quell’acqua un tempo viveva una comunità.

Quella punta di campanile oggi è diventata un’attrazione turistica, il pontile sul lago è il luogo ideale per scattarsi foto.
La coda per fare un selfie è piuttosto lunga, ma pochi si soffermano a pensare al dolore, alla delusione, alla rabbia e al senso di lacerazione provati dalla gente di Resia e Curon quando furono costretti ad abbandonare le loro case, le loro vite e a scordare la propria identità in nome di un sedicente progresso.

Il libro di Marco Balzano è un romanzo sulla contrapposizione tra chi vuole esercitare con prepotenza un potere improvviso e chi, invece, ha tutto il diritto di rivendicare le proprie radici.

Un romanzo che parla di una pagina della storia d’Italia dolosa e controversa intorno alla quale c’è senza dubbio ancora molto da raccontare.

“Resto qui” è un libro che cattura fin dalla prima pagina perché, pur raccontando una storia accaduta quasi un secolo fa, ci sorprende per la sua attualità spingendoci, non solo a riflettere sull’atteggiamento degli Altoatesini e di come furono traditi dalla politica in passato, ma ad interrogarci anche seriamente sul nostro futuro e sul prezzo che siamo disposti a pagare in nome del tanto decantato progresso.

Una diga si può costruire altrove, un paesaggio una volta devastato non può rinascere più. Non si può rimediare né replicare, un paesaggio.




domenica 18 agosto 2019

“L’ultimo respiro del corvo” di Silvia Brena e Lucio Salvini


L’ULTIMO RESPIRO DEL CORVO
di Silvia Brena e Lucio Salvini
SKIRA
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, morì in circostanze ambigue così come avvolte nel mistero sono ancor oggi tutte le vicende che riguardarono la sua vita.

Pittore di immensa fama, conteso dalle più grandi famiglie della nobiltà dell’epoca che facevano a gara per assicurarsi le sue opere, Caravaggio si procurò anche una pletora di nemici a causa del suo carattere collerico e violento.

Della sua vita sono giunti a noi racconti più o meno veritieri, leggende e mezze verità, la sola certezza che abbiamo è che fu un personaggio molto discusso.

Michelangelo Merisi amava frequentare prostitute, aggirarsi armato per le vie di Roma e frequentare le peggiori taverne; rimase spesso coinvolto in litigi e violenti scontri e nella sua vita si macchiò di ogni nefandezza possibile tanto che, nella lista nei crimini da lui commessi, figura persino l’omicidio.

Ma come morì Caravaggio? In seguito alle complicanze dovute ad una ferita procuratasi in una delle tante risse? Oppure fu avvelenato da uno dei suoi tanti nemici?

Il mistero sta per essere svelato perché Caravaggio stesso ci ha lasciato la chiave per risolvere l’enigma e lo ha fatto attraverso la sua pittura.

La soluzione si troverebbe, infatti, nell’opera che gli venne commissionata da Marcantonio Doria o meglio si troverebbe nella copia di quel quadro che lo stesso Caravaggio dipinse proprio per denunciare i suoi assassini.

La copia del dipinto che raffigurava il Martirio di Sant’Orsola recherebbe sul retro una scritta che accuserebbe proprio il mandante del suo omicidio.

Dante Hoffman, un critico d’arte omosessuale, irascibile, ipocondriaco, tormentato e ossessionato dal genio di Michelangelo Merisi, proverà a risolvere questo intricato cold case e lo farà con l’aiuto della sua amica di infanzia oltre che collega Daphne Cherner.

Un’eventuale soluzione del caso potrebbe però avere diverse ripercussioni sul presente e potrebbe compromettere la reputazione di qualche personaggio di spicco in Vaticano.

Il cardinale Giulio Bargero, discendente di uno dei più probabili mandanti del presunto omicidio dell’artista, ha tutto l’interesse che il mistero non venga svelato essendo egli prossimo a ricevere una promozione che potrebbe essere pregiudicata dalla scoperta del crimine commesso dal suo antenato, il cardinale Scipione Borghese.

