sabato 26 dicembre 2020

“Viking – Il regno del lupo” di Linnea Hartsuyker

I figli di Ragnavald e di Harald, così come la figlia di Svanhild, sono ormai cresciuti e pronti a conquistarsi il loro spazio sulla scena di questo terzo e conclusivo romanzo della saga nata dalla penna di Linnea Hartsuyker e liberamente ispirata alle storie narrate nell’Heimstringla, opera del XIII secolo di Snorri Sturluson.

L’autrice per quest’ultimo capitolo ha tratto inoltre informazioni anche dalla Orkneyinga, una storia degli jarl delle Orcadi scritta anch’essa nel XIII secolo.

Freydis, la figlia di Svanhild e di Solvi, ha appena quattordici anni quando viene rapita da Hallbjorn Olafsson, il figlio di Vigdis e Olaf, il patrigno di Ragnavald.

Hallbjorn vede nell’unione con Freydis una valida possibilità di ritagliarsi un ruolo di primo piano alla corte di re Harald. La figlia di Svanhild, infatti, non è solo la nipote di Ragnavald il Possente, amico e consigliere del re, ma anche figliastra dello stesso Harald.

Con l’astuzia Freydis riesce a convincere il suo rapitore a condurla in Islanda da Solvi, il padre che non ha mai conosciuto, dove riesce a trovare un porto sicuro almeno momentaneamente dalle mire di Hallbjorn.

Svanhild, venuta a conoscenza del rapimento della figlia, si precipita in suo soccorso e, seguendo le sue tracce, giunge fino in Islanda dove dopo più dieci anni si trova faccia a faccia con Solvi, l’unico uomo che abbia mai veramente amato.

Svanhild è ora una donna libera; Harald, infatti, per questioni di trono e per liberare alcuni dei suoi figli catturati dai predoni e tenuti da questi in ostaggio, è stato costretto a divorziare da tutte le sue mogli e sposare Ranka, la figlia di Erik, re dello Jutland.

Mentre i numerosissimi figli di Harald si fanno la guerra tra loro e uno di questi, Halfdan, arriva addirittura ad ordire congiure per assassinare il suo stesso padre, Ragnavald è costretto a guardarsi le spalle dai nemici che fanno di tutto per metterlo in cattiva luce dinnanzi al suo re.

Ragnavald è preoccupato inoltre per i propri figli; il giovane Rolli è stato infatti dichiarato fuorilegge per aver assassinato il figlio di Aldi, un assassinio avvenuto per errore, ma Aldi si è dimostrato irremovibile nel pretendere giustizia.

A impensierire Ragnavald c’è poi il diritto di successione di Ivar ed Einar, nonostante Einar sia il maggiore, spetterà ad Ivar ereditare il titolo in quanto figlio della legittima moglie Hilda. I fratelli sono molto legati e non sembra esserci alcun malanimo tra i due, ma Ragnavald non riesce a restare tranquillo, troppe volte nella vita ha visto dei fratelli scagliarsi l’uno contro l’altro per conquistarsi il diritto a governare sulle terre dei padri.

La trama di questo ultimo capitolo della saga è decisamente quella più articolata e complessa dell’intera trilogia, i personaggi sono numerosissimi e le vicende davvero molto intricate.

La lettura delle prime pagine risulta piuttosto difficile proprio per la quantità di nomi riportati sulla scena; fortunatamente in fondo al volume si trova un’appendice dedicata ai luoghi e ai personaggi.

Bisogna però precisare che il secondo volume è stato pubblicato due orsono e quindi il lettore ha bisogno di qualche minuto in più per riuscire nuovamente a calarsi appieno  nella storia.

Il consiglio è quindi di leggere, se possibile, l’intera saga in tempi il più ravvicinati possibile così da poterla apprezzare al meglio.

Ragnavald, Harald e Svanhild restano fedeli a se stessi, il lettore non avverte mutamenti nella loro psicologia rispetto al secondo volume “La regina del mare”.

Colui che più di tutti è cambiato invece è Solvi, da tutti ricordato come il predone del mare, il terribile nemico di Ragnavald, ferito nel corpo e nell’orgoglio si è richiuso in se stesso, ha abbandonato il mare e ora pensa solo a mandare avanti la fattoria in Islanda, l’eredità di Svanhild.

Eppure, anche in questo sua nuova versione ridimensionate e decisamente più umana, Solvi resta il mio personaggio preferito, dimostrando una forza di carattere non comune anche nella sconfitta e nell’accettazione di un sé diverso.

Freydis è molto differente dalla madre ma non per questo è una donna meno forte e determinata, per certi versi nel suo sentire è molto più vicina al padre Solvi.

Sulla scena fanno poi il loro ingresso i figli di Ragnavald ognuno con le proprie caratteristiche; Rolli mi ha ricordato un po’ il Samwell Tarly de “Il trono di spade”, come lui impacciato all’inizio ma alla fine sa trovare coraggio e forza sufficienti per dimostrare a tutti il suo valore e trovare la propria strada.

Il rapporto fatto di complicità, affetto e devozione che lega Ivar ed Einar credo possa trovare corrispondenza solo tra gli eroi omerici dell’Iliade, la loro storia non può che commuovere profondamente il lettore.

Il terzo volume della saga di Viking conferma e forse addirittura supera le aspettative del lettore.

Viking è una saga dalla storia coinvolgente e appassionante; intrighi, passione, tradimenti, sete di vendetta, romanticismo, avventura, violenza, amicizia, sono tantissimi gli elementi che la contraddistinguono.

Sulla copertina di quest’ultimo volume è scritto: "Per gli appassionati di Game of Thrones”. Non sono completamente d’accordo con questa affermazione, vero che chi ha amato “Il trono di spade” apprezzerà senza dubbio questa trilogia, ma Viking è davvero molto, molto di più.

Viking è una saga antica, un racconto epico dove fantasia e verità storica si compenetrano alla perfezione.

Grazie alla penna di Linnea Hartsuyker l’epopea delle saghe scandinave è tornata in vita e ha potuto raggiungere tutti noi.

Trilogia assolutamente consigliata.

 

Qui di seguito vi lascio i link dei post dedicati ai primi due capitoli

Le ossa di Ardal

Laregina del mare

 


venerdì 18 dicembre 2020

“Almanacco Zen. 365 giorni in armonia” a cura di Marina Panatero e Tea Pecunia

Che cos’è lo Zen? Iniziamo subito col dire che lo Zen non è né una filosofia né tanto meno una religione, ma piuttosto un insegnamento il cui scopo è portare all’illuminazione, al risveglio.

