venerdì 26 luglio 2024

“Amare note” di Matteo Della Rovere

La morte di Mozart resta ancora tutt’oggi un mistero, per anni si è addirittura pensato che fosse stato sepolto in una tomba comune. Gioacchino Rossini scrisse numerose opere, grandi successi, ma poi all’improvviso la sua vena artistica si esaurì, si dice a causa di una forte depressione.

Matteo Della Rovere con il suo romanzo “Amare note” regala al lettore uno scherzo, come recita lo stesso sottotitolo del libro: “Uno scherzo su Mozart e Rossini”. 

Una storia affascinante in cui l’autore fantastica su un improbabile, seppur seducente, legame tra i due artisti; un filo narrativo che ha dello straordinario e che si presterebbe benissimo come trama per il libretto di un melodramma.

Siamo nella Bassa Romagna, corre l’anno 1798,  quando una giovanissima Marietta prende servizio presso il maestro Amedeo Gasperini. Nonostante gli iniziali e legittimi dubbi nel dover vivere da sola con un uomo maturo in un isolato casale, Marietta si rende conto molto presto che il maestro Gasperini è davvero l’uomo dabbene che le avevano descritto. Questi, da parte sua, avendo preso fin da subito in simpatia la giovane, si adopera per darle un’istruzione e, nonostante l’iniziale scetticismo di lei che definisce l’idea una stramberia, le insegna a leggere e scrivere.

Il maestro, valente musicista, si guadagna da vivere dando lezioni di musica. Un giorno tra i suoi allievi arriva un bambino di dieci anni, il suo nome è Gioacchino Rossini. Il nuovo arrivato si rivelerà, sebbene molto dotato musicalmente, anche una vera spina nel fianco e metterà a dura prova l’equilibrio perfetto creatosi tra Amedeo e Marietta.

Non si può anticipare molto di più della trama per non rovinare al lettore il piacere di scoprire da sé i tanti intrighi, i molti colpi di scena e i numerosi sotterfugi che si susseguono incessantemente pagina dopo pagina rendendo la narrazione vivace e scorrevole.

Bellissimo il personaggio del maestro Gasperini: un uomo gentile, premuroso ma anche tremendamente tormentato. Amedeo ama Marietta per la sua vitalità, ma mai si sognerebbe di imporle i suoi sentimenti sapendoli non ricambiati. La sua è una figura malinconica e sin dall’inizio il lettore si interroga su quale sia il dolore che si cela dietro la sua pacatezza, quel dolore che il maestro cerca di annegare costantemente nel vino.

Marietta è un personaggio che cresce nel corso della storia non solo anagraficamente. Sin da ragazzina si comprende che ha un carattere forte e deciso. Una figura estremamente moderna nel rivendicare le proprie scelte di donna anche quelle che la conducono a commettere errori pesanti dei quali, però, è sempre pronta ad assumersi le proprie responsabilità. Quello di Marietta non è un personaggio che ispiri immediata simpatia nel lettore, però, grazie ad una sensibilità e ad una generosità inaspettate, riesce a conquistarne, nel corso del racconto, completamente l’anima regalandogli anche qualche interessante sorpresa.

Infine, troviamo “il cattivo” della storia: Gioacchino Rossini. Un personaggio riprovevole che racchiude in sé tutte le caratteristiche più negative: egoista e arrogante; fin da bambino risulta un elemento antipatico, viziato e prepotente.

“Amare note” è un romanzo breve, piacevole e denso di significati. Un plauso al suo autore per aver saputo creare una storia tanto accattivante e originale al tempo stesso.

 


domenica 7 luglio 2024

“È colpa nostra” di Mercedes Ron

Lo so, ero stata spietata nel mio giudizio sul secondo libro della trilogia, ma avevo promesso che avrei comunque letto il volume conclusivo non appena fosse uscito. Promessa mantenuta.

