La morte di Mozart resta ancora tutt’oggi un
mistero, per anni si è addirittura pensato che fosse stato sepolto in una tomba
comune. Gioacchino Rossini scrisse
numerose opere, grandi successi, ma poi all’improvviso la sua vena artistica si
esaurì, si dice a causa di una forte depressione.
Matteo
Della Rovere con il suo romanzo “Amare note” regala al lettore uno scherzo,
come recita lo stesso sottotitolo del libro: “Uno scherzo su Mozart e Rossini”.
Una storia affascinante in
cui l’autore fantastica su un
improbabile, seppur seducente, legame tra i due artisti; un filo narrativo
che ha dello straordinario e che si presterebbe benissimo come trama per il
libretto di un melodramma.
Siamo
nella Bassa Romagna, corre l’anno 1798,quando una giovanissima Marietta prende servizio presso il maestro
Amedeo Gasperini. Nonostante gli iniziali e legittimi dubbi nel
dover vivere da sola con un uomo maturo in un isolato casale, Marietta si rende
conto molto presto che il maestro Gasperini è davvero l’uomo dabbene che le
avevano descritto. Questi, da parte sua, avendo preso fin da subito in simpatia
la giovane, si adopera per darle un’istruzione e, nonostante l’iniziale scetticismo
di lei che definisce l’idea una stramberia,
le insegna a leggere e scrivere.
Il
maestro, valente musicista, si guadagna da vivere dando lezioni di musica. Un
giorno tra i suoi allievi arriva un
bambino di dieci anni, il suo nome è Gioacchino
Rossini. Il nuovo arrivato si rivelerà, sebbene molto dotato musicalmente, anche una
vera spina nel fianco e metterà a dura prova l’equilibrio perfetto creatosi
tra Amedeo e Marietta.
Non si può anticipare molto
di più della trama per non rovinare al lettore il piacere di scoprire da sé i tanti intrighi, i molti colpi di scena e
i numerosi sotterfugi che si susseguono incessantemente pagina dopo pagina
rendendo la narrazione vivace e scorrevole.
Bellissimo il personaggio
del maestro Gasperini: un uomo
gentile, premuroso ma anche tremendamente tormentato. Amedeo ama Marietta per la sua vitalità, ma mai si sognerebbe di imporle i suoi sentimenti sapendoli non
ricambiati. La sua è una figura malinconica e sin dall’inizio il lettore si
interroga su quale sia il dolore che si cela dietro la sua pacatezza, quel
dolore che il maestro cerca di annegare costantemente nel vino.
Marietta è
un personaggio che cresce nel corso della storia non solo anagraficamente. Sin
da ragazzina si comprende che ha un carattere forte e deciso. Una figura estremamente moderna nel
rivendicare le proprie scelte di donna anche quelle che la conducono a
commettere errori pesanti dei quali, però, è sempre pronta ad assumersi le
proprie responsabilità. Quello di Marietta non è un personaggio che ispiri
immediata simpatia nel lettore, però, grazie ad una sensibilità e ad una
generosità inaspettate, riesce a conquistarne, nel corso del racconto, completamente l’anima regalandogli
anche qualche interessante sorpresa.
Infine, troviamo “il cattivo” della storia: Gioacchino
Rossini. Un personaggio riprovevole che racchiude in sé tutte le
caratteristiche più negative: egoista e arrogante; fin da bambino risulta un elemento antipatico, viziato e prepotente.
“Amare note” è un romanzo breve, piacevole e denso di significati. Un plauso al suo autore per aver saputo
creare una storia tanto accattivante e originale al tempo stesso.
Siamo sul finire del
Seicento, in una Venezia in declino dal punto di vista politico ma ancora
largamente attiva sul piano culturale e musicale, due bambini vengono alla luce a distanza di un anno l’uno
dall’altro.
Nel 1677 la neonata Lucietta viene abbandonata e affidata all’Ospedale
della Pietà, Antonio Vivaldi nasce
appena un anno dopo, nel 1678.
Due
vite consacrate alla musica, le loro, ma mentre Lucietta è
condannata a trascorre tutta la sua esistenza tristemente reclusa in un ambiente
difficile e ostile, Antonio è invece destinato ad andare in giro per il mondo e
ottenere una fama internazionale.
Don
Antonio Vivaldi e l’organista Lucietta avranno modo di fare musica
insieme, seppur per un breve periodo, ma quei pochi attimi basteranno per
toccare in qualche modo le loro anime per sempre.
“Lucietta” di Federico Maria
Sardelli è un libro che unisce due
generi molto diversi tra loro: il romanzo e il saggio. Alternando capitoli
dedicati a fatti immaginati a capitoli
dedicati a fatti documentati,
l’autore riesce a ricreare perfettamente le atmosfere della Venezia dell’epoca.
Il racconto è incentrato sulle
condizioni di vita delle piccole che venivano accolte all’Ospedale della Pietà,
vite di povere segregate, come era stata quella di Lucietta; racconto di vite caratterizzate
da cibo scarso e di pessima qualità, da malattie (angoscianti le pagine in cui
viene descritto come si tentò di curare l’affezione agli occhi di Lucietta), da
cattiverie e vessazioni perpetrate ai danni delle recluse sia dalle compagne che
da chi avrebbe dovuto vegliare su di loro.
È tangibile il senso di
angoscia e di claustrofobia che doveva attanagliare le figlie della Pietà. Federico
Maria Sardelli è davvero abile a descrivere quei sentimenti di inquietudine,
rivalsa, gelosia e tormento che si dovevano respirare tra quelle mura.
Eppure, ambienti tanto
freddi e privi di empatia come gli
ospedali veneziani furono formidabili centri di produzione musicale a cui si
guardava con interesse non solo da parte dei cittadini, ma anche dei visitatori
stranieri. Alcune esecuzioni raggiungevano tali livelli da suscitare grande ammirazione
persino nei diaristi e nei cronisti più celebri dell’epoca.
Molti
dei manoscritti che Vivaldi scrisse durante il suo primo mandato per l’Ospedale
della Pietà sono andati purtroppo perduti. Il maestro Sardelli
sottolinea però il fatto che, sulla base di quel poco che si è conservato, possiamo
oggi osservare quanta formidabile cura Vivaldi mettesse nel dare a ciascuna figlia il tipo di musica adatta
all’altezza della sua maturazione tecnica.