La parola cinese ch’an, derivante dalla trascrizione fonetica del vocabolo che significa “meditazione” in sanscrito e in pali, diventa Zen in giapponese.

Il buddhismo infatti nacque in India; lo Zen, come scuola buddhista, nacque invece in Cina per poi in seguito svilupparsi in Giappone.

Lo Zen è quindi un modus vivendi attraverso il quale entrare in contatto con noi stessi, con la natura e con l’universo.

La meditazione può diventare per noi, sottoposti ogni giorno a ritmi frenetici e a forte stress, un valido aiuto per superare la tensione quotidiana e un invito a cercare di prendere le cose con più leggerezza.

Attenzione, però, “Lasciare andare” e “vivere qui e ora” non devono essere intesi come un incitamento a divenire menefreghisti e insensibili, ma piuttosto un’esortazione ad accettare l’idea che ci sono cose che non possono essere cambiate e pertanto è inutile rimanere aggrappati a situazioni nocive o rimuginare costantemente su di esse.

La sofferenza nasce infatti dallo scarto esistente tra la realtà delle cose e il modo in cui noi le vediamo e viviamo; la meditazione si propone come un valido aiuto a superare e colmare questo scarto che ci provoca afflizione.

Nello Zen gli insegnamenti non avvengono attraverso la comunicazione scritta o verbale, ma piuttosto attraverso una fusione tra maestro e discepolo, una trasmissione da cuore a cuore.

Il discepolo deve usare la propria intuizione per raggiungere l’illuminazione che può avvenire in ogni momento o purtroppo potrebbe anche non avvenire mai; dall’altra parte i maestri hanno ognuno una propria tecnica per stimolare i discepoli che, in alcuni casi, come ad esempio nel caso del maestro Huang-Po Hsi-Yüan, prevedeva addirittura le bastonate.

Ai giorni nostri è giunto comunque un corpus di opere piuttosto consistente dei Maestri e “Almanacco Zen. 365 giorni in armonia” vuole appunto riproporci, una al giorno per 365 giorni, una perla della loro saggezza.

Il libro si presenta come una raccolta di parole dei Maestri e di detti popolari tratti per la maggior parte dalla Zenrin Segoshu, Antologia dei detti popolari Zen, usata nei monasteri della scuola Rinzai.

Il volume, a cura di Marina Panatero e Tea Pecunia, presenta un’approfondita introduzione nella quale viene spiegato, raccontandone anche a brevi linee lo sviluppo, cosa sia l’insegnamento Zen. Viene inoltre presentata una brevissima storia del buddhismo e del Buddha, colui che ha preso coscienza.

Al termine del volume invece ritroviamo alcune pagine dedicate ai più noti Maestri con interessanti aneddoti sulle loro vite oltre all’esposizione di una breve ma esauriente sintesi dei loro insegnamenti.

La meditazione non è semplice, ci vuole pazienza è non è affatto facile riuscire a non scoraggiarsi quando inevitabilmente ai primi tentativi risulta impossibile focalizzare immagini, profumi, colori e così via spegnendo i propri pensieri.

La meditazione però può essere di diversi tipi non necessariamente quella a cui tutti noi siamo portati a pensare ossia quella che si esegue assumendo la classica posizione del fiore di loto.

Accanto alla meditazione formale, infatti, ne esiste anche un’altra, la cosiddetta meditazione informale che può essere praticata nei modi e nei  tempi più diversi, in mezzo alla folla così come nel silenzio più totale, per un minuto così come per un’ora intera.

Ecco, “Almanacco Zen. 365 giorni in armonia” può essere un ottimo spunto per avvicinarsi alla meditazione senza ulteriore ansia e senza stress, leggendo solo qualche riga al giorno, poche parole illuminanti in grado però di regalarci attimi di gioia e serenità.

 

Il tuo respiro è il vento,

la tua mente è il cielo aperto,

i tuoi occhi il sole,

oceani e monti

sono il tuo intero corpo

Detto Zen

(1° gennaio)





lunedì 14 dicembre 2020

“Un anno con Mozart” di Clemency Burton-Hill

Il titolo originale dell’opera è in realtà Year of wonder, classical music for every day, non si comprende molto la ragione per cui nell’edizione italiana tale titolo sia diventato Un anno con Mozart.

In effetti questa scelta è piuttosto fuorviante dal momento che il libro propone sì 365 brani, o meglio 366 perché è contemplato anche un brano per il 29 febbraio, per l’ascolto di un brano al giorno per un ogni giorno dell’anno, ma i pezzi presi in esame non sono assolutamente tutti di Mozart bensì di numerosi autori, più di 240, anche molto diversi tra loro per epoca, nazione e stile.

I brani proposti da Clemency Burton-Hill in questo suo volume, che non vuole essere assolutamente una storia della musica tout court, spaziano in un arco temporale amplissimo abbracciando un percorso lungo più di mille anni, dalla musica medievale di Ildegarda di Birgen si arriva fino a Alissa Firsova musicista contemporanea nata nel 1986.

Il libro di Clemency Burton-Hill si propone come un invito all’ascolto rivolto a tutti coloro che non conosco la musica classica ma ne sono in qualche modo attratti, a tutti i neofiti che la apprezzano ma non hanno conoscenze specifiche e a tutti coloro che semplicemente, seguendo la scaletta del libro, vogliono ritagliarsi uno spazio giornaliero da dedicare all’ascolto di un brano musicale per rinfrancare lo spirito e staccare la spina per qualche minuto.

Nell’introduzione l’autrice scrive infatti chiaramente che ai nostri giorni è scientificamente provato che ritagliarsi giornalmente un momento per “la cura di sé” abbia benefici incalcolabili a livello psico-fisico, c’è chi fa meditazione, chi yoga e allora perché non ascoltare un brano musicale? Anche la musica può agire come un potente tonico mentale.

Il libro vuole anche sfatare la falsa credenza che la musica classica sia musica di nicchia, snob, per pochi eletti; la musica di qualunque genere è di per sé universale e non può quindi, né deve, essere ingabbiata da definizioni ed etichette. La musica trasmette emozioni e non conosce frontiere, supera ogni barriera e non richiede alcuna traduzione, è un bene di tutti ed ognuno ne può liberamente fruire.

L’autrice ci tiene a puntualizzare che non esiste un momento giusto per ascoltarla, ogni momento è propizio, la si può ascoltare mentre si studia per concentrarsi meglio, mentre si svolgono le faccende di casa, in palestra, passeggiando o comodamente sprofondati in poltrona.