La storia d’amore tra Nick e Noah sembra arrivata al capolinea. Delusione, rimpianto, disperazione, desiderio di rivalsa, odio sembrano ormai da più di un anno gli unici sentimenti che riescono ad avere la meglio nel loro rapporto. Quando la speranza sembra ormai ridotta al lumicino, accade qualcosa, un evento inaspettato, che potrebbe nuovamente rimettere tutto in discussione. Quando si ferisce la persona amata tanto dolorosamente, il perdono non è mai scontato, ma è anche vero che quando conosci la persona con cui vuoi passare il resto della tua vita, non c’è più marcia indietro”.

La trama è piuttosto banale; c’è un particolare, poi, che non può sfuggire ad un lettore attento e che preannuncia quale possa essere l’imprevisto che potrebbe fare riavvicinare Nick e Noah.

D’altra parte devo riconoscere che ci sono anche alcuni colpi di scena non scontati e soprattutto che la narrazione è molto scorrevole fin dalle prime pagine. A differenza dei primi libri, infatti, il ritmo della narrazione di questo terzo romanzo mantiene un ritmo costante e coinvolgente.

La trama è ben costruita e i personaggi sono ben caratterizzati come lo erano quelli del primo volume.

Mercedes Ron riesce a mantenere alta l’attenzione del lettore per l’intero racconto che non è neppure brevissimo dal momento che sono più di cinquecento pagine.

Dopo la mia sofferta lettura di “E’ colpa tua?” direi che Mercedes Ron con il capitolo conclusivo della saga si è riscattata. 

Romanzo young adult dalla trama apprezzabile e dall’ottima impostazione.

Credo che valga la pena superare la lettura della prima parte del secondo volume, per approdare alla lettura di “E’ colpa nostra”.




venerdì 5 luglio 2024

“I superbi. Una donna tra amori e vendette” di Corrado Occhipinti Confalonieri

Papa Paolo III, al secolo Alessandro Farnese, non è mai riuscito a negare nulla al figlio prediletto nonostante questi abbia dimostrato in più d’una occasione di essere un’anima nera.

Nel 1545 Pier Luigi Farnese ottiene dal padre il ducato di Parma e Piacenza sebbene molti, tra cui anche l’imperatore, avrebbero preferito che il titolo ducale fosse stato assegnato al figlio del Farnese, Ottavio, marito di Margherita d’Austria e figlia naturale di Carlo V.

Animato dalla più una sfrenata ambizione e dalla smania di dimostrare le proprie doti di abile principe, Pier Luigi Farnese, appena stabilitosi a Piacenza, suscita fin da subito con il suo arrogante comportamento l’ostilità della nobiltà locale la quale, a sua volta, non perde tempo ad organizzarsi per liberasi di lui con la forza.

Tra i nobili chiamati a partecipare alla congiura c’è Gianluigi Confalonieri, un uomo giusto e leale, la cui fermezza però, dinnanzi ai soprusi perpetrati dal Farnese, inizierà a vacillare. La moglie, la bellissima e irreprensibile Elisabetta, dovrà impegnarsi non poco per fare desistere il marito dal tradire i suoi saldi principi.

Il libro di Corrado Occhipinti Confalonieri porta sulla scena personaggi realmente esistiti e tesse, restando quanto più possibile fedele alla veridicità storica, una coinvolgente trama in cui le vicende dei protagonisti danno vita ad un susseguirsi di colpi di scena.

Amori, tradimenti, alleanze, vendette, inganni, speranze e sogni infranti si alternano pagina dopo pagina. Ogni dettaglio, anche il più piccolo, apporta il proprio contributo nel ricreare l’affresco dell’epoca narrata: la descrizione di un abito, la ricetta di un dolce, la spiegazione di un’opera d’arte, l’illustrazione di una fortificazione.

Dopo una prima parte dedicata in maggiormente alla narrazione di fatti più strettamente storici, prende avvio la seconda parte del racconto dove a fare da padrone è l’amore.

Una storia  intensa e appassionata, che si rifà alla poesia epica-cavalleresca e riporta alla mente del lettore le vicende delle coppie di amanti più famose della letteratura quali Paolo e Francesca, Tristano e Isotta, Ginevra e Lancillotto.