Avvalendosi delle fonti d’archivio per raccontare la verità dei
fatti e facendo al tempo stesso ricorso alla fantasia per compensarne le lacune e per rendere più fluida la narrazione, Federico Maria Sardelli è riuscito
nell’impresa di fare riemergere dalle
ombre del passato e dare voce alla figura storica di una musicista di grande
talento dimenticata dal tempo, non perché non abbastanza talentuosa, ma
perché, come scritto nelle note stesse dell’autore, appartenente alla classe dei
diseredati.
La Lucietta di Federico
Maria Sardelli è mansueta e testarda, ha imparato presto che la rassegnazione è
la miglior medicina nei momenti di avversità, ma per lei sbagliare è un’umiliazione
insopportabile. Ha un carattere forte e sembra sempre molto sicura di sé, eppure,
nasconde anche tante fragilità e una di queste si chiama proprio Antonio
Vivaldi.
La protagonista di questo libro, così come il famoso musicista che abbiamo già avuto modo di apprezzare negli altri volumi a lui dedicati da Federico Maria Sardelli, fa parte di quei personaggi destinati ad essere irrimediabilmente amati da tutti i lettori.
Il museo degli strumenti musicali della Galleria dell'Accademia
di Firenze venne inaugurato nel 2001. La collezione del Conservatorio Luigi
Cherubini consisteva in più di 40 strumenti, appartenenti alle collezioni medicee
e lorenesi, databili tra il diciassettesimo e il diciannovesimo secolo.
Questo piccolo catalogo bilingue (italiano-inglese) si apre con un’introduzione in cui viene
brevemente presentato il museo, seguita da una serie di schede dedicate agli
strumenti e ai quadri esposti.I soggetti rappresentati sono nature
morte nelle quali figurano degli strumenti e personaggi legati sempre all'ambiente
musicale.
Il più grande collezionista di strumenti fu senza dubbio il
Gran Principe Ferdinando che si dilettava egli stesso come musicista. Sotto
il regno di Cosimo III de’ Medici la collezione raggiunse il suo massimo
splendore e a questo periodo risale la maggior parte dei dipinti esposti. Fu il
Gran Principe Ferdinando, tra le altre cose anche grande collezionista d’arte, a
commissionare quei ritratti di musici conosciuti come i musici del gran
principe.
In uno di questi dipinti, opera di Anton Domenico Gabbiani
(1632-1726), si riconosce proprio Ferdinando de’ Medici. Non altrettanto
facile è invece riuscire a identificare i singoli personaggi, per i quali
spesso ci si può solo limitare a fare ipotesi plausibili qualora ci siano motivazioni
convincenti in tal senso. Risulta chiara, comunque, una certa complicità tra
il Gran Principe e i suoi musici, una familiarità spesso deprecata da CosimoIII come si evince nella sua corrispondenza col figlio nella quale lo invitava a
trattare con essi da par suo.
Tra le particolarità del catalogo figurano strumenti come la
famosa viola tenore di Antonio Stradivari, considerata lo strumento più
celebre della collezione. Questa viola ci è giunta nella forma e nella
struttura originali, aspetto che la rende un oggetto oltremodo prezioso. Leggendo
il libro si comprende che gli strumenti giunti ai giorni nostri sono in realtà solo una minima parte dell’intera collezione medicea, sia perché i Lorena li
misero all'asta per monetizzare, sia perché nel corso degli anni vennero periodicamente
aggiornati per renderli in linea con le mode musical dei tempi, sia perché spesso
venivano prestati ai musici senza che poi questi li restituissero, vuoi ormai
perché inutilizzabili o, magari più semplicemente, perché andati perduti.
Curioso è leggere in cosa consistessero questi ammodernamenti
degli strumenti compiuti appunto per renderli più adatti all’esecuzione della
musica del momento; alcuni di essi, ad esempio, sono stati ridimensionati nella cassa, in altri è stata modificata l’inclinazione del
manico, in altri sono state fatte modifiche per
aumentare il numero delle corde.
È quindi impossibile oggi poter ricreare quel suono
originario delle musiche così come queste venivano eseguite al tempo della loro
composizione. Per ovviare in parte a questa problematica, e al fatto che
spesso lo stato di conservazione degli strumenti non permetterebbe neppure di
eseguire idonei restauri, si è cercato oggi di ricostruire copie il più
possibile conformi agli originali.
Il Gran Principe Ferdinando raccolse intorno a sé non solo
musici e costruttori di strumenti di ambiente fiorentino, ma invitò alla sua
corte anche molti artigiani e musicisti provenienti da tutta Italia. Proprio a
Firenze il patavino Bartolomeo Cristofori ideò il famoso fortepiano,
principale antenato del più moderno pianoforte. Nelle collezioni esposte nella
Galleria dell’Accademia tra gli strumenti costruiti appunto dal Cristofori si
può ammirare il più antico pianoforte verticale conosciuto oltre ad una
bellissima spinetta ovale.
La prima edizione di questo catalogo è datata 2001, ma è stato
ristampato più volte nel corso degli anni fino almeno al 2021, anno della
ristampa in mio possesso.
Come viene specificato nel libro stesso, risulta un po’
strano pensare di vedere esposti questi strumenti come se si trattasse di arte
visiva piuttosto che di strumenti nati per essere ascoltati. È indubbio,
comunque, che alcuni di essi siano di per sé delle vere opere d’arte se si guarda
ad esempio agli intarsi di madreperla presenti su alcuni o a strumenti quali il
salterio di Cosimo III.
Attraverso le pagine del libro e le schede dedicate ai vari
strumenti si ripercorre la storia della musica dalla corte medicea alla corte
lorenese.
Con la morte del Gran Principe Ferdinando finiva anche l’età
della grande musica eseguita nelle ville di proprietà, la più celebre delle
quali per gli allestimenti degli spettacoli che vi venivano eseguiti era senza
dubbio quella di Pratolino.
Con l’avvento dei Lorena la musica mutò completamente. Essi erano soliti dare feste a Palazzo Pitti dove veniva invitata addirittura tutta la popolazione ed ovviamente la musica da ballo era quella che andava per la maggiore.
Coloro che visitarono Firenze all'epoca della corte lorenese non
mancarono di rimarcare la scarsa vivacità della vita musicale della
città oltre alla difficoltà di accesso alle raccolte e alle biblioteche.