Sul caso, però, indagano anche il capitano Stefano Dragone ed il suo vice Alessandro Militello,  carabinieri del Nucleo di Tutela del Patrimonio Culturale.

Dragone e Militello sono due personaggi davvero particolari: il primo vedovo e visitatore appassionato di cimiteri monumentali, il secondo appassionato di filosofia e capace di citare a memoria Spinoza, Nietzsche e tutti quelli che vi possono venire in mente.

I due carabinieri sono sulle tracce da parecchio tempo di un famoso mercante d’arte di nome Yann Boucher, uomo avido e senza scrupoli che con Bargero ha concluso in passato parecchi affari, ma con il quale ha anche un conto in sospeso per una una triste ed delicata vicenda famigliare.

All’inizio il romanzo risulta piuttosto lento e si fa un po’ fatica a seguirne l’intreccio, complice senza dubbio il fatto che vengano introdotti molti personaggi contemporaneamente, ma superata la lettura della prima trentina di pagine il racconto decolla ed è davvero difficile, se non impossibile, riuscire a posare il libro.

Il romanzo è ricco di colpi di scena, intrigante, appassionante e coinvolgente; il doppio piano narrativo scorre veloce e non ci sono difficoltà nel passare dal racconto dei fatti contemporanei a quelli del passato che riguardano la vita di Caravaggio così come Dante Hoffman la racconta al cardinale Bargero.

La narrazione delle due differenti storie si intreccia e si completa alla perfezione in un intricato e misterioso gioco di incastri che lascia al lettore il piacere di scoprire analogie e differenze tra la vicenda Caravaggio/Borghese e la vicenda Hoffman/Bargero.

Le storie sembrano all’apparenza molto diverse tra loro, ma pagina dopo pagina e a mano a mano che i pezzi del puzzle iniziano a mettersi a posto, ci si rende conto che, a causa dell’ossessione di Hoffman verso il suo artista preferito e della malsana continua ricerca di identificazione del cardinale Bargero con il suo antenato Scipione Borghese, le due storie sono più affini di quello era apparso in un primo momento.

I personaggi pur essendo molto numerosi sono tutti caratterizzati in modo minuzioso e preciso ed ognuno di loro ha un ruolo ben definito all’interno dell’economia del romanzo.

Non si può provare simpatia ovviamente per il cardinale Bargero, posseduto dal demone dell’arte, amante della bellezza come valore di per sé, un uomo subdolo, arrogante e ambiguo sempre attento ai dettagli anche più insignificanti.

Dal’altra parte abbiamo il critico d’arte Dante Hoffmann che a sua volta stenta a conquistarsi la simpatia  del lettore, troppo raffinato e snob, tanto da lasciarsi tentare dalla raffinatezza dei modi del cardinale, dai suoi completi dal taglio sartoriale e dai suoi vini pregiati.
Eppure, forse proprio grazie alle sue imperfezione ed alle sue debolezze, l’antieroe Hoffman, alla fine riesce a trascinare il lettore dalla sua parte.

“L’ultimo respiro del corvo” è un romanzo davvero ben scritto in grado di conquistare sia i lettori amanti del genere thriller, con particolare riferimento agli estimatori di Dan Brown, sia gli appassionati del romanzo storico.

Ho letto tutti i romanzi di Dan Brown, ma se escludiamo "Il codice Da Vinci”, credo che il romanzo di Silvia Brena e Lucio Salvini non abbia davvero nulla da invidiare ai romanzi scritti dal loro più famoso collega statunitense.
   




giovedì 15 agosto 2019

“La Diva Simonetta” di Giovanna Strano


LA DIVA SIMONETTA
la sans par
di Giovanna Strano
AIEP EDITORE

Il romanzo è ambientato nella Firenze rinascimentale di Lorenzo il Magnifico e di tutti i grandi maestri dell’epoca tra i quali possiamo ricordare Botticelli, Benozzo Gozzoli e il Ghirlandaio.