Un anno con Mozart non è guida musicologica, non ci sono spiegazioni tecniche né partiture da leggere e studiare.

Ad ogni brano è dedicata una pagina nella quale vengono indicate alcune curiosità sull’autore, sul tipo di strumento per cui il pezzo era stato scritto, aneddoti relativi alla prima esecuzione del brano e così via.

Tantissimi brani magari li abbiamo già ascoltati in trasmissioni televisive, film o pubblicità senza conoscerne l’autore, di altri brani forse crediamo erroneamente di sapere già tutto, magari li abbiamo ascoltati suonati da diversi strumenti, ma ignoriamo ancora per quale specifico strumento quella musica sia stata scritta in origine.

Personalmente amo la musica classica e la ascolto da sempre, però non sono assolutamente un’esperta e soprattutto non conosco nulla degli autori più moderni, ragion per cui questo percorso mi incuriosisce e mi intriga moltissimo.

Non vedo l’ora quindi di iniziare questo splendido viaggio musicale che si preannuncia davvero coinvolgente e appassionante.

Le playlist del libro possono essere ascoltate e condivise su Spotify, ma sono comunque tutte facilmente reperibili online anche su YouTube. La tecnologia ha reso ogni cosa disponibile per tutti, ora non ci sono più scuse.

E voi siete pronti a viaggiare nei secoli attraverso le note di Bach, Gershwin, Puccini, Albinoni, Lully e tanti altri?

Vi aspetto il primo gennaio con la Messa in si minore di Johann Sebastian Bach, un brano liturgico, lo so, ma il 2 gennaio ci aspetta Fryderyk Chopin e…

 

 

domenica 13 dicembre 2020

“Il viaggio dolce” di Marina Plasmati

Aprile 1836, una carrozza si ferma davanti a villa Ferrigni.

La villa, posta su una collinetta a metà strada tra Torre del Greco e Torre Annunziata, è una costruzione seicentesca ad un solo piano, in stile pompeiano.

Ad accogliere i visitatori sul portico ci sono il fattore Giuseppe e la moglie Angiola Rosa. Ma chi sono gli occupanti della carrozza che sono giunti alle pendici del Vesuvio per beneficiare del suo salubre clima?

Si tratta del cognato del proprietario, il signor cognato, la sorella di questi, la cognata più giovane, ossia la signorina Paolina e infine lui, l’ospite di riguardo.

L’ospite appare immediatamente come una persona malata che ha bisogno di aiuto anche per scendere dalla carrozza, aiuto che l’amico, il signor cognato, si appresta a fornirgli premurosamente.

Fin da subito si intuisce che l’ospite è una persona gentile e schiva, attenta a non dare fastidio al prossimo così come a riceverne a sua volta il meno possibile.

Pagina dopo pagina si conoscerà sempre meglio la personalità di quest’uomo dall’ingegno straordinario condannato a vivere in un corpo malato e deforme, quasi che la potenza della sua mente avesse assorbito come un vampiro famelico tutto il resto delle sue energie vitali.

L’ospite di riguardo non è una persona priva di difetti, goloso di dolci, a volte capriccioso e indubbiamente eccentrico, sa però come farsi amare per la sua dolcezza e per la sua grande capacità di ascoltare.

Le persone più umili restano affascinate dai suoi modi gentili e ne sono conquistate perché lui non è un “signore” come tutti gli altri; lui, al contrario degli altri, ama ascoltare le loro storie semplici e i loro racconti di vita contadina.

Il fattore Giuseppe e il figlio maggiore di questi, Cosimo, trascorrono molto tempo in compagnia dell’ospite tanto da provocare quasi la gelosia del signor cognato nel vedere l’amico così coinvolto nelle conversazioni con qualcun altro che non sia lui e per giunta di così bassa estrazione sociale.

Come avrete già capito l’ospite di riguardo, benché nel libro non venga mai fatto il suo nome, altri non è che il poeta Giacomo Leopardi e il cognato del padrone della villa è il suo amico Antonio Ranieri.

Il romanzo racconta di quei giorni che, dall’aprile al luglio del 1836, Giacomo Leopardi trascorse a villa Ferrigni in compagnia dell’amico fraterno.

Ne “Il viaggio dolce” Marina Plasmati cerca di immaginare come il poeta avesse passato quelle sue giornate vesuviane.

Ci racconta di un Leopardi che trascorreva ore dalla finestra della sua camera ad osservare la vita degli altri scorrere là fuori, come era solito fare dalla finestra della biblioteca della casa paterna a Recanati, a visitare gli scavi di Pompei e, quando la salute malferma glielo permetteva, anche a fare escursioni a dorso di mulo lungo le pendici del vulcano.

Traendo ispirazione da uno dei Canti che il poeta scrisse proprio in quei giorni, “La ginestra o il fiore del deserto”, il romanzo Marina Plasmati narra una storia forse non completamente reale, ma senza dubbio alquanto verosimile.

I dialoghi stessi che si svolgono tra Giuseppe, Cosimo e l’ospite di riguardo prendono spunto proprio dal Canto leopardiano; ne sono un esempio Giuseppe che parla al poeta del pozzo dove il ribollire dell’acqua è segnale dell’avvicinarsi della lava, Cosimo che gli racconta dei fiori della ginestra durante la loro prima escursione e la stessa descrizione degli scavi di Pompei.

Marina Plasmati resta sempre fedele nel suo racconto al pensiero leopardiano, non tradisce mai la sua poetica; quello che incontriamo nelle pagine del romanzo è proprio il Giacomo Leopardi degli ultimi anni, il poeta polemico nei confronti della poesia idealistica romantica, l’uomo che ormai non teme più la morte e che sa di non avere più dalla sua parte l’entusiasmo, l’ardore e la forza che contraddistinguono invece la gioventù.

Nonostante la disillusione però Leopardi crede ancora nel valore della poesia che, tenace come la ginestra che resiste nel deserto, è un miracolo in mezzo allo squallore dell’esistenza umana; la poesia incarna per lui quel desiderio di vita che, seppur destinato a rimanere inappagato, resiste perché inestirpabile.

“Il viaggio dolce” è un racconto che sa toccare il cuore del lettore, un racconto commovente e profondo le cui pagine spesso sono vera poesia in prosa.

Delicato e intenso, il libro di Marina Plasmati è un romanzo in grado di emozionare tutti, non solo gli appassionati della poesia leopardiana, talmente coinvolgente da provare spesso lo strano desiderio di leggerlo ad alta voce.