Qualche tempo fa partecipai ad
un evento in cui venivano esposti e commentati alcuni quadri che ritraevano
Niccolò Paganini. Rimasi colpita dal fatto che lo stesso violinista, vissuto
comunque in un’epoca relativamente recente, lamentasse il fatto che la maggior
parte delle opere non gli assomigliassero affatto. Si racconta che quando vide
il suo ritratto eseguito da George Patten, ne commissionò al pittore subito una
copia, poiché per la prima volta vi aveva riconosciuto la propria immagine.
Antonio Vivaldi visse parecchi
anni prima di Paganini, ma non ho potuto fare a meno leggendo il titolo di Federico
Maria Sardelli di ritornare con la mente a quell’episodio.
Se nel primo libro, “L’affare Vivaldi”, il maestro Sardelli aveva affrontato la storia dei manoscritti del
Prete Rosso, in questo ultimo si ripropone di fare il punto su quali e
quanti siano i ritratti di Vivaldi a noi giunti che si possano ritenere
attendibili.
Una prima parte del volume più
generica è dedicata alle questioni di metodo. Si analizzano
quindi i criteri usati in passato e quelli utilizzati oggi nel tentativo di
riconoscere un dato musicista in un certo dipinto.
Uno degli errori più comuni si
è rivelato essere quello di voler leggere il ritratto attraverso la
sensibilità di un’epoca completamente differente. Spesso si tende a cogliere
nell’individuo effigiato sovrasensi idealistici e romantici che non potevano
appartenere all’epoca in cui tale personaggio visse. Così, se tali sovrasensi
possono essere attribuiti a musicisti dell’epoca romantica ritratti da pittori
coevi, gli stessi non possono essere di certo applicati ai ritratti di
musicisti di epoca barocca quando il sentire era completamente differente.
Non si può prescindere,
inoltre, da tenere presenti molte altre variabili quali: l’esistenza di
pittori più o meno bravi, la differenza e la resa delle diverse tecniche
utilizzate per il ritratto, l’analisi degli attributi che identificavano la
categoria di appartenenza dell’effigiato, la concreta possibilità di incorrere in
errori indotti dalla conoscenza di elementi biografici del musicista in
questione.
Nella seconda parte del libro
si entra nel vivo della trattazione e si cerca di fare quindi più
specificatamente chiarezza sui ritratti di Antonio Vivaldi a noi
giunti incrociando dati stilistici, dati tecnico-scientifici ed elementi biografici.
L’interdisciplinarità diventa elemento fondamentale per poter
raggiungere un’analisi quanto più attendibile possibile.
Dei ritratti presi in esame dall’autore
molti risulteranno false attribuzioni, altri copie di ritratti originali,
alcuni risulteranno essere poi ritratti dal vero, altri rimandati a memoria
dall’artista, alcuni contemporanei ed altri postumi.
Vivaldi, per quanto
conosciuto, non fu certamente da considerarsi facoltoso e ben introdotto come
lo furono, ad esempio, Händel o Corelli. Entrambi questi due musicisti
furono anche importanti collezionisti d’arte e le loro pinacoteche
personali oltre a contare numerosissime opere annoveravano diversi artisti
importanti. Quando alla morte di Vivaldi vennero inventariati i suoi beni
tra questi erano presenti solo quattrodici quadretti, tutti anonimi.
Vivaldi non poteva quasi
sicuramente permettersi di commissionare il proprio ritratto ad un pittore
famoso. Il ritratto di Bologna però che, come si evince dalle pagine del
libro, risulta essere uno dei più attendibili può di fatto essere attribuito a
un buon pittore di scuola veneta per quanto anonimo.
Tra le effigi vivaldiane risultate
degne di fede, seppur con manifesti limiti dovuti alle tecniche utilizzate o ad
altre problematiche, ci sono le caricature eseguite da Pier Leone Ghezzi e l’incisione
di La Cave.
“Il volto di Vivaldi” è un
libro interessante e ben articolato. Federico Maria Sardelli entra nei
dettagli, sviscera ogni più piccolo indizio, confronta e analizza, scompone e
ricompone ogni particolate. Il lettore non può che rimanere affascinato e
avvinto dalla stringente logica e dal metodo investigativo dell’autore.
Federico Maria Sardelli è un
personaggio eclettico. Saggista, direttore d’orchestra, compositore, pittore,
autore satirico nonché Membro dell’Istituto Italiano Antonio Vivaldi e
responsabile del catalogo vivaldiano. In questo volume risaltano tutte le sue
doti e le sue capacità: lo spirito investigativo, la competenza, la capacità
di analisi, la conoscenza dell’argomento e l’ironia che emerge tra le
pagine strappando più di un sorriso al lettore soprattutto quando viene usata
per rimarcare l’infondatezza di alcune attribuzioni.
Questo volume è un importante
tassello per conoscere la figura di Antonio Vivaldi, ma anche per capire come ci
si debba muovere in campo storico-iconografico e quali siano gli errori da
evitare.
Venezia, 27 maggio 1740. A
casa Vivaldi Zanetta e Margarita sono di nuovo alle prese con il messo del
tribunale. Il reverendo Don Antonio Vivaldi ha lasciato la Serenissima per
cercare fortuna presso la corte dell’Imperatore abbandonando le sorelle all’ingrato
compito di far fronte ai suoi numerosi debitori. La stella del Prete Rosso è ormai
tramontata, nuovi autori e nuova musica lo hanno scalzato dalle altre vette
raggiunte. Investimenti sbagliati e lavori sospesi lo hanno ridotto sul
lastrico. Solo la scaltrezza e l’intraprendenza del fratello Francesco può
giungere in soccorso delle due povere donne.
Occimiano nel Monferrato,
autunno 1922. Nella villa portata in dote dalla moglie e nella quale si era
rifugiato anni prima per lasciarsi alle spalle Genova e i dispiaceri
famigliari, Don Marcello Durazzo sta per giungere al termine della sua vita
terrena. La sua più grande preoccupazione è quella di trovare a chi affidare il
suo tesoro: la sua biblioteca.
Libri e manoscritti appartenuti un tempo
alla biblioteca di famiglia che il padre volle dividere, compiendo una scelta
scellerata, tra i suoi due figli. Don Marcello, nonostante la marchesa Francesca,
sua moglie, molto più lungimirante di lui, lo abbia più volte sconsigliato in
tal senso, decide comunque di affidare tutti i suoi preziosi volumi ai
salesiani.