Io narrante del racconto è Lorenzo di Pierfrancesco, esponente del ramo secondogenito della famiglia Medici.
Il nonno di Lorenzo era figlio di Giovani di Bicci e fratello di Cosimo; Lorenzo di Pierfrancesco, che sarà poi conosciuto come Lorenzo il Popolano, era quindi cugino di Lorenzo il Magnifico e del fratello di questi Giuliano de’ Medici.

Lorenzo di Pierfrancesco, così come il fratello Giovanni, mostrarono ben presto un vivo senso di gelosia nei confronti dei parenti più autorevoli.
Una prima avvisaglia di quanto sarebbe poi accaduto negli anni successivi, fu proprio la  richiesta da parte di Lorenzo di Pierfrancesco di un arbitrato esterno che dirimesse l’annosa questione del patrimonio che il ramo primogenito della famiglia amministrava per conto del ramo cadetto fin dai tempi di Cosimo, essendo il fratello di questi scomparso prematuramente lasciando un figlio piccolo, Pierfrancesco, padre di Lorenzo.
       
La sentenza arbitrale condannò il 22 novembre del 1485 Lorenzo il Magnifico a corrispondere al cugino un indennizzo il cui valore era pari a trentamila ducati.

Nel romanzo di Giovanna Strano la poca stima che Lorenzo di Piefrancesco nutre nei confronti di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, emerge chiaramente dalle parole da questi pronunciate contro il più famoso cugino, manifestando, invece, tutta la sua stima per il maestro Botticelli, la sua musa Simonetta Cattaneo ed il cugino Giuliano de' Medici, da lui ampiamente preferito al fratello maggiore.

La storia tra Giuliano de’ Medici e Simonetta Cattaneo, moglie di Marco Vespucci è senza dubbio una delle storie d’amore più  celebri della storia.
Va quindi riconosciuto il grande merito a Giovanna Strano di essere riuscita a raccontare una storia tanto nota in modo nuovo, fresco ed emozionante.

La genovese Simonetta con molta probabilità non vide mai la città di Genova  poiché, all’epoca della sua nascita, la famiglia Cattaneo si era già trasferita a Portovenere.

Giovanna Strano inizia quindi a raccontare la vita di Simonetta immaginandola proprio come una bambina tutta intenta a giocare spensierata tra le onde del suo mare a Portovenere, ancora ignara che un giorno sarebbe diventata la donna più ammirata e corteggiata di Firenze, la sans par.

Il libro di Giovanna Strano, per quanto si basi su verità storiche, racconta una versione molto libera e romanzata delle vicende che videro sbocciare l’amore tra Giuliano e Simonetta, eppure, grazie al talento narrativo dell’autrice la storia risulta quanto mai credibile.

Simonetta viene descritta come una donna bella, colta e raffinata, dolce e gentile ma allo stesso tempi anche molto determinata e dotata di una forza di carattere non comune.

Per descrivere la sans par Giovanna Strano si è ispirata ai documenti di archivio  ed alla letteratura dell’epoca, ma soprattutto ha osservato con molto attenzione i dipinti di Botticelli.

Alessandro Filipepi, da tutto conosciuto come il Botticelli, fece di Simonetta Cattaneo la propria musa ispiratrice e così ancora oggi possiamo ammirarne la bellezza ineguagliabile in moltissime opere del maestro fiorentino, le più famose delle quali restano  “La Primavera” e “La nascita di Venere”.

Il Botticelli fu talmente legato alla bella Simonetta che alla sua morte volle essere sepolto nella chiesa di Ognissanti a Firenze dove riposava colei che tanto lo aveva ispirato.

Il personaggio di Botticelli svolge un ruolo fondamentale nel romanzo di Giovanna Strano, pittore dallo spirito arguto e dalla raffinata cultura, grazie alla sua acutezza ed alla sua sensibilità, diviene una sorta di amico-confidente per Simonetta che trova nel suo studio un di rifugio dalle macchinazioni del suocero.