Per dovere di cronaca devo sottolineare la presenza di un passaggio del libro che mi ha fatto un po’ sorridere poiché la scena in questione sembra ambientata più in un salotto di epoca Regency che in un palazzo rinascimentale; tutto è però concesso trattandosi di fatto di un romanzo e non di un saggio.

Ecco, quello che più ho apprezzato del libro di Corrado Occhipinti Confalonieri è proprio questa sua grande capacità di riuscire a far volare il lettore con la fantasia, trasportandolo in un altro tempo e in un altro mondo.

I romanzi storici sono difficili da affrontare perché è sempre molto complicato per l’autore riuscire a trovare la giusta combinazione tra verità storica e fantasia. 

“I superbi. Una donna tra amori e vendette” è un romanzo ben strutturato, un racconto di evasione che si basa su solide basi storiche senza che queste ne appesantiscano la trama e dove ampio spazio è concesso alla creatività e all’immaginazione.

Sempre difficile fare paragoni, ma se dovessi pensare ad un autore di romanzi storici che si possa avvicinare come stile a Corrado Occhipinti Confalonieri, ricorderei la penna di Marina Colacchi Simone, autrice di “Florentine. La pupilla del Magnifico” e di “Sacro Romano Impero. La Principessa di Charolles”.





giovedì 27 giugno 2024

“Amore e guerra nel tardo Rinascimento. Le lettere di Livia Vernazza e Don Giovanni de’ Medici” a cura di Brendan Dooley

Un tempo ci si scriveva lettere e cartoline. Tanta è la corrispondenza d’amore giunta sino a noi, alcune lettere furono scritte appositamente con intento letterario, altre invece esclusivamente come messaggi privati destinati ad essere letti solo dalla persona a cui erano indirizzati.

Grazie agli epistolari che sono arrivati nelle nostre mani abbiamo oggi la possibilità di curiosare nella vita di personaggi famosi, cogliere i loro pensieri e i loro sentimenti, nel momento in cui erano più vulnerabili perché convinti di non essere osservati. Quelle pagine ingiallite ci restituiscono la loro immagine di donne e uomini comuni, senza la maschera che erano soliti indossare in pubblico.

Viene da chiedersi cosa invece resterà di noi, donne e uomini del XXI secolo, quando i posteri vorranno approfondire la nostra vita. Il modo di comunicare ha subito una trasformazione epocale; le lettere sono state sostituite dalla messaggistica istantanea che non lascerà alcun segno a chi verrà dopo di noi.

Veniamo però, adesso, al nostro libro e alle lettere di Livia Vernazza e Don Giovanni de’ Medici.

Livia era figlia di un materassaio genovese andata in sposa poco più che tredicenne a Giovanni Battista Granara, anche lui materassaio come il padre e molto più anziano di lei. Dopo meno di due anni dalle nozze Livia fuggì a Firenze dove fece la serva o forse la prostituta. A diciotto anni conobbe il quarantunenne Giovanni; il loro fu amore a prima vista.

Sebbene illegittimo, Giovanni era pur sempre il figlio del granduca Cosimo I de’ Medici, fratello e zio di granduchi; la famiglia Medici non poteva assolutamente accettare una relazione con una donna di così bassa estrazione sociale. Eppure, sebbene fortemente avversata dalla famiglia a cui Giovanni era comunque molto legato, la loro storia durò ben 13 anni. La loro unione trovò il giusto coronamento a Venezia nel 1619 quando venne celebrato il loro matrimonio.

Alla morte di Don Giovanni la famiglia Medici, forte del proprio nome, fece imprigionare Livia che, in un secondo momento, fu trasferita e richiusa in convento. Il matrimonio fu fatto annullare e il figlio avuto da Don Giovanni dichiarato illegittimo. Solo molto tempo dopo fu permesso alla donna di risiedere nella casa di Montughi dove morì nel 1655.