“L’affare Vivaldi” è la storia
della riscoperta dei manoscritti di Antonio Vivaldi. Una
storia che inizia a Venezia a metà del Settecento e termina nel 1938. Questo
almeno per quanto riguarda la trama del libro perché la riscoperta dei manoscritti
vivaldiani è tutt’oggi in corso e lo sa bene l’autore del romanzo che si
occupa proprio del catalogo vivaldiano ormai da anni. Ogni anno spuntano nuove
pagine, ma anche tante false attribuzioni spesso dovute a copisti senza
scrupoli.
Sulla vita di Antonio Vivaldi
ci sono ancora molte lacune. Sappiamo per certo che egli
finì i suoi giorni in povertà e in solitudine. Ad un certo punto la sua
musica passò di moda e le sue opere teatrali non incontrarono più il gusto del
pubblico. Fu l’inizio di quell’oblio che durò quasi due secoli.
La storia narrata in “L’affare
Vivaldi” può sembrare frutto di fantasia, ma in verità, come lo stesso Federico
Maria Sardelli specifica nelle note al termine del volume, questo è uno di quei
casi in cui la realtà supera di gran lunga l’immaginazione. All’inizio
del libro troviamo un elenco dei principali personaggi. Questi sono quasi tutti
personaggi reali tranne qualche raro caso in cui l’autore ha dovuto ricorrere
alla fantasia per sopperire alle lacune documentali. Né è un esempio
l’anarchico e tipografo Arnaldo Bruschi personaggio interamente nato dalla
penna del maestro Sardelli.
I veri eroi di questa storia sono
il compositore e musicologo Luigi Torri, direttore della Biblioteca
Nazionale di Torino nonché soprintendente bibliografico per il Piemonte e la
Liguria e il musicologo, direttore d’orchestra e compositore Alberto Gentili,
professore di storia della musica all’Università degli Studi di Torino. Queste
due figure con il loro impegno e la loro dedizione furono indispensabili per
assicurare allo Stato l’acquisizione dei volumi vivaldiani delle collezioni Foà
e Giordano.
Il racconto non segue una
linearità temporale narrativa, ma ricorre a continui flashback che trovano tutti
un loro epilogo nel capitolo conclusivo. Contrariamente a quanto si
potrebbe pensare la scelta dell’autore di fare ricorso a questi salti
spazio-temporali non spezza assolutamente il ritmo del racconto che risulta
invece coinvolgente e incalzante. I personaggi sono tutti ben delineati e
caratterizzati. La narrazione, sempre scorrevole, non manca di una vena
ironica. Essenziale, infatti, è riuscire a far sorridere il lettore e
stemperare la tensione laddove si presentano eventi particolarmente irritanti o
personaggi oltremodo indisponenti e superficiali. Un sarcasmo che fa sorridere,
ma che allo stesso tempo sottolinea l’incapacità, la superficialità e gli
errori commessi nel corso degli anni.
“L’affare Vivaldi” è il
racconto di un’indagine che ha il sapore di un giallo, ma alla cui base c’è
un gran lavoro di ricerca e consultazione documentaristica.
Venezia, 1688. Giambattista Vivaldi per mantenere la
sua numerosa famiglia si è adattato a fare il barbiere, ma non perde occasione per
dedicare ogni momento libero al suo amato violino.
Proprio con il violino è solito intrattenere anche i
suoi bambini tra questi il piccolo Antonio che fin dalla nascita ha manifestato
gravi problemi di salute.
Toni, il cui cuore corre troppo veloce e a cui spesso manca
il respiro, un giorno si ritrova il
violino del padre tra le mani e, senza avere mai prima d’allora studiato musica,
improvvisa una melodia che stupisce tutti i presenti. Sarà l’inizio di una
passione che non lo abbandonerà più per tutta la vita neppure quando per voler dei suoi genitori sarà spinto a
prendere i voti.
Antonio Vivaldi, conosciuto da tutti come il Prete Rosso per la sua ribelle chioma
rossa come il fuoco, raggiungerà la fama e il successo, presenterà le sue
opere in tutti i più celebri teatri e porterà la propria musica in tutte le più
grandi Corti, farà conoscenza di nobili, re e principi, sarà ammirato e invidiato.
Vivaldi sarà anche fonte di pettegolezzi
a causa dell’unica donna della sua vita Anna Girò, prima sua allieva e poi sua
cantante e musa, fino a quando terminerà i suoi giorni dimenticato da tutti in
un freddo inverno viennese.
Della vita di Antonio Vivaldi si conosce poco o nulla
per cui il libro di Emanuela Fontana, seppur
ben documentato e frutto di un lungo lavoro di ricerca, è una storia fortemente
romanzata a causa delle fonti lacunose.
Molti personaggi sono frutto di fantasia dell’autrice
come il dottor Gavioli e la sua famiglia, i comprovati rapporti con i nobili
Marcello sono stati rimaneggiati per meglio adattarsi alla narrazione e per quanto
riguarda l’amore tra Antonio Vivaldi e Anna
Girò non esiste alcuna fonte che ne possa confermare la veridicità sebbene
all’epoca le voci e i pettegolezzi fossero stati molto insistenti al riguardo.
Il romanzo si svolge su più piani spazio-temporali. Ai capitoli nei quali viene narrata la
vita di Vivaldi a partire da quando era un gracile bimbo di dieci anni fino
alla conquista della fama, si alternano i capitoli che lo vedono, anziano e
caduto in disgrazia, aggirarsi per le fredde strade di Vienna mentre la sua amata
Anna, ignara dello stato di salute in cui lui versa si interroga, sul loro indissolubile legame.
Il ritmo del
racconto sembra quasi seguire i tempi propri della musica, così da lento il ritmo narrativo accelera
improvvisamente facendosi veloce per poi rallentare nuovamente e così via in un
continuo crescendo e diminuendo.
Non sono quindi tanto i cambi spazio-temporali del
racconto quanto piuttosto proprio questa continua variazione di cadenza che,
per quanto di estrema efficacia narrativa, risulta talvolta un po’ impegnativa
per il lettore che deve adattarsi al continuo alternarsi del ritmo.