Piero Vespucci è una persona gretta e meschina, un arrivista che, pur di raggiungere i suoi scopi, non si fa scrupolo di usare l’avvenenza della nuora mettendola in mostra alla stregua di una merce rara e preziosa per ingraziarsi le alte sfere del potere, complice il marito di lei che si lascia manipolare dall’ambizioso padre.

Giuliano de’ Medici, l’affascinante fratello del Magnifico, ricopre il ruolo del cavaliere innamorato che accorre in aiuto della donna amata la quale appare ai suoi occhi come un angelo.

Giuliano e Simonetta sono giovani, belli, innamorati ed ammirati da tutti, ma se la felicità, quando è piena, stenta a non farsi riconoscere, così l’invidia e la cattiveria sono sempre in agguato ed inevitabilmente la sventura si abbatterà su di loro.

Il romanzo si legge davvero molto volentieri grazie anche ad una scrittura veloce e scorrevole; l’autrice dimostra di avere molta fantasia e le interpretazioni che dà dei quadri di Botticelli per accordarli al racconto sono davvero suggestive ed interessanti.

Una storia d’amore struggente, dei protagonisti incantevoli e seducenti, una descrizione minuziosa della corte medicea quattrocentesca ricca di fascino, stimolante e suggestiva sulla cui scena si muovono tutti i personaggi di spicco del Rinascimento fiorentino, sono gli elementi che fanno di “La Diva Simonetta” un romanzo storico in grado di appassionare e coinvolgere decisamente anche il lettore più esigente.






martedì 13 agosto 2019

“Machiavelli e l’Italia” di Alberto Asor Rosa


MACHIAVELLI E L’ITALIA
di Alberto Asor Rosa
EINAUDI
“Machiavellico” è considerato sinonimo di subdolo, astuto, amorale e doppio; è un termine oggi universalmente riconosciuto come riferito ad una persona falsa e senza scrupoli che manipola gli altri e le circostanze per raggiungere i propri scopi.

Ma chi era il segretario fiorentino secondo il professor Alberto Asor Rosa? L’intento del professore è quello di superare la dicotomia che vede contrapposta ormai da secoli la visione di un Machiavelli “buono” ad un Machiavelli “cattivo”.

Secondo Alberto Asor Rosa esiste un solo Machiavelli che non è né buono né cattivo, ma che ha semplicemente come unico fine quello di realizzare lo scopo migliore servendosi dei mezzi più adeguati al suo raggiungimento.

Lo strumento cattivo diventa buono se buono è il fine da raggiungere, ma allo stesso tempo lo strumento è da considerarsi buono o cattivo a seconda che sia utile o meno al raggiungimento dello scopo prefissato.   

La leggendaria figura del pensatore, letterato e politico Niccolò Machiavelli, viene in questo libro raccontata nella sua dimensione più umana attraverso l’analisi dei molteplici interessi e vocazioni che lo appassionarono durante l’arco della sua esistenza.

Alberto Asor Rosa ci racconta dell’uomo Machiavelli e del suo pensiero partendo dal presupposto che “il pensiero non è spirito, è materia, al pari del corpo: ed esattamente come il corpo funziona e agisce”.

Machiavelli era un profondo conoscitore del suo tempo ed un acuto osservatore, ma come il professor Asor Rosa sottolinea egli era anche uno sconfitto.

La teoria sull’Italia che egli arriva a sintetizzare ne “Il Principe”, la sua opera forse più famosa, nasce infatti da un’esperienza di disfatta e di perdita.

Machiavelli era un repubblicano, un democratico, ma aveva compreso, grazie all’acume politico di cui era dotato, che l’unica strada percorribile per se stesso e per l’Italia non poteva essere che quella del Principato.

L’Italia all’epoca di Machiavelli non era una nazione nel senso stretto del termine bensì un’idea che fondava le sue radici nel mondo politico e letterario.

L’Italia non corrispondeva sulla cartina politica del tempo a nessun territorio unitario, come potevano essere allora la Francia o l’Inghilterra, essa era frazionata in una moltitudine di stati, comuni e signorie; l’italianità però era una denominazione continuamente ricorrente in tutti i più importanti autori del periodo.