“Il viaggio dolce” è uno di quei libri che se siete soliti sottolineare i passi più significati o che più vi commuovono, vi ritroverete presto con pochissime righe intonse.

Nel consigliarvene quindi la lettura, vi saluto con le bellissime parole con le quali Cosimo, il figlio del fattore, descrive uno dei poeti da me più amati:

Non lo capiva, era vero, ma lo sentiva, però, che quel signore non era un signore come gli altri, un padrone come gli altri: e non solo perché era tanto gentile, come diceva suo padre, o tanto malato. Il suo sguardo, per esempio, non era uno sguardo qualunque, era come se avesse il mondo dentro il cuore, non davanti agli occhi, come se le cose, anche le più piccole, le più insignificanti, prendessero posto dentro di lui e ci rimanessero.



 

domenica 6 dicembre 2020

“Il libro dei cinque anelli” di Miyamoto Musashi

Gorin no sho (Il libro dei cinque anelli) può essere considerato il testamento di Miyamoto Musashi, l’opera che spiega la sua lunga esperienza nella Via.

Ma chi era Miyamoto Musashi? E quando è stato scritto questo libro?

Miyamoto Musashi, il cui vero nome era Bennosuke, nacque a Miyamoto nel 1584 e fu il più grande uomo di spada della storia dei samurai. In più di trent’anni di attività affrontò ben sessanta combattimenti e non fu mai sconfitto; il suo primo incontro avvenne quando, appena tredicenne, combatté e vinse contro il famoso spadaccino Arima Kihei.

La sua fu un’esistenza molto movimentata durante la quale condusse una vita raminga e solitaria, per un certo periodo fu anche un ronin ovvero un samurai senza padrone, un outsider diremmo oggi, ma in seguito ottenne anche incarichi prestigiosi come quello di alto consigliere e maestro di strategia del signore Hosokawa e, infine, fondò un suo proprio dojo.

Nel 1643, sentendo che la sua fine si stava avvicinando, si ritirò per scrivere “Il libro dei cinque anelli”, opera che termino due anni più tardi nel 1645.

Musashi morì quello stesso anno all’età di sessantadue anni. Egli fu molto più di un maestro di spada, fu anche pittore, calligrafo, metallurgista, esperto di poesia, di opere del teatro No e di cerimonia del tè, di falegnameria e progettazione di giardini.

Come lui stesso scrisse nel prologo del suo libro tutte le sue capacità in così tante arti e differenti mestieri sono però da ascriversi alla sola virtù dell’Arte Marziale.

“Il libro dei cinque anelli” si compone di cinque capitoli, ognuno dei quali è dedicato ad un elemento: Terra, Acqua, Fuoco, Vento e Vuoto.

Il libro della Terra è dedicato alla Via dell’Arte Marziale in generale, all’arte della spada e all’addestramento. In questo primo libro viene inoltre presentato il piano dell’opera e si fa cenno alle quattro classi in cui è divisa la società giapponese (contadini, mercanti, guerrieri e artigiani). L’addestramento, precisa in questo capitolo Musashi, non è utile solo al guerriero, ma a ciascuno di noi. Inoltre, egli ci insegna che non si deve mai prediligere un’arma ad un’altra perché una cosa grande vale quanto una piccola, l’arma deve essere sempre adeguata alle proprie capacità.

Il libro dell’Acqua è un libro più filosofico. Come l’acqua si adatta al suo contenitore così si deve adattare la nostra mente. È necessario mantenere sempre l’equilibrio in ogni situazione, mai farsi sopraffare dalla rabbia, mai perdere l’attenzione e la lucidità. Bisogna fare attenzione che la mente non trascini il corpo, ma neppure il corpo deve mai trascinare la mente.

Nel libro del Fuoco vengono trascritti gli argomenti che riguardano la vittoria e la sconfitta. Miyamoto Musashi in questo terzo capitolo evidenzia l’importanza di saper scegliere sempre la posizione più vantaggiosa in un combattimento oltre a quella di riuscire ad intuire i punti deboli dell’avversario così come la sua personalità in modo da poter approfittare di tali conoscenze durante lo scontro. Se la situazione ristagna è importante inoltre sapersi rinnovare, abbandonare la tattica precedente per adottarne una nuova che possa sorprendere l’avversario.

Il libro del Vento parla delle altre scuole perché è importante conoscere le altre tradizioni per comprendere l’essenza di Niten Ichi-ryu (letteralmente “due cieli in uno”) ovvero l’uso di due spade contemporaneamente, insegnamento della scuola di Musashi. Il maestro mette inoltre in evidenza come le altre scuole, al contrario della sua, abbiano una visione limitata. Nella sua scuola, infatti, non esiste né esteriore né interno, ma vi è una ricerca dell’insieme.

Il libro del Vuoto è brevissimo, poco più di una pagina, ed è un capitolo prettamente filosofico. Il Vuoto non deve essere inteso come ciò che non si comprende. Il Vuoto è ciò che non c’è, il nulla; il Vuoto è ciò che non si può conoscere.  Bisogna fare molta attenzione a non confondere il Vuoto con la confusione ed essere abili a non lasciarsi allontanare dalla vera Via dai pregiudizi e dalla distorsione della visione.

La traduzione de “Il libro dei cinque anelli” in questa nuova edizione Feltrinelli (2020) è opera di Yoko Dozaki, ma il volume presenta anche un’ampia introduzione ad opera di Marina Panatero e Tea Pecunia.

In questa prefazione potete trovare una biografia completa di Miyamoto Musashi, oltre ad un’esaustiva introduzione alla sua opera e un breve ma approfondito compendio sulla storia della spada giapponese e sulla storia dei samurai.

La figura di Miyamoto Musashi è una figura affascinante i cui insegnamenti sono giunti a noi attraverso i secoli mantenendo intatte la loro verità ed attualità.

Tra questi troviamo l’importanza di non lasciarsi sopraffare dalla paura che non vuol dire non provare alcuna paura, ma piuttosto imparare a governarla.

Tra le varie paure da superare il timore più grande di tutti resta senza dubbio quello della morte e per superarlo, secondo Musashi, è necessario passare attraverso una costante speculazione della fine.

Le pagine di Gorin no sho ci insegnano ad essere resilienti facendo nostre la resistenza, l’autodisciplina, la perseveranza e la determinazione necessarie nell’arte della spada così come nella vita di tutti i giorni.