Il Vivaldi di Emanuela Fontana è un genio del suo
tempo, un uomo assetato di fama e denaro, ma allo stesso tempo generoso con i meno
fortunati ai quali è sempre pronto a donare; un uomo ossessionato dal desiderio di compiacere il pubblico,
perfezionista e accentratore tanto che delle sue opere egli vuole occuparsi
in prima persona di ogni aspetto facendosi persino impresario.
Vivaldi è tormentato
dalla fuggevolezza dello scorrere del tempo, è uomo legato agli affetti famigliari,
ma allo stesso tempo se ne sente talvolta schiacciato, soffre ogni tipo di costrizione
e per questo rifugge dalle accademie. È un uomo
dalle mille contraddizioni, in perenne movimento.
“Il respiro degli angeli” è una storia struggente che appassiona e incanta per la sua intensità; un
racconto carico di pathos e di liricità.
L’interesse dell’autrice non è rivolto solo al Vivaldi
artista, ma anche incentrato sul desiderio di comprendere quale uomo si celasse
dietro alla sua leggenda.
“Il respiro degli angeli” è però anche un viaggio
attraverso la musica di Antonio Vivaldi, un invito ad approfondire la sua vasta
produzione della quale troppo spesso si conoscono solo i concerti più famosi.
Il titolo originale dell’opera è in
realtà Year of wonder, classical music for every day, non si
comprende molto la ragione per cui nell’edizione italiana tale titolo sia
diventato Un anno con Mozart.
In
effetti questa scelta è piuttosto fuorviante dal momento che il libro propone
sì 365 brani, o meglio 366 perché è contemplato anche un brano per il 29
febbraio, per l’ascolto di un brano al giorno per un ogni giorno
dell’anno, ma i pezzi presi in esame non sono assolutamente tutti di
Mozart bensì di numerosi autori, più di 240, anche molto diversi
tra loro per epoca, nazione e stile.
I
brani proposti da Clemency Burton-Hill in questo suo volume, che non
vuole essere assolutamente una storia della musica tout court, spaziano in
un arco temporale amplissimo abbracciando un percorso lungo più di
mille anni, dalla musica medievale di Ildegarda di Birgen si arriva fino a
Alissa Firsova musicista contemporanea nata nel 1986.
Il
libro di Clemency Burton-Hill si propone come un invito all’ascolto rivolto
a tutti coloro che non conosco la musica classica ma ne sono in qualche modo
attratti, a tutti i neofiti che la apprezzano ma non hanno conoscenze
specifiche e a tutti coloro che semplicemente, seguendo la scaletta del libro,
vogliono ritagliarsi uno spazio giornaliero da dedicare all’ascolto di un brano
musicale per rinfrancare lo spirito e staccare la spina per qualche minuto.
Nell’introduzione
l’autrice scrive infatti chiaramente che ai nostri giorni è scientificamente
provato che ritagliarsi giornalmente un momento per “la cura di sé”
abbia benefici incalcolabili a livello psico-fisico, c’è chi fa meditazione,
chi yoga e allora perché non ascoltare un brano musicale? Anche la
musica può agire come un potente tonico mentale.
Il
libro vuole anche sfatare la falsa credenza che la musica classica sia
musica di nicchia, snob, per pochi eletti; la musica di qualunque genere è
di per sé universale e non può quindi, né deve, essere
ingabbiata da definizioni ed etichette. La musica trasmette emozioni e non conosce
frontiere, supera ogni barriera e non richiede alcuna traduzione, è un
bene di tutti ed ognuno ne può liberamente fruire.
L’autrice
ci tiene a puntualizzare che non esiste un momento giusto per
ascoltarla, ogni momento è propizio, la si può ascoltare mentre si studia
per concentrarsi meglio, mentre si svolgono le faccende di casa, in palestra,
passeggiando o comodamente sprofondati in poltrona.
Un anno con Mozart non è guida musicologica, non
ci sono spiegazioni tecniche né partiture da leggere e studiare.
Ad
ogni brano è dedicata una pagina nella quale vengono indicate alcune curiosità
sull’autore, sul tipo di strumento per cui il pezzo era stato scritto, aneddoti
relativi alla prima esecuzione del brano e così via.
Tantissimi brani magari li abbiamo già ascoltati in
trasmissioni televisive, film o pubblicità senza conoscerne l’autore, di altri
brani forse crediamo erroneamente di sapere già tutto, magari li abbiamo
ascoltati suonati da diversi strumenti, ma ignoriamo ancora per quale specifico
strumento quella musica sia stata scritta in origine.
Personalmente
amo la musica classica e la ascolto da sempre, però non sono assolutamente
un’esperta e soprattutto non conosco nulla degli autori più moderni, ragion per
cui questo percorso mi incuriosisce e mi intriga moltissimo.
Non
vedo l’ora quindi di iniziare questo splendido viaggio musicale che si
preannuncia davvero coinvolgente e appassionante.
Le playlist del libro possono essere ascoltate e condivise su
Spotify, ma sono comunque tutte facilmente reperibili online anche su
YouTube. La tecnologia ha reso ogni cosa disponibile per tutti, ora non ci sono
più scuse.
E
voi siete pronti a viaggiare nei secoli attraverso le note di Bach, Gershwin,
Puccini, Albinoni, Lully e tanti altri?
Vi
aspetto il primo gennaio con la Messa in si minore di Johann Sebastian Bach, un
brano liturgico, lo so, ma il 2 gennaio ci aspetta Fryderyk Chopin e…
Flavio Tondi è un virtuoso del violino, un uomo
preciso e metodico, unica sua debolezza il gentil sesso. La sua vita è segnata
da donne fatali e tra queste una su tutte, l’unica vera donna della sua vita, Samuela Bravermann, con la quale si è
sposato due volte e dalla quale altrettante volte ha poi divorziato.
Il maestro Tondi
incontra Samuela nuovamente a Parigi e tutto lascia presagire che, con ogni
probabilità, i due torneranno insieme nonostante lui al momento sia
sposato con un’altra donna.
Durante un concerto lo Stradivari, l’inseparabile compagno del violinista, resta
intrappolato nelle ante scorrevoli della porta a vetri del corridoio dei
camerini e va in frantumi.
Lo Stradivari però
racchiude un segreto di incalcolabile valore, un segreto che è stato nascosto all’interno dello strumento centinaia di anni
prima.