Inutile dire che quanto tramandato sulla figura di Livia Vernazza è per la maggior parte un resoconto deformato da radicati pregiudizi e volutamente molti aspetti della vicenda furono passati sotto silenzio per volere della famiglia Medici e di coloro che erano al suo servizio.

La maggior parte della corrispondenza tra Livia e Don Giovanni a noi giunta risale al periodo in cui il Medici era impegnato nella campagna militare di Gradisca (detta anche guerra degli Uscocchi) al sevizio della Repubblica di Venezia.

Dalle lettere emergono un sentimento profondo e una passione ardente. Questa coppia, senza dubbio ai più sconosciuta, venne però immortalata anche da Gabriele D’Annunzio che, in “Il secondo amante di Lucrezia Buti”, la definì la bellissima genovese, la venturiera ligure ch’era riuscita a farsi sposare da Giovanni de’ Medici.

Nel carteggio a noi giunto (aprile 1614 - settembre 1619) vediamo la coppia affrontare i più disparati argomenti: dalla gestione della casa a quella delle proprietà finanche ai problemi militari e politici. Risulta evidente quanto fosse stretto il legame tra i due e quanto Don Giovanni de’ Medici si fidasse delle capacità e della perspicacia di Livia. Invero, entrambi si affidavano ai consigli l’uno dell’altro nelle più svariate occasioni.

Don Giovanni non si tratteneva dal raccontare cose che riguardavano la campagna militare che stava conducendo e quando lo faceva, non era di sicuro perché non si fidasse del giudizio di Livia, ma semplicemente perché le lettere potevano essere intercettate e di certe cose, ovviamente, era meglio parlare di persona.

Livia era libera di disporre dei mezzi economici di Don Giovanni; quando fu necessario il Medici non ci pensò due volte a rimettersi al suo discernimento e le firmò anche due pagherò in bianco così che lei potesse scrivere la cifra  necessaria alla transazione in corso.

Molte nel carteggio sono anche le lettere d’amore; Don Giovanni era solito rivolgersi a Livia come alla Signora mia unica et vera Padrona. Ad un certo punto, però, salta fuori che lui dovette farsi perdonare un tradimento. Don Giovanni impiegò fiumi di carta per ottenere la tanto sospirata assoluzione e la donna, oltremodo orgogliosa, seppe tenergli testa dimostrandosi molto risoluta nel volergliela fare pagare.

Il carteggio è anche una sorta di cronaca della vita dell’epoca; sono riportati, infatti, in maniera chiara e dettagliata nomi di luoghi, notizie di eventi, modi di dire spesso tutt’oggi ancora in uso oltre ad un preciso resoconto di fatti quotidiani e famigliari.

Molto interessante è anche il breve saggio introduttivo di Brendan Dooley curatore di questa edizione pubblicata da Edizioni Polistampa (2009).




giovedì 20 giugno 2024

“La signora delle Fiandre” di Giulia Alberico

Spesso ad un certo punto della vita si avverte l’esigenza di fare un bilancio della propria esistenza, andare indietro nel tempo, ripercorrere ciò che è stato e forse immaginare come sarebbero andate le cose se si fossero fatte scelte diverse.

Sul finire dell’anno 1585 Margherita d’Austria, ritiratasi ad Ortona a Mare, sente che la sua fine è vicina e si lascia andare ai ricordi. Ha vissuto a lungo, tanti viaggi e tante conoscenze costellano la sua esistenza, alcune persone sono solo ricordi sbiaditi, altre, nonostante non siano più da tanto tempo, sono ancora lì, presenze costanti nella sua mente e nel suo cuore.

Margherita d’Austria, figlia naturale dell’imperatore Carlo V, nacque e crebbe nelle Fiandre.  Fu affidata dal padre alle cure prima di Margherita di Savoia e poi di Margherita d’Ungheria. Per quanto Carlo V amasse la figlia, questo non gli impedì di seguire le consuetudini della politica matrimoniale del tempo.  Margherita venne concessa in sposa al duca Alessandro de’ Medici, per consolidare l’alleanza con Clemente VII dopo il terribile episodio del Sacco di Roma. Margherