Nel XV secolo, il condottiero albanese Lekë Dukagjini
trascrisse il Kanun, un codice di comportamento che regolava la
vita individuale, familiare e sociale degli albanesi. Le sue leggi furono tramandate
oralmente per secoli, ma col tempo molte caddero tutte nell'oblio, tranne
una: la gjakmarrje, la vendetta di sangue.
Secondo questa norma, se qualcuno veniva ucciso, un membro della
sua famiglia aveva il diritto di vendicarsi, uccidendo a sua volta un membro
della famiglia dell'assassino per ristabilire l'onore. Tuttavia, donne e
bambini erano esclusi dalla vendetta, che non poteva avvenire dentro casa.
Questo obbligava i maschi della famiglia dell'assassino a vivere reclusi in
casa, fino alla consumazione della vendetta o alla concessione del perdono da
parte della famiglia della vittima.
Nel 2025, Lara, studentessa di giornalismo nata in
Italia da genitori albanesi, visita per la prima volta l'Albania. Il suo
obiettivo è intervistare un uomo che non esce di casa da trent'anni.
Il filo dei ricordi dell'uomo misterioso intervistato da Lara
ci riporta in Albania, nel 1995.
Halil e Rozafa vivono nel dolore per la scomparsa della loro
figlia, svanita nel nulla anni prima. Incapaci di trovare pace, riversano tutto
il loro amore sull'altro figlio, Uksan. Samir è il suo migliore amico, i
due ragazzi sono inseparabili. La vita di Samir è segnata da un ambiente
familiare difficile: un padre violento e sempre ubriaco che picchia la moglie,
e degli zii che impongono la loro autorità con prepotenza.
In un crudele gioco del destino, sarà proprio Samir a dover
versare il sangue di Uksan per rispettare la legge del Kanun e
preservare l'onore della sua famiglia.
Ho affrontato questo secondo romanzo di Ermal Meta con un po’ di
timore, dopo aver amato il suo esordio letterario Domani e per sempre.
Anche questa storia è coinvolgente, seppur in modo diverso. Non ho ritrovato i
richiami ai testi delle sue canzoni presenti nel primo romanzo, ma, conoscendo
e apprezzando la sua musica, non ho potuto ignorare il dettaglio della bambina
scomparsa che porta il nome di Nina. Inoltre, nelle pagine iniziali, mi è
tornata in mente l’immagine della cavallina storna che portava colui che
non ritorna, un ricordo poetico intenso. Alcune frasi, poi, mi hanno evocato
gli scritti di Tolstoj, senza un motivo preciso. Non c’è alcun legame diretto
con l’autore o con la storia, solo mie sensazioni che emergono spontaneamente.
Con questo secondo romanzo, Ermal Meta conferma il suo
talento nel narrare storie avvincenti e nel creare personaggi profondi e
autentici, capaci di entrare nel cuore del lettore.
La sua abilità nel delineare i caratteri dei protagonisti li rende
vivi e reali. La struttura narrativa con continui flashback non distrae, ma mantiene
alta l’attenzione, facendo sì che nulla venga perso nella storia.
È un racconto intenso e potente, un pugno nello stomaco, ma
che allo stesso tempo lascia spazio alla tenerezza: la determinazione di
due ragazzi nel voler vivere, il momentaneo abbassarsi di una maschera, un
amore che, pur profondo, non può essere confessato. Dolcezza e tristezza
danzano insieme nella sofferenza, intrecciandosi in un equilibrio dove i confini
tra luce e ombra sfumano, perché nulla può esistere soltanto in bianco o in
nero.
Una storia dura e crudele, che si sviluppa in un climax di
emozioni e tensione, un susseguirsi di colpi di scena fino a un epilogo
inaspettato.
Un epilogo che lascia un senso di amarezza, ma che appare
inevitabile. Un finale che si vorrebbe diverso, perché violenza e ingiustizia
dovrebbero essere sempre sconfitte, eppure continuano a ripetersi nel tempo,
dimostrando che l’umanità, forse, non impara mai dai propri errori.