La percezione di questa comune identità era un sentire che apparteneva già ad autori di epoca classica, primo fra tutti Virgilio, e che era destinata a perdurare ed ad ingrossare le proprie fila nei secoli a venire con letterati, poeti e politici del calibro di Dante, Boiardo, Ariosto e così via.

La dura condanna quindi che Machiavelli e Guicciardini rivolgono ai principi italiani per aver, non solo permesso, ma anche attirato l’intervento di armi straniere e barbare nel territorio della penisola, è una tematica che ha interessato letterati e politici fin dai tempi antecedenti alla  loro denuncia e continuerà ad essere tematica di discussione e dibattito per molti secoli a venire.

“Machiavelli e l’Italia” ripercorre gli anni che vanno dal 1492 (anno della morte di Lorenzo Il Magnifico nonché dell’elezione di Alessandro VI al soglio pontificio) al 1530, anni in cui si delinea un grave e decisivo momento per la storia italiana, un momento che l’autore definisce la “grande catastrofe”.

La ricostruzione del periodo che emerge dalle pagine del libro è una ricostruzione completa ed affascinante dell’epoca, un quadro minuzioso delle più svariate tematiche, esperienze e personalità del tempo.

Alberto Asor Rosa però, prendendo in esame l’epoca oggetto del suo saggio, non tralascia di indagare quegli eventi che hanno preceduto tale periodo e ad esso hanno inevitabilmente condotto; allo stesso modo, inoltre, al fine di ottenere una più giusta e corretta visione d’insieme, si preoccupa anche di gettare uno sguardo sulle ripercussioni future che la “grande catastrofe” avrà sull’Italia negli anni e nei secoli a venire.

La storia di Niccolò Machiavelli viene raccontata attraverso i suoi scritti, non solo quelli più conosciuti come “Il Principe”, i “Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio”, le “Istorie fiorentine”, ma anche attraverso accenni ad altri suoi testi di natura all’apparenza, passatemi il termine, più “frivola” come i testi teatrali (“La mandragola”) o i racconti (“La favola di Belfagor Arcidiavolo”).

Sono però le sue lettere, quelle a Francesco Vettori e a Francesco Guicciardini in primis, ad essere, più di ogni altro scritto, a darci gli elementi più validi per riuscire ad inquadrare quello spirito appassionato ed arguto che, insieme all’acuta intelligenza, facevano del segretario fiorentino un personaggio ricco di fascino, un fascino che, nonostante siano passati secoli, continua a sedurci.

Il Machiavelli che emerge dalle pagine del libro è un personaggio a tutto tondo che, liberato finalmente  da tutte quelle odiose “etichette” che la storia gli ha attaccato nel corso dei secoli, appare come un uomo dotato di viva intelligenza, lungimiranza e perspicacia, un uomo appassionato che, al momento giusto, era anche capace di sfoggiare tutta la sua arguzia e la sua ironia.

“Machiavelli e l’Italia”, grazie all’indiscusso talento del suo autore, è una lettura scorrevole e di grande fascino dove la storia del passato vi si legge come se si trattasse della storia più coinvolgente dei nostri giorni.

Sarà forse perché l’epoca di Machiavelli ha molto più in comune con i nostri tempi di quanto ad un primo superficiale esame si potrebbe pensare? 






venerdì 9 agosto 2019

“milk and honey” – “the sun and her flowers” di Rupi Kaur


Rupi Kaur è nata in India e da giovanissima si è trasferita in Canada con i genitori.

Incoraggiata fin da bambina dalla madre ad esprimere i propri sentimenti attraverso il disegno e la pittura, ha coltivato fin da piccola il suo interesse per l’arte.

Ha iniziato a pubblicare i suoi lavori attraverso i social media soprattutto utilizzando Instagram che, più di ogni altro social network, si prestava alle sue opere che consistevano in brevi poesie corredate da schizzi e disegni.

Grazie al grande successo ottenuto sui social, Rupi Kaur è divenuta ben presto anche un caso editoriale internazionale tanto che la sua prima raccolta di poesie “milk and honey” è stata pubblicata in ben 35 paesi.

