Aprile 1836, una
carrozza si ferma davanti a villa Ferrigni.
La villa, posta su una
collinetta a metà strada tra Torre del Greco e Torre Annunziata, è una
costruzione seicentesca ad un solo piano, in stile pompeiano.
Ad accogliere i
visitatori sul portico ci sono il fattore Giuseppe e la moglie Angiola Rosa. Ma
chi sono gli occupanti della carrozza
che sono giunti alle pendici del Vesuvio
per beneficiare del suo salubre clima?
Si tratta del cognato
del proprietario, il signor cognato,
la sorella di questi, la cognata più giovane, ossia la signorina Paolina e infine lui, l’ospite di riguardo.
L’ospite appare immediatamente
come una persona malata che ha bisogno di aiuto anche per scendere dalla
carrozza, aiuto che l’amico, il signor cognato, si appresta a fornirgli
premurosamente.
Fin da subito si
intuisce che l’ospite è una persona
gentile e schiva, attenta a non dare fastidio al prossimo così come a
riceverne a sua volta il meno possibile.
Pagina dopo pagina si conoscerà
sempre meglio la personalità di quest’uomo dall’ingegno
straordinario condannato a vivere in un corpo malato e deforme, quasi che
la potenza della sua mente avesse assorbito come
un vampiro famelico tutto il resto delle sue energie vitali.
L’ospite di riguardo non è una
persona priva di difetti, goloso di dolci, a volte capriccioso e indubbiamente eccentrico, sa però come farsi amare per la sua dolcezza e per la sua grande capacità di
ascoltare.
Le persone più umili restano affascinate dai suoi modi gentili e ne sono conquistate perché lui non è un “signore” come tutti gli altri; lui, al contrario degli
altri, ama ascoltare le loro storie semplici e i loro racconti di vita
contadina.
Il fattore Giuseppe e il figlio maggiore di questi, Cosimo, trascorrono molto
tempo in compagnia dell’ospite tanto da provocare quasi la gelosia del signor
cognato nel vedere l’amico così coinvolto nelle conversazioni con qualcun altro
che non sia lui e per giunta di così bassa estrazione sociale.
Come avrete già capito l’ospite
di riguardo, benché nel libro non venga mai fatto il suo nome, altri non è che il
poeta Giacomo Leopardi e il cognato del padrone della villa è il suo amico Antonio Ranieri.
Il romanzo racconta di
quei giorni che, dall’aprile al luglio del 1836, Giacomo Leopardi trascorse a
villa Ferrigni in compagnia dell’amico fraterno.
Ne “Il viaggio dolce” Marina Plasmati cerca di immaginare come il
poeta avesse passato quelle sue giornate vesuviane.
Ci racconta di un
Leopardi che trascorreva ore dalla finestra della sua camera ad osservare la
vita degli altri scorrere là fuori, come era solito fare dalla finestra della
biblioteca della casa paterna a Recanati, a visitare gli scavi di Pompei e, quando
la salute malferma glielo permetteva, anche a fare escursioni a dorso di mulo lungo
le pendici del vulcano.
Traendo ispirazione da uno dei Canti che il poeta scrisse
proprio in quei giorni, “La ginestra o il fiore del deserto”, il romanzo Marina
Plasmati narra una storia forse non completamente reale, ma senza dubbio alquanto verosimile.
I dialoghi stessi che
si svolgono tra Giuseppe, Cosimo e l’ospite
di riguardo prendono spunto proprio dal Canto leopardiano; ne sono un
esempio Giuseppe che parla al poeta del pozzo dove il ribollire dell’acqua è
segnale dell’avvicinarsi della lava, Cosimo che gli racconta dei fiori della
ginestra durante la loro prima escursione e la stessa descrizione degli scavi
di Pompei.
Marina Plasmati resta sempre
fedele nel suo racconto al pensiero
leopardiano, non tradisce mai la sua poetica; quello che incontriamo nelle
pagine del romanzo è proprio il Giacomo Leopardi degli ultimi anni, il poeta
polemico nei confronti della poesia idealistica romantica, l’uomo che ormai non teme più la morte e che sa di non avere più dalla
sua parte l’entusiasmo, l’ardore e la forza che contraddistinguono invece la gioventù.
Nonostante la
disillusione però Leopardi crede ancora nel valore della poesia che, tenace come la ginestra che resiste nel deserto, è un miracolo in mezzo allo squallore
dell’esistenza umana; la poesia incarna per lui quel desiderio di vita che,
seppur destinato a rimanere inappagato, resiste perché inestirpabile.
“Il viaggio dolce” è un
racconto che sa toccare il cuore del lettore, un racconto commovente e profondo le cui pagine spesso sono vera poesia
in prosa.
Delicato e intenso, il
libro di Marina Plasmati è un romanzo in
grado di emozionare tutti, non solo gli
appassionati della poesia leopardiana, talmente coinvolgente da provare
spesso lo strano desiderio di leggerlo ad alta voce.
“Il viaggio dolce” è uno di quei libri che
se siete soliti sottolineare i passi più significati o che più vi
commuovono, vi ritroverete presto con pochissime righe intonse.
Nel consigliarvene
quindi la lettura, vi saluto con le bellissime parole con le quali Cosimo, il
figlio del fattore, descrive uno dei poeti da me più amati:
Non lo capiva, era vero, ma lo sentiva, però, che quel signore non era un signore come gli altri, un padrone come gli altri: e non solo perché era tanto gentile, come diceva suo padre, o tanto malato. Il suo sguardo, per esempio, non era uno sguardo qualunque, era come se avesse il mondo dentro il cuore, non davanti agli occhi, come se le cose, anche le più piccole, le più insignificanti, prendessero posto dentro di lui e ci rimanessero.