La storia inizia
infatti nell’anno 1706 in un antico monastero nei pressi di Dresda dove, per
bocca di una giovane fanciulla, viene rivelata una oscura profezia che mette in guardia i potenti della terra dal Puledro
dorato che presto galopperà nel mondo e che, dopo avergli fatto provare l’angoscia del soldato che affronta la guerra, reciderà loro le corone dal capo .
Partendo proprio da
questa profezia si dipana una storia
fantastica i cui protagonisti sono in parte reali e in parte di pura
invenzione.
I personaggi sono
numerosissimi: conti, marchesi, cantori evirati, musicisti, angeli, sovrani e
gran dame di corte, tutti schierati chi da una parte chi dall’altra nel sanguinoso conflitto in corso tra Lucifero e Mammona.
Un thriller storico
che conduce il lettore pagina dopo pagina ad indagare su un mistero che si dipana dal Settecento ai giorni nostri e i cui
principali protagonisti altri non sono che il genio di Mozart e la sua
straordinaria musica.
Il romanzo nasce
dalla collaborazione tra Davide
Livermore, regista d’opera tra i più importanti della scena internazionale,
e Rosa Mogliasso, laureata in Storia
e critica del cinema e autrice già di numerosi romanzi, un connubio molto ben
riuscito in grado di far rivivere il teatro e la musica classica attraverso le
pagine di un libro.
Da non dimenticare
inoltre le bellissime illustrazioni ad opera di Francesco Calcagnini, scenografo e regista, che fanno da cornice e impreziosiscono
il volume; da sottolineare in modo particolare l’affascinante illustrazione della
copertina che sorprende il lettore sotto la sovraccoperta del volume.
“1791 Mozart e il
violino di Lucifero” è un thriller appassionante e coinvolgente anche se
talvolta forse un po’ ostico e di ardua interpretazione per chi completamente
digiuno di conoscenze musicali.
Come tipologia il
romanzo potrebbe essere accostato a “Il codice Da Vinci”, come nel racconto di
Dan Brown infatti il lettore viene accompagnato
a far luce su eventi che hanno radice nel passato ma che, essendo ormai giunti alla resa dei conti finale, hanno pesanti ripercussione sul presente.
I personaggi del romanzo sono tutti molto convincenti tanto che il lettore stenta tantissimo a districarsi tra ciò che è reale e ciò
che invece è solo frutto della fervida fantasia degli autori; le note che si trovano in fondo al volume sono
quindi un elemento davvero prezioso per fare chiarezza una volta terminata la
lettura.
Ogni protagonista è
affascinante a modo suo, ma fra tutti il personaggio di Venanzio Rauzzini, musico soprano allievo del Porpora e la cui voce
di castrato fu l’unica amata da Mozart, è quello che forse più di tutti intriga
e attrae il lettore.
Venanzio è una figura che appassiona fin dalla sua
apparizione quando bambino viene venduto al principe di San Severo e inizia
così la sua carriera artistica, una carriera che se da un lato gli porterà via tanto dall'altro gli saprà donare anche molto.
Il Venanzio
Rauzzini del romanzo è un personaggio dotato di grande capacità di adattamento e in grado di saper reagire ai colpi bassi della sorte.
Venanzio non si abbatte facilmente e se accade è
solo per la frazione di un attimo perché lui è uno spirito libero, un combattente che ama la vita, un
uomo guidato dalla passione; egli non dimentica mai nulla né il bene che
gli è stato fatto né i torti che è stato costretto a subire, ma più di ogni altra cosa Venanzio non dimentica gli amici tanto che per tutta la vita resterà legato al ricordo
del suo amato amico d’infanzia, Ferruccino suo.
“1791 Mozart e il
violino di Lucifero” è un libro diverso, un
romanzo di indagine coinvolgente e carico di suspense, ma che sa anche regalare al tempo
stesso struggenti pagine di intensa emozione come nella migliore
tradizione operistica.
Niccolò (o Nicolò) Paganini nacque a
Genova nel 1782. Violinista, compositore, chitarrista, Paganini fu un
personaggio decisamente originale e fuori dagli schemi.
Che tipo fosse lo si percepisce già analizzando le problematiche legate alla
sua data di nascita che spesso viene erroneamente indicata come il 18 febbraio
1784. Il motivo? Paganini avrebbe voluto ringiovanirsi a scopi matrimoniali
come si evince da una lettera che egli stesso scrisse all’amico Luigi Germi,
suo consigliere e confidente.
Niccolò Paganini aveva un carattere
particolare, eccentrico e stravagante, tendeva ad assumere un atteggiamento
cauto e diffidente persino nei rapporti con i famigliari.
Era un uomo particolare, spesso tacciato
di tirchieria, ma capace allo stesso tempo di stupire tutti con grandi slanci
di generosità accettando spesso di suonare per beneficenza.
Questo suo apparire come un tipo inquietante e misterioso insieme alle sue indiscusse
e straordinarie capacità esecutive, di cui molti erano invidiosi, furono le
ragioni principali per le quali, nel corso della sua esistenza, si diffusero
sul suo conto infinite dicerie su un qualche patto da lui stretto con il diavolo in persona.
Qualche anno fa è uscito nelle sale cinematografiche un film intitolato “Il violinista del diavolo” (Germania 2013)
dove Niccolò Paganini veniva interpretato dal violinista David Garrett.
Il film racconta del periodo in cui Niccolò Paganini era all’apice della
carriera, impegnato in una lunga serie di concerti in tutta Europa che lo
portarono fino a Londra.
Il film a livello biografico non è proprio riuscitissimo, ma riesce a
rendere perfettamente l’idea di cosa rappresentasse Niccolò Pagani per i suoi
contemporanei.
Egli può essere davvero definito la
prima rock star della storia in senso moderno.
Niccolò Paganini arrivò a tenere oltre 150 concerti in un solo anno in località
diverse, viaggiando in carrozza e con difficoltà che al giorno d’oggi non
possiamo neppure immaginare.
Poteva permettersi di raddoppiare i prezzi dei biglietti dei suoi concerti,
tanto la folla vi sarebbe accorsa sempre e comunque.