Al termine del volume è riportato il Dokkodo, la via da seguire da soli, un brevissimo manoscritto che Miyamoto Musashi terminò pochi giorni prima di morire e che racchiude in ventun precetti la sua eredità spirituale.

Un’ultima parola vorrei sperderla per ringraziare la mia amica Tea senza la quale, devo ammettere, non mi sarei mai avvicinata a questo tipo di letteratura perdendomi così tanti insegnamenti validi e preziosi.

 

 

 


sabato 28 novembre 2020

“Mia nonna d’Armenia” di Anny Romand

Il libro racconta la storia del genocidio armenoil massacro che venne perpetrato dall’impero Ottomano tra il 1915 e il 1918 nei confronti di questo popolo.

Una pagina di storia della quale poco si conosce ma che, per l’elevato numero di vittime, può essere paragonata a quella altrettanto atroce del genocidio commesso dai nazisti nei confronti degli ebrei.

Non molto tempo fa Anny Romand ritrova un piccolo quaderno, un breve diario, scritto da sua nonna Serpouhi durante i terribili momenti che la videro vittima di quanto perpetrato dai turchi nei confronti della popolazione armena.

Anny Romand decide così di scrivere un romanzo, una sorta di diario a due voci dove alle pagine tratte dal quadernetto di Serpouhi si alternano le pagine dedicate ai racconti fatti dalla nonna alla nipotina. 

È infatti affidato alla voce della Anny bambina, non a quella della Anny adulta, il difficile compito di raccontarci in prima persona gli stralci di quelle conversazioni con Serpouhi.

Allevata dalla nonna, la piccola Anny non perdeva occasione, infatti, per ascoltarne i lunghi racconti, nonostante gli aspri rimproveri della madre contraria che la figlia venisse sottoposta al ricordo di tanto strazio.

Serpouhi si era sposata giovanissima, aveva appena quindici anni. Lei avrebbe preferito poter continuare gli studi, ma dopo la morte del padre, a causa della difficile situazione economica della famiglia, non c'era stata per lei alternativa che accettare quanto deciso dalla madre. Karnik si era rivelato un bravo ragazzo e Serpouhi aveva finito per innamorarsi di lui.

Il marito di Serpouhi venne trascinato via da casa e massacrato insieme agli altri uomini all’inizio del genocidio.

Quasi subito venne assassinata anche la figlia più piccola di appena quattro mesi. Serpouhi decise allora di affidare il figlio più grande ad una famiglia di contadini turchi perché si prendessero cura di lui, sperando in questo modo di riuscire a salvarlo.

Per due volte Serpouhi tentò di fuggire ai suoi aguzzini fino a quando riuscì a raggiungere la costa del Mar Nero e da qui finalmente, dopo essere rimasta a lungo nascosta, poté imbarcarsi per Costantinopoli.

Raggiunta la salvezza la donna poté dedicarsi al suo unico vero obiettivo ossia ritrovare suo figlio Jiraïr e portarlo in salvo.

La prefazione del libro, edito da La lepre Edizioni, ad opera di Dacia Maraini pone un quesito solo all’apparenza dalla risposta semplice e scontata.

La domanda è: quando accadono fatti tanto atroci, come appunto quanto accaduto al popolo armeno, è giusto che le vittime continuino a raccontare senza sosta quanto avvenuto fin nei minimi dettagli come fa Serpouhi, oppure, hanno ragione coloro che, come la madre di Anny o lo stesso Jiraïr, preferiscono dimenticare per lasciarsi tutto alle spalle il prima possibile?

Senza dubbio è giusto ricordare perché solo attraverso il ricordo, prendendo coscienza di quanto accaduto, si può scongiurare il pericolo che certe mostruosità possano ripetersi.

La memoria resta e resterà sempre l’arma più potente che possediamo per combattere le atrocità perpetrate nel corso dei secoli.

Eppure, leggendo le pagine di questo libro, non si può restare indifferenti di fronte alle remore e ai dubbi della madre di Anny.

Per quanto la bimba sia legata alla nonna, non si può non accorgersi di quanto certi racconti dell’orrore la tocchino profondamente e allora viene spontaneo interrogarsi se sia giusto sottoporre questa bambina all’ascolto di tanto dolore.

Anny accanto alla nonna è costretta a crescere in fretta, ma riesce comunque a mantenere un’innocenza e un candore che commuovono il lettore.

La bambina mette tutto il suo impegno per cercare di comprendere le cose dei “grandi” e per fare tesoro del racconto di quegli eventi terribili che hanno segnato sua nonna.

Anny è la sola che voglia in realtà ascoltare Serpouhi, agli altri non interessano i suoi tristi racconti.

Serpouhi era una donna forte e combattiva, ma ormai è anziana e i dolori patiti ne hanno irrimediabilmente minato il corpo e lo spirito, così la nipotina si sente in dovere di difenderla da tutto e da tutti, compresi i venditori che vogliono imbrogliarla e le impiegate maleducate all’Evêché.

Anny ascolta i racconti di Serpouhi, racconti terribili e crudi, e nonostante la giovanissima età sa già che il mondo là fuori può essere oltremodo ostile e la gente malvagia; la bimba si immedesima così tanto in quelle narrazioni che a volte le sembra di vivere in prima persona quei fatti e di camminare accanto a Serpouhi in quel suo Eden trasformatosi in inferno.

L’innocenza di fronte al racconto dell’orrore può essere racchiusa anche in queste poche righe:

Mi piace andare al cinema, gli attori, e anche le storie, non sono tristi come quelle di nonna. Al cinema finisce tutto bene, gli innamorati si ritrovano, i cattivi vengono sempre puniti. Nelle storie di nonna, invece, i cattivi non vengono puniti mai, continuano a fare del male e nessuno dice niente, nessuno glielo impedisce.

Serpouhi scrive che chi vive sereno non potrà mai comprendere la situazione di chi soffre, solo chi ha condiviso certe atrocità può davvero comprendere e capire.

La gente leggerà il nostro dolore stampato nei libri, seduta in poltrona. Ma un libro potrà mai descrivere sul serio l’insieme dei nostri dolori? Impossibile. Se ne parlerà nei salotti fino alla prossima novità, e così le suppliche e le voci dei poveri armeni si dissolveranno come fumo di sigaretta, e resterà solo cenere, e solo la terra ci verrà in aiuto.

“Mia nonna d’Armenia” è un libro di appena 125 pagine, eppure, bastano queste poche pagine per farci riflettere su tante differenti tematiche.