La sua attesissima seconda raccolta di poesie “the sun and her flowers” non ha deluso le aspettative dei lettori ed il libro si è insediato al numero uno delle classifiche sin dal primo giorno della sua uscita.

Entrambi i volumi, corredati dagli schizzi ad opera della stessa Rupi Kaur, sono divisi in capitoli i cui titoli sottolineano le tappe del cammino lungo il quale i versi conducono il lettore; percorsi di crescita, di salvezza e di guarigione.

“milk and honey” è suddiviso in quattro capitoli: il ferire – l’amare – lo spezzare – il guarire

“the sun and her flowers” è invece suddiviso in cinque capitoli: l’appassire – il cadere – il radicare – il crescere – il fiorire

Le poesie di Rupi Kaur parlano di amore e di dolore, di perdita e di rinascita, parlano di femminismo, di violenza sulle donne e di emancipazione.

I temi trattati da Rupi Kaur sono trattati in maniera personale, ma in realtà coinvolgono tutte le donne in quanto sono temi drammaticamente universali che trovano un pronto riscontro nelle esperienze quotidiane del mondo femminile.

Caratterizzate da poche parole e brevi frasi, le sue poesie possiedono una forza dirompente ed inaspettata che colpisce il lettore come un pugno nello stomaco.

La poesia di Rupi Kaur racconta le tante fragilità dell’universo femminile, ma allo stesso tempo ne esalta anche la resilienza, spronando le donne ad amarsi di più ed incoraggiandole a credere in se stesse.

Personalmente non posso dire di amare profondamente tutta la poetica di Rupi Kaur; le sue poesie sono spesso troppo dirette e schiette ed io non amo particolarmente questo genere di poesia.

In questi due volumi però ci sono anche molte poesie che parlano in modo struggente ed appassionato ai nostri cuori di sogni e di speranze, di delusioni e di aspettative disattese, di amori perduti e di amori appena nati; ecco sono questi suoi versi delicati e tormentati quelli che prediligo.

A Rupi Kaur però, al di là del fatto che possiate amare o meno le sue opere, va riconosciuto il grande merito di aver saputo rivitalizzare la poesia in un’epoca in cui sembrava ormai agonizzante.

Ebbene, Rupi Kaur è riuscita nel miracolo di riavvicinare moltissime persone a questa forma d’arte e  ridare impulso all’editoria che ormai da tanto, troppo tempo considerava la poesia come un “prodotto di nicchia” difficile da vendere.



te ne sei andato
e io ti volevo ancora
però meritavo qualcuno
disposto a restare
(da “the sun and her flowers”)



se me ne sono andata non è perché
avevo smesso di amarti
me ne sono andata perché più
restavo meno
amavo me
(da “milk and honey”)






martedì 6 agosto 2019

“Il filo infinito” di Paolo Rumiz


IL FILO INFINITO
di Paolo Rumiz
FELTRINELLI
Aprile 2017, Paolo Rumiz sta compiendo un viaggio lungo la linea di faglia del terremoto che così duramente ha colpito l’Appennino, quando all’improvviso si ritrova a scendere verso Norcia.

Il paese è deserto e ovunque è devastazione, ma proprio lì dove tutto è crollato, una statua si erge ancora perfettamente integra, è la statua di San Benedetto da Norcia, il santo patrono d’Europa.

Come interpretare questo segno? Dobbiamo accettare che per l’Europa non ci siano più speranze oppure al contrario San Benedetto vuole dirci che la speranza esiste ed è nostro dovere avere fiducia nel futuro?

Inizia così il viaggio di Paolo Rumiz, un cammino lungo quel filo che unisce i monasteri benedettini, un viaggio attraverso quell’Europa la cui identità nacque proprio nell’Appennino Italiano.

Il viaggio che l’autore compie è sì un viaggio che attraversa luoghi reali, ma è anche un viaggio attraverso lo spirito, quello spirito che nel passato ha abitato quegli stessi luoghi e ancor oggi vive in essi.  