Ovunque egli suonasse il pubblico era
in delirio e per dare meglio l’idea vi riporto quanto scritto su
“Allegemeine Theaterzeitung” del 5 aprile 1828:
(…) nelle sue mani il suo violino
suona più efficace della voce umana. La sua anima ardente penetra ogni cuore, e
ogni cantante potrebbe imparare moltissimo da lui. Ma queste affermazioni sono
del tutto insufficienti ad esprimere l’impressione che si prova quando egli
suona. Bisogna ascoltarlo ripetutamente per credere.
Leggendo la critica così entusiasta a noi oggi resta il rammarico che non
esistano registrazioni dell’epoca; cosa non si darebbe per poter assistere ad
un concerto di Paganini o almeno potere ascoltare la sua musica!
A Vienna il pubblico fu talmente
colpito dalla figura di Paganini che persino la moda venne influenzata dal suo
personaggio: furono lanciati sul mercato scialli, fazzoletti, cappelli e
scarpe “alla Paganini” e non solo, ma addirittura bistecche e frittate! La
moneta austriaca di maggior valore fu addirittura chiamata “Paganinerl”
(Paganinetto), con chiara allusione ai prezzi non proprio economici dei
biglietti per poter assistere alle sue accademie.
Pagani terminò la sua vita terrena senza neppure immaginare quali traversie
avrebbe dovuto subire prima di riuscire a trovare un meritato e definitivo
riposo nel cimitero della Villetta di Parma.
Paganini infatti non ebbe né funerali
né sepoltura in terra consacrata. Subito dopo il decesso il suo corpo fu
imbalsamato e restò quasi due mesi nella cantina della casa in cui morì fino a
quando le autorità sanitarie non diedero in nullaosta per il trasferimento del
corpo a Genova, dove fu sepolto nella proprietà di famiglia in Val Polcevera.
Solo nel 1876, 36 anni dopo la sua morte, fu finalmente annullato il decreto
di empietà emesso dal Vescovo di Nizza e la salma di Paganini poté finalmente
essere sepolta in terra consacrata nel cimitero di Gaione prima ed in seguito nel
cimitero della Villetta.
Un ultimo accenno deve essere fatto al famoso violino di Paganini, costruito
da Giuseppe Guarnieri del Gesù e datato 1743, detto “Il Cannone”.
Niccolò Paganini fu cittadino del mondo, ma rimase sempre molto legato alla
sua Genova. Per questo decise di lasciare in eredità il suo violino alla sua
città natale come si legge nel suo stesso testamento:
Lego il mio violino alla Città di
Genova onde sia perpetuamente conservato.
E proprio qui, a Genova, il Cannone è ancora oggi esposto nella cosiddetta
Sala Paganiniana di Palazzo Tursi (Musei di Strada Nuova), sede del Comune di
Genova, insieme alla sua copia appartenuta all’allievo Camillo Sivori da cui questo
secondo violino prende il nome e ad altri cimeli paganiniani.
Due sono infine i libri che vi voglio segnalare:
“Nicolò Paganini – il cavaliere
Filarmonico” di Edward Neill (De Ferrari Editore)
Il volume di Edward Neill è una
biografia che cerca di restare il più possibile attinente ai fatti legati alla
vita artistica di Paganini.
Spesso infatti la tendenza scrivendo di questo personaggio è di ricamare
sulla sua vita facendo congetture spesso fantasiose che tendono a trasformare
Niccolò Paganini in un protagonista da romanzo da appendice.
Edward Neill raccoglie informazioni attraverso le lettere stesse di
Paganini, ma soprattutto attraverso la critica contemporanea e le recensioni
dei concerti, cercando di portare alla luce l’opera dell’artista.
Neill cerca infatti di raccontare i concerti oltre alle emozioni suscitate dalla musica di Paganini nel
pubblico e negli addetti ai lavori; il suo intento è proprio quello di renderci
partecipi della musica eseguita da Paganini nelle accademie da lui tenute.
Il volume è molto esaustivo, ma risulta spesso di non facile interpretazione
per chi non è esperto conoscitore di musica.
“Niccolò Paganini – Espitolario
(Volume I, 1810 – 1831)” a cura di Roberto Griesley (SKIRA)
Il piano editoriale prevedeva un secondo volume di lettere, ma ad oggi non
ci sono notizie in merito ad un’uscita a breve dello stesso.
“L’epistolario” è un libro intrigante ed affascinante che ci aiuta a
conoscere meglio “l’uomo Paganini”.
Se per certi aspetti è uno degli epistolari meno interessanti che siano
stati scritti da un musicista, per altri aspetti infatti è un’opera
fondamentale per esempio perché al di là dei contenuti, costituisce una
preziosa testimonianza per la storia della lingua italiana parlata nei primi
dell’Ottocento oltre che per il dialetto genovese.
Le sue non sono lettere scritte per i postumi, ma sono conversazioni di vita
quotidiana.
La corrispondenza di Paganini comprende lettere ai famigliari, lettere
d’affari, lettere ai giornali ecc.
Attraverso l’epistolario riusciamo a conoscere i tratti più salienti del
carattere di Niccolò Paganini, veniamo a conoscenza delle sue idee sulla
musica, delle sue storie sentimentali, del rapporto con la madre, dei viaggi da
lui compiuti...
Due volumi molto diversi tra loro, ma complementari, entrambi utilissimi per
riuscire a farsi un’idea a 360° di questo genio del violino in grado di
affascinare ancora il pubblico oggi come ieri.
Ma Paganini è un’altra cosa, è
l’incarnazione del desiderio, dello sdegno, della pazzia e del dolore. Il
violino è semplicemente lo strumento attraverso il quale egli esprime se
stesso.
Nato
a Busto Arsizio il 21 gennaio del 1944, primo di quattro figli, fiero delle origini istrianedella sua famiglia, gente tenace
dignitosa, abituata alla vita dura, Uto Ughi è uno dei maggiori violinisti
al mondo.
Il
padre, di professione avvocato, era un umanista molto sensibile, quasi un
filosofo e proprio nella casa paterna
Si creò un buon giro di amici,
strumentisti dilettanti che erano soliti riunirsi con il maestro Coggi (…) per
fare musica insieme.
All’epoca Uto Ughi aveva appena tre anni, ma era già
evidente la sua smisurata passione per la musica quando si infilava sotto il
pianoforte e, affascinato dalle note, rimaneva
lì ad ascoltare.
Il
maestro Coggi gli regalò allora un piccolo violino che dovette legargli con una
cordicella al collo per evitare che lo strumento gli cadesse.