Il libro di Anny Romad non è solo il racconto della tragica storia di Serpouhi e del massacro del popolo armeno; attraverso le pagine del suo romanzo l’autrice riesce a dare voce anche a tutte quelle vittime che hanno vissuto sulla loro pelle le atrocità della guerra, delle deportazioni e di ogni possibile crimine contro l’umanità, vittime che non hanno potuto o non possono raccontarlo.

 

 

lunedì 23 novembre 2020

“Rinascimento Babilonia” di Luca Scarlini

Il Rinascimento italiano è senza dubbio un periodo molto controverso. Teatro di devastanti guerre e tradimenti, di corruzione e  congiure dalla ferocia inaudita, eppure, nessuna altra epoca fu in grado, al pari del Rinascimento, di produrre altrettanti capolavori di così rara bellezza, basti pensare a un Botticelli, un Raffaello, un  Michelangelo, un Leonardo Da Vinci senza voler fare torto a tutti gli altri numerosi artisti che contribuirono alla magnificenza di questo periodo storico.

Il Rinascimento fu l’epoca che vide, quali attori principali, quelle famiglie che furono in grado, se non di cambiare totalmente il corso della storia, almeno di influenzarlo grandemente; Medici, Sforza, Borgia, Este, Gonzaga sono solo alcuni dei nomi delle dinastie più famose che operarono in quel panorama politico in cui l’Italia era ostaggio di potenze straniere in continuo movimento per la sua conquista.

Fu il periodo dove a principi illuminati quali Lorenzo de’ Medici si alternarono figure passate alla storia come la personificazione di tutti i vizi capitali quali Papa Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, e figure in odore di santità come il discusso predicatore e riformatore domenicano Girolamo Savonarola.

Il Rinascimento fu un’epoca che sfugge ad ogni possibile classificazione, la devozione al culto mariano così come le armeggerie furono solo due aspetti di un periodo che consacrò invece una parte di sé alla dea Voluptas e al potere di Cupido.

Proprio all’indagine di questo particolare aspetto è dedicato il saggio di Luca Scarlini “Rinascimento Babilonia. Una storia erotica dell’arte italiana”, un  saggio che sconfina nell'inizio dell’epoca barocca quando, a seguito delle trasformazioni dovute alla Controriforma, solo Venezia resistette mantenendo la palma di metropoli libertina d’Occidente.

Scarlini ci racconta episodi poco conosciuti e aneddoti curiosi, ci riporta brani e stralci di lettere che difficilmente potremmo incontrare in un’antologia del liceo, ci presenta una galleria di personaggi straordinari e bizzarri (ermafroditi, cortigiani e prostitute) che furono comunque parte integrante di quel mondo e del tessuto socio-culturale di importanti città quali Roma, Firenze, Milano, Napoli, Siena e Venezia.

Il Rinascimento più di ogni epoca ebbe il vizio o la virtù di mettere ogni cosa in piazza, permettendo così che giungessero fino a noi numerosi epistolari che ancor oggi ci forniscono interessanti dettagli sulla vita privata dei protagonisti del tempo e, perché no, anche sulle loro passioni più intime.

Alcuni episodi sono da tempo già universalmente noti come il legame di Leonardo da Vinci con Salaì o come l’amore senza freni di un artista quale Raffaello per il gentil sesso, altre vicende invece sono a noi meno conosciute come il motivo per cui Giovanni Antonio Bazzi  detto il Sodoma si sia guadagnato tale soprannome; se poi il nome di Imperia, la cortigiana più potente di Roma, era un nome noto ai più, pochi hanno invece sentito parlare di altri personaggi come ad esempio Zufolina o le “Aretine”.

Luca Scarlini ci restituisce attraverso le pagine del suo libro l’aspetto più licenzioso del Rinascimento, un aspetto che l’ipocrisia storica, in particolar modo quella ottocentesca, ha cercato di nascondere, ma che resta in ogni caso una delle più salienti peculiarità che caratterizzarono l’epoca.    

Dello stesso autore avevo letto già il romanzo/saggio “L’ultima regina di Firenze. I Medici: atto finale” dedicato al crepuscolo della più famosa dinastia fiorentina e anche in quell’occasione, come in questa, ero rimasta in prima battuta piuttosto spiazzata dal modo di affrontare certi argomenti da parte dell’autore, ma superata la confusione iniziale, devo ammettere che, anche questa volta, lo stile provocatorio e a tratti dissacrante di Luca Scarlini si è rivelato come sempre il più coerente ed efficace per trattare convenientemente l’argomento. 

“Rinascimento Babilonia” è un viaggio a ritroso nel tempo, in un’epoca che fece delle passioni estreme uno dei suoi temi principali e Luca Scarlini ci conduce lungo questo percorso attraverso la storia dell’arte e della letteratura scandagliandone gli aspetti più licenziosi e nascosti.

Un Rinascimento, quello raccontato da Scarlini in queste pagine, per certi versi inaspettato e anche un po’ irriverente, senza dubbio meno patinato e dorato di quanto siamo abituati a raffiguracelo, ma non per questo meno vero e affascinante.

 




sabato 21 novembre 2020

“Anja, la segretaria di Dostoevskij” di Giuseppe Manfridi

Pietroburgo 1866, il maestro Dostoevskij, il più grande scrittore russo vivente, firma con il suo editore Stellovskij un contratto capestro.

Dostoevskij ha urgente bisogno di denaro per pagare dei debiti e, per quanto il contratto sia un vero e proprio patto col diavolo, lo scrittore è costretto a scendere a patti con il suo mefistofelico editore.

Il contratto lo impegna a consegnare a Stellovskij un nuovo romanzo entro un mese dalla data della firma; se i termini dell’accordo non dovessero essere rispettati, tutti i diritti delle opere già pubblicate dall’autore diventerebbero di proprietà dell’editore così come tutti i diritti di quelle opere prodotte nei nove anni successivi.

Il nuovo romanzo dovrà essere di 500 pagine scritte a mano corrispondenti a 50 fogli a stampa, il compenso tremila rubli.

Su consiglio degli amici Dostoevskij si rivolge ad una scuola di stenografia perché gli fornisca il nominativo di qualcuno che possa affiancarlo in questa titanica impresa a cui suo malgrado è costretto a sottoporsi.

La scelta della scuola ricade sulla loro migliore allieva; Anja, studentessa del primo anno, è una ragazza timida e molto preparata nonché grande appassionata di letteratura, passione trasmessale dal padre.

Anja vive da sola con la madre, il padre è morto ormai da molto tempo e la sorella, alla quale è molto legata, si è trasferita da anni in un'altra città con il marito e i figli.