La regola di San Benedetto era una regola cenobitica, un regime dove regnava una stretta disciplina, una regola basata sul famoso motto “ora et labora”, ma il mondo benedettino era basato anche su quello che nel libro viene definito un “disordine democratico”, ogni monastero aveva ed ha alcune sue proprie caratteristiche legate alla realtà del territorio.

Così durante il suo viaggio Paolo Rumiz ha spesso riscontrato differenze nella gestione dei vari monasteri europei, ma al di là di alcune proprie peculiarità, ogni monastero rispetta sempre la tradizione basata sulla centralità di alcuni imprescindibili pilastri: lavoro, spiritualità, cultura ed accoglienza.
                                      
Il mondo monacale, contrariamente a quello che siamo portati a pensare, non è un mondo chiuso e ripiegato su se stesso, non lo è mai stato, è piuttosto un universo dove si può trovare musica, convivialità e cultura.

Proprio grazie a queste sue caratteristiche i monaci nei tempi più bui della storia europea riuscirono a trasformare il nemico in ospite.

Non dobbiamo infatti dimenticare che all’epoca di San Benedetto l’Europa stava vivendo in uno stato di sofferenza, ovunque vi erano terreni incolti ed inselvatichiti e gli eserciti barbari premevano alle frontiere, eppure, in questa situazione estrema e disperata i monaci, grazie alla forza della speranza, furono in grado di compiere il miracolo.

In queste pagine Rumiz si interroga proprio sulla condizione dell’Europa oggi e sulla possibilità di ritrovare quell’identità collettiva che ai giorni nostri sembra ormai disgregarsi, giorno dopo giorno, di fronte alla chiusura delle frontiere, al populismo, al materialismo e a questo nostro modo di vivere così frenetico ed iperconnesso.

“Il filo infinito” è un libro che aiuta a riflettere, che pone interessanti e stimolanti interrogativi e che propone al lettore nuove chiavi di lettura per riuscire ad interpretare meglio il presente attraverso il passato, perché la memoria dell’orrore è l’unico antidoto per evitare il suo ritorno, spingendolo a guardare con occhi diversi quel nostro territorio appenninico la cui importanza spesso tendiamo a dimenticare.

Lì in mezzo alle macerie di Norcia, vivevo una vertiginosa percezione della centralità dell’Italia e della sua colonna vertebrale. Se il mio Paese avesse perso l’Appennino, avrebbe perso se stesso. Per tre volte l’Europa era rinata da quelle montagne: con Roma, col monachesimo e col Rinascimento. Ma l’avevamo dimenticato.






lunedì 5 agosto 2019

“Io non m’innamoro più” di Silvestro Sentiero


IO NON M’INNAMORO PIU’
di Silvestro Sentiero
EDITRICE LA PANNOCCHIA
Vincenzo Cangiano, per tutti Vincé, vive con la madre e la sorella; del padre ha solo un vago ricordo, l’uomo infatti aveva abbandonato la famiglia quando Vincenzo era piccolino: un giorno era uscito di casa senza più farvi ritorno, era sparito così senza un motivo, senza lasciare traccia.

Da quel giorno la madre di Vincenzo si è rinchiusa in un mondo tutto suo fatto di immagini sacre e preghiere e Rosellina, la figlia maggiore, è stata costretta a rimboccarsi le maniche per mandare avanti la casa e per crescere il fratellino.

Rosellina è una ragazza poco istruita a cui il padre non aveva permesso di terminare neppure le scuole medie, ma lei non ne aveva fatto un dramma avendo pochissima fiducia nel valore dell’istruzione.
Rosellina è dell’avviso infatti che l’esperienza e la vita di tutti i giorni siano i migliori maestri che si possano avere.

Così quando Vincenzo viene bocciato per la seconda volta, la sorella non trova nulla di sbagliato nel fatto che anche il fratello abbandoni la scuola media tanto più visto lo scarso interesse per lo studio da lui dimostrato.

