La
narrazione prende avvio dall’epilogo: un
finale che anticipa il cuore della vicenda. Filippo Lippi si reca da Cosimo de’ Medici, ormai prossimo alla
fine, per mantenere una promessa fatta anni prima al suo mecenate e confidente:
mostrargli per primo quel dipinto che racchiude il senso profondo della sua
vita e della sua arte. Non si tratta di un’opera qualunque, ma del capolavoro
che lo consacrerà come uno dei grandi artisti del suo secolo e di quelli futuri.
Su quella tela, Filippo Lippi ha riversato tutto se stesso.
La narrazione si
sviluppa su due piani intrecciati. Da una parte, la vita dell’artista, frate e
pittore, figura complessa e contraddittoria, divisa tra la vocazione religiosa e
il desiderio mondano, che si muove tra botteghe, conventi, simposi umanistici nella
Firenze quattrocentesca. Dall’altra, la
voce di Spinetta Buti, che racconta con dolore quello che ha vissuto come un
tradimento da parte di Lucrezia, la sorella da lei tanto amata. Quando le
vite di Filippo e Lucrezia si incontrano, le due prospettive si fondono, per
poi separarsi nuovamente quando è Lucrezia, attraverso alcune lettere
indirizzate a Spinetta, ad offrire il suo punto di vista, intimo e personale, su
quanto da lei vissuto.
La Firenze del
Quattrocento emerge come una protagonista silenziosa ma pulsante. Le descrizioni dei
luoghi sono così vivide che sembra di camminare tra le strade lastricate, di
ascoltare il vociare dei mercanti, di respirare l’aria intrisa di arte e
fermento culturale. L’uso del vernacolo
fiorentino per i personaggi del popolo dona autenticità e colore, rendendo il
racconto ancora più immersivo e realistico.
Si
potrebbe quasi dire che Filippo Lippi visse
d’arte e visse d’amore, come canta Tosca nell’opera di Puccini. Nella vita di Filippo è l’arte a prendere
il sopravvento diventando per lui rifugio, ossessione e redenzione. Dopo
una giovinezza sregolata, segnata dall’inseguimento delle grazie femminili, egli
riversò tutta la sua passione in un ritratto ideale ispirato a Lucrezia. La
descrizione che Carla Maria Russo fa del dipinto e della passione, o forse
sarebbe più corretto dire dell’ossessione, che travolse Filippo ricorda il sentimento
che si racconta avesse colto Leonardo da Vinci nei confronti della sua
Gioconda, il dipinto che lo accompagnò fino alla fine dei suoi giorni.
Il
romanzo, pur nella sua leggerezza, è ben documentato e sorprendentemente
attuale. Fa sorridere e riflettere come
certi meccanismi sociali e urbani di Firenze conservino una modernità
disarmante: come lo spostamento delle botteghe verso il Mercato Nuovo, per
chi poteva permetterselo, dopo che Orsanmichele era tornato ad essere
esclusivamente una chiesa. I ricchi e i politici ignoravano le
difficoltà della povera gente e le esigenze dei lavoratori. Chi conosce un po’ la
realtà fiorentina non potrà fare a meno di cogliere analogie sorprendenti con
ciò che sta accadendo oggi.
La
lettura scorre piacevolmente, con un ritmo fluido e coinvolgente. È una storia che parla di arte e di amore, ma
anche di libertà, vocazione e scelte coraggiose. Un affresco potente e
delicato, capace di restituire con grazia e precisione il battito profondo di
un’epoca irripetibile.