Non sarà facile per Anja adattarsi al carattere burbero di Dostoevskij così come non sarà semplice per il famoso scrittore stravolgere completamente il proprio processo creativo, ma il loro rapporto crescerà e si rinforzerà giorno dopo giorno, sfociando in qualcosa di imprevisto e imprevedibile.

La storia d’amore nata in appena un mese tra la giovane Anna Grigor'evna Snitkina e il quasi cinquantenne Fëdor Michajlovič Dostoevskij  sarà destinata a fare molto scalpore a causa della scandalosa differenza d’età dei due protagonisti.

Il romanzo intitolato “Il giocatore” verrà pubblicato nel 1866.

I personaggi del romanzo sono molto numerosi, ma ognuno di loro è caratterizzato fin nei minimi particolari sia fisici che psicologici.

L’autore dimostra di essere un profondo conoscitore dell’animo umano regalandoci pagina dopo pagina un racconto dettagliato dei sentimenti, delle debolezze, delle paure e delle insicurezze che pervadono gli animi dei protagonisti della storia.

I dubbi e il senso di frustrazione che tormentano Fëdor Michajlovič sull’esito del romanzo e sui sentimenti di Anja così come il senso di smarrimento che coglie la giovane nel doversi confrontare con situazioni e sentimenti per lei mai affrontati prima sono delineati da Manfridi in modo coinvolgente e appassionante.

Tra i due è proprio Anja quella più determinata e tenace; è lei che, nonostante la giovane età, riesce a infondere coraggio a Fëdor Michajlovič, un uomo che, per sua stessa ammissione, è affetto da ipocondria spirituale e segnato profondamente dall’esperienza dei lavori forzati.

Nel romanzo viene evidenziata anche la profonda fede cristiana del maestro Dostoevskij che, membro devoto e praticante, ha permeato di questo suo amore per il Cristo tutta la sua opera.

Manfridi riesce ad evocare tutto ciò non solo attraverso le parole, ma anche attraverso l’immagine di quel Vangelo che il maestro consegna ad Anja non come un regalo bensì come un’epistola in continuo viaggio tra loro.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare però il racconto non manca di pagine carice di suspense, a quelle dedicate all’introspezione psicologica dei personaggi e alle schermaglie amorose tra i protagonisti, infatti, si alternano pagine in cui lo stato di attesa e di apprensione del lettore viene continuamente sollecito ad interrogarsi sull’evolversi delle situazioni e sull’esito delle stesse.

Nella storia raccontata da Giuseppe Manfridi ci sono alcune licenze che l’autore si è concesso, come egli stesso scrive nell’appendice posta al termine del volume, inesattezze e omissioni necessarie all’economia del romanzo, piccoli peccati veniali che il lettore è ben felice di perdonare visto il risultato.

“Anja, la segretaria di Dostoevskij” è un romanzo davvero interessante per trama e per stile di scrittura, uno di quei romanzi che non è facile trovare nello sconfinato panorama di pubblicazioni dei nostri giorni.

Il romanzo di Manfridi è un volume corposo (600 pagine), ma non dovete lasciarvi spaventare dalla mole perché la lettura è oltremodo scorrevole e fluida.

Sin dalle prime pagine ci si rende conto di avere tra le mani un’opera di straordinaria qualità e questa impressione resterà  inalterata fino all’ultima riga del romanzo.

Con un linguaggio forbito e raffinato, ma allo stesso tempo semplice e immediato, l’opera di Manfridi è letteratura con L maiuscola; un romanzo che ben figurerebbe tra i romanzi che hanno fatto la storia della letteratura e che oggi è così difficile incontrare sugli scaffali delle librerie dedicate al romanzo contemporaneo.

Grazie alla penna di Manfridi si torna finalmente a respirare l’aria dei grandi classici, quei meravigliosi romanzi che hanno saputo negli anni e nei secoli mantenere immutato il loro fascino.

 

 


sabato 14 novembre 2020

“Le rose di Cordova” di Adriana Assini

Nura, la schiava moresca di Juana I di Castiglia (1479-1555), terzogenita di Isabel e di Fernando, è l’io narrante di questo romanzo in cui racconta la propria vita e quella della sua padrona, due esistenze legate indissolubilmente dal loro destino.

Juana andò in sposa a Philippe di Borgogna, conosciuto anche come Philippe detto il Bello, da non confondersi con l’altro Filippo il Bello, il re di Francia che regnò dal 1285 al 1314.

Il bel fiammingo, figlio di Massimiliano I d’Asburgo, era all’epoca il principe più ammirato e desiderato da tutte le corti europee, ma per la principessa spagnola quello che ad un primo momento era sembrata la sua più grande fortuna, si rivelò ben presto per lei una terribile sciagura.

Philippe era un seduttore impenitente, un giovane scaltro e insolente che ben presto perse interesse per la giovane moglie e, nonostante i numerosi figli nati dal loro matrimonio, Juana si ritrovò fin da subito a dover fare i conti con le numerose amanti del marito che questi non si faceva alcuno scrupolo di esibire a corte.

Sfinita dai continui tradimenti e con il cuore a pezzi, Juana trascorse tutta la sua vita matrimoniale tra ripicche e scenate, nell’inutile tentativo di conquistare l’amore del consorte.

I suoi continui colpi di testa e gli sbalzi d’umore non fecero altro che favorire coloro che, non vedendo l’ora di appropriarsi del suo trono, non si fecero alcuno scrupolo nel dichiararla pazza per raggiungere i propri scopi.

Juana passerà alla storia come Giovanna la Pazza, la regina che non regnò neppure un giorno.

Per un triste gioco del destino infatti fu lei, terza in linea di successione, ad ereditare il regno di Castiglia e d’Aragona alla morte della madre Isabel, ma questo fatto invece di riabilitarla agli occhi del consorte non fece che far precipitare definitivamente la sua già triste e precaria situazione.

Suo padre Fernando e suo marito Philippe non persero tempo a dichiarare Juana una povera inferma per poterle strappare la corona, salvo poi battersi tra loro così spietatamente per il potere che ancor oggi resta il sospetto che Philippe morì avvelenato proprio per mano del suocero.

Quella di Juana fu vera pazzia oppure i suoi comportamenti furono dettati solo dalla frustrazione e dalle umiliazioni a cui fu continuamente sottoposta?