L’allontanamento dalle istituzioni scolastiche fa sì che il ragazzino si trovi però con troppo tempo libero a disposizione da passare in strada e questo lo porta inevitabilmente, come spesso accade, a frequentare pessime compagnie.

Ciro il suo amico è un ragazzo molto più grande, un balordo tossicodipendente ossessionato dall’idea di fare soldi facili e di sposare quanto prima possibile Cettina, la sua fidanzata, che a sua volta ha un solo sogno ovvero quello di diventare un’attrice famosa.

Gli anni dell’adolescenza di Vincenzo trascorrono in mezzo a droga, pestaggi, omicidi e violenze di ogni genere.

Vincenzo però è diverso da Ciro, Giacomo e gli altri; egli è sì colpevole perché non denuncia quegli atti criminali a cui assiste, ma nonostante sia solo un bambino e ai suoi occhi almeno all’inizio tutto appaia come un gioco, seppur un gioco crudele, egli inizia a fare i conti con la propria coscienza.

Vincenzo ha la fortuna di incontrare sulla sua strada la pittrice Franziska che riesce, seppur con metodi non proprio ortodossi, a riportarlo sulla retta via tanto che non solo Vincenzo prenderà la licenza media, ma addirittura si iscriverà all’università e diverrà un avvocato civilista impegnato nella difesa delle persone meno fortunate.

Il romanzo è un romanzo breve, di appena 158 pagine, eppure l’autore è riuscito a descrivere perfettamente ogni personaggio, a caratterizzarlo fin nei più piccoli particolari, come uno di quei pittori che con poche pennellate riescono a catturare lo spirito di coloro che stanno ritraendo.

Trattandosi però di Silvestro Sentiero questo non dovrebbe stupire poiché egli è un poeta, un artista di strada dall’aspetto di un moderno Charlot, che attraverso i suoi versi è capace di catturare in un attimo l’anima di chi incrocia il suo sguardo.

“Io non m’innamoro più” è il suo primo romanzo, gli altri suoi volumi sono tutti libri di poesie.

La realtà degradata che fa da cornice al romanzo, una realtà dove brutalità e prevaricazione fanno da padrone, richiama alla mente quelle realtà violente tipiche di un romanzo come “Ragazzi di vita” di Pasolini.

Ma qui nel romanzo di Sentiero la speranza è reale e la si avverte fin dalle prime pagine, il lettore non dubita mai che Vincenzo riesca a salvarsi dall’abbruttimento che lo circonda, magari a modo suo, magari scendendo a compromessi, ma il lettore intuisce sin da subito che Vincenzo è destinato alla salvezza, e proprio per questo l’attenzione del lettore può concentrarsi sul percorso più che sul risultato.

Silvestro Sentiero vanta un curriculum di tutto rispetto in cui non solo si legge di partecipazioni ad importanti trasmissioni televisive, ma anche di diverse partecipazione a reading con artisti del calibro di Alda Merini e Mario Luzi senza contare che vanta al suo attivo anche un premio Ubu ricevuto per la trascrizione in napoletano de “La Tempesta” di Shakespeare.

Silvestre Sentiero è però soprattutto un artista di strada che quando meno ve lo aspettate potrebbe prendervi per mano e, guardandovi negli occhi, regalarvi un momento di felicità inaspettata.

Come? Scrivendovi su un foglietto dei versi estemporanei che sarete stati voi ad ispirargli e donandovi così un imprevedibile attimo di felicità e magia, come è accaduto a me il mese scorso, a Mercantia, il famoso festival internazionale del Quarto teatro che si svolge ogni anno a Certaldo.

Non vi svelerò cosa il poeta abbia scritto sul mio biglietto, ma posso assicuravi che non si può non rimanere incantanti ed affascinati dalla romantica atmosfera che Silvestro Sentiero riesce a ricreare attorno alle persone che avvicina.

Vi auguro con tutto il cuore un giorno di avere la fortuna di poterlo incontrare per poter assaporare, anche se solo per un fuggevole attimo, quella sensazione di magia e incanto che solo la poesia più vera è in grado di regalare.