Coggi fu il primo insegnate al quale ne fecero seguito altri; all’età di nove
anni Uto Ughi divenne l’allievo di George
Enesco, per seguire le lezioni del quale era costretto a trasferirsi
periodicamente a Parigi dove il maestro viveva. Dopo la morte di questi, le
lezioni proseguirono con la sua assistente Yvonne
Astruc.
A Siena frequentò per una decina d’anni, ogni estate,
le lezioni all’Accademia Chigiana,
prestigiosa scuola di alta formazione musicale che annoverava all’epoca allievi
famosi quali Zubin Metha e Daniel Barenboim.
Un giorno Uto Ughi stesso verrà chiamato a svolgere funzione di docente all’Accademia
Chigiana, mettendo a disposizione dei suoi allievi, non solo la sua virtuosa
capacità di violista, ma anche quelle due doti
che il Maestro ritiene ancor oggi indispensabili per essere un buon insegnante ovvero la
pazienza e la perseveranza.
E' fondamentale inoltre che il docente non
si imponga mai sull’allievo, ma cerchi piuttosto di convincerlo rispettando sempre
la sua personalità.
Il libro è suddiviso in quattro parti.
Nella prima parte, intitolata “La vita e la musica”, Uto Ughi ci racconta della famiglia, dei
primi approcci con le note, dei suoi docenti, del suo modo di intendere la
musica, dei propri gusti musicali, dei primi concerti e della sua produzione
discografica.
Nella seconda parte “La galleria dei ritratti” ci vengono presentate invece le figure
dei musicisti che il violinista ha incontrato nella sua carriera e che lo hanno
in qualche modo influenzato o con i quali ha condiviso parte della sua vita.
Con “I viaggi”
Uto Ughi ripercorre le sue tournée in giro per il mondo: Giappone, Birmania,
Messico, India, Israele, Africa per citarne alcuni fino alla sua amata Isola
del Giglio ed alla Val di Fiemme, là dove Antonio Stradivari sceglieva gli
abeti rossi adatti alla costruzione dei suoi violini.
In questa parte comprendiamo come il violista,
lontano dai riflettori, sia in realtà un uomo che ama profondamente i viaggi,
la natura, il silenzio, la riflessione e la letteratura.
Proprio a “Riflessioni
e letture” è dedicata la quarta parte del volume. Dedicare quotidianamente
una parte della giornata alla lettura è basilare per l’artista che ritiene che:
un giorno
trascorso senza leggere è un giorno perduto
Uto Ughi in quest’ultima parte riflette su svariati argomenti come politica,
cultura, il tema della morte nella musica, le competizioni musicali, la
funzione sociale della musica e ovviamente la letteratura parlando di autori a
lui cari tra cui Jorge Luis Borges e Pablo Neruda, Dino Buzzati e Giovanni
Papini.
Chiude il volume un bellissimo dialogo.
E’ una vita ricca
di passioni quella che viene descritta in questo breve volume di appena
poco più di 180 pagine. Poche pagine è
vero, ma di un’intensità tale che se si volesse sottolineare i concetti importanti
si finirebbe per sottolineare ogni singola riga.
Proprio per questo motivo è anche difficile riuscire a
tirare le somme di questa interessante autobiografia dove ognuno troverà senza
dubbio spunti di riflessione personali e
al contempo potrà formarsi una propria idea dell’uomo e dell’astista Uto
Ughi.
La mia impressione leggendo queste pagine è quella di un artista sempre attento ai dettagli, un
perfezionista sempre alla ricerca del piccolo particolare che possa fare la
differenza.
Un uomo di
una cultura vastissima, attratto dal paranormale, un uomo curioso, aperto al
mondo, ma allo stesso tempo molto concentrato su se stesso.
Ho apprezzato il modo in cui parla dei grandi artisti
del passato, mi sarebbe piaciuto però leggere qualcosa anche sui giovani
artisti. Leggendo queste pagine infatti ho avuto l’impressione che l’autore abbia
scelto volutamente di non esprimere opinioni sui contemporanei, quasi pensasse
che nessuno di questi possa essere citato in quanto non all’altezza dei suoi
predecessori e comunque dei violinisti appartenenti alla sua generazione.
Appassionante è l’amore con cui Ughi parla dei violini, strumenti dotati di un’anima.
Ogni grande
artista ha un rapporto unico con il suo strumento e gli strumenti antichi hanno
tutti una storia da raccontare.
E’ emozionante leggere di quanto a dieci anni il Maestro
fece per la prima volta conoscenza con il suo Stradivari Kreutzer (famoso violinista al quale era appartenuto e dal
quale prese poi il nome) costruito nel 1701 da Antonio Stradivari, strumento
che incrociò nuovamente il suo cammino quando aveva sedici anni e che divenne da
quel momento suo compagno di viaggio
Il violino ha
un’anima parlava al mio cuore con una qualità di voce meravigliosa,
comunicandomi la sua storia
Anni dopo un altro violino entrò a far parte della
vita di Uto Ughi, uno dei più bei Guarnieri
del Gesù “Rose”, costruito nel 1744, di cui l’ultimo proprietario fu il
celebre violinista Arthur Grumiaux.
Lo Stradivari
è perfetto, come un dipinto di Raffaello o di Tiziano: perfetto nel disegno,
nel colore, nell’armonia delle forme. Il suo suono luminoso è congeniale per
determinati autori, ma meno per altri.
(…) i
Guarnieri. I loro violini hanno un suono dal timbro scuro, drammatico,
struggente, che ricorda i colori caravaggeschi o i dipinti di Rembrandt.
Ascoltai Uto Ughi in concerto la prima volta quando
avevo 11 anni, fu la mia prima volta ad un concerto sinfonico e grazie a lui mi
innamorai immediatamente del suono del violino.
Questo è stato il motivo principale per cui ho deciso
di dedicarmi alla lettura del libro e ancora una volta non sono stata delusa.
“Quel diavolo di un trillo” è consigliato non solo a
coloro che amano il suono di questo magico strumento, ma anche a tutti coloro
che come il Maestro pensano che
La musica è
una via di amore, di libertà, di umanità. La musica va al di là della parola,
delle barriere ideologiche che limitano la comprensione fra gli esseri umani:
spalanca le finestre dell’anima lasciando intravedere una realtà più grande.