Juana venne ingannata e tradita da tutti coloro che amava di più e che per primi avrebbero dovuto proteggerla: suo padre, suo marito e persino il suo stesso figlio che non alzò un dito in sua difesa quando salì su quel trono che di fatto apparteneva alla madre.

Giovanna morì prigioniera tra le mura di quel castello dove suo padre l’aveva segregata tanti anni prima, morì sola e dimenticata da tutti, l’unica che rimase al suo fianco fino alla fine dei suoi giorni fu proprio Nura, la sua schiava.

Non è la prima volta che Adriana Assini dà voce nei suoi romanzi a straordinarie figure femminili del passato, vorrei qui ricordare un romanzo che ho amato moltissimo intitolato “Agnese, una Visconti”.

Ne “Le rose di Cordova” due sono le figure femminili protagoniste del romanzo, due donne di nobile stirpe la cui condizione è molto diversa, ma solo in apparenza.

Nura figlia di Aziz, primo ministro del sultano Boabdil il Piccolo, è solo una schiava mentre Juana sembra destinata a un fulgido destino, eppure, anche lei a suo modo è una schiava al pari della sua ancella. Usata da chi dovrebbe proteggerla, tradita e continuamente umiliata, non può dirsi più libera di Nura tanto che anche lei stessa finirà i suoi giorni rinchiusa in un castello-prigione.

Il rapporto che lega Nura alla sua padrona è un rapporto conflittuale, un rapporto fatto di amore e odio, come lei stessa non stenta a definirlo; più indecifrabile è invece il sentimento che lega Juana alla sua ancella.

Juana è una donna indisciplinata, ribelle e fiera che, per quanto spesso possa avere atteggiamenti indisponenti e spesso esasperanti, non si può non amare e provare empatia nei suoi confronti.

Adriana Assini ci regala in questo romanzo il ritratto di due figure femminili molto diverse tra loro, entrambe forti e determinate, innamorate dello stesso uomo, unite da un patto non scritto; due donne legate da sentimenti spesso conflittuali ma destinate a condividere per la vita la loro solitudine, a godere insieme dei raggi del sole e insieme a sfuggire la pioggia.

“Le rose di Cordova” è un racconto breve, sono appena duecento pagine, ma molto intenso; una storia tormentata quella di Juana I di Castiglia che Adriana Assini ha saputo raccontarci ancora una volta con la grazia e la sensibilità che da sempre contraddistinguono la sua scrittura.




 

lunedì 9 novembre 2020

“La danza del mulino” di Winston Graham

La guerra contro Napoleone continua ad infuriare sul continente, mentre a casa Poldark Ross e Demelza sono in attesa del loro quinto figlio.

La nuova miniera sembra destinata a non dare risultati in tempi brevi ma, trattandosi di una speculazione, c’è bisogno di tempo per avere certezze.

Jeremy, il figlio maggiore, sembra proprio non riuscire a dimenticare l’affascinante Cuby Trevanion, ma il fratello della giovane è sempre più intenzionato a trovarle un marito ricco in grado si saldare i debiti da lui contratti per la costruzione della pretenziosa dimora di famiglia oltre che ai numerosi debiti di gioco.

Mentre la piccola di casa Isabella-Rose cresce sempre più ribelle, Clowance accetta di sposare l’attraente e tenebroso Stephen Carrington.

La passione tra loro divampa ad ogni sguardo, ma sarà sufficiente la sola attrazione fisica per far fronte a tutte quelle differenze che sembrano ogni giorno scavare una voragine sempre più profonda tra loro?

George Warleggan, sempre più ai ferri corti con il figlio maggiore Valentine, un damerino vanesio e libertino, compie il grande passo convolando a nozze con Lady Harriet.

L’esser riuscito a sposare la figlia di un duca rende George, se possibile, ancora più altezzoso e determinato a consolidare la propria ascesa sociale, ma sul suo cammino ancora una volta incocerà il nome dei Poldark.

Ambientato nella Cornovaglia del 1812, il nono capitolo della saga dei Poldark consacra definitivamente le nuove generazioni, già protagoniste dell’ottavo romanzo, come principali personaggi della storia.

Valentine, il figlio di Ross ed Elizabeth, che tutti credono essere figlio di George, sembra aver ereditato il carattere licenzioso e lo spirito depravato del nonno paterno, inoltre, per uno strano gioco del destino, il suo cammino sembra ormai indirizzato a scontrarsi con quello del fratellastro/cugino Jeremy, quasi a voler replicare lo scontro che in passato aveva opposto suo padre Ross al cugino Francis per la conquista del cuore di sua madre Elizabeth.

Cuby Trevanion ricorda molto Elizabeth, come lei è bella e di nobile nascita; anche Elizabeth aveva seguito il volere della famiglia, aveva accettato di sposare Francis per il decoro e per il denaro invece di seguire il suo cuore e sposare Ross. Cuby sembra intenzionata a fare la stessa scelta, ma riuscirà a rimanere ferma nei suoi propositi fino alla fine?

Per ora non è dato saperlo, dovremo attendere i prossimi romanzi così come dovremo aspettare le prossime uscite per conoscere quali saranno le scelte definitive di Clowance, l’adorata figlia di Ross.

“La danza del mulino” è un romanzo scorrevole come tutti i romanzi nati dalla penna di Winston Graham, anch’esso si legge tutto d’un fiato e non risulta mai noioso tranne forse nelle poche pagine in cui l’autore si perde nei dettagliati tecnicismi relativi ai motori e alle caldaie, ma fa tutto parte dell’economia del racconto.

La differenza con gli altri romanzi nasce dal fatto che questo libro lo si potrebbe considerare un volume di passaggio, nella prima parte infatti non ci sono grandi sviluppi nella storia e il finale resta più aperto del solito presentando uno spiazzante colpo di scena.

“La danza del mulino” è più improntato alla descrizione dei personaggi, all’indagine della loro psicologia così da preparare il lettore a quello che accadrà dei prossimi libri. È forse il romanzo che più di tutti lascia il lettore con il fiato sospeso in attesa di conoscere gli eventi futuri.

Ancora una volta Winston Graham riesce a turbare il lettore regalandogli emozioni e coinvolgendolo nella storia, creando aspettative e mantenendo alta la tensione del racconto, rendendolo sempre partecipe della vita dei suoi personaggi siano essi vecchie o nuove conoscenze.

“La danza del mulino” è un romanzo che conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, la grande capacità narrativa del suo autore e ci lascia, ancora una volta, in trepidante attesa dell’uscita del prossimo romanzo.

Qui potete trovare i post dedicati agli atri volumi della saga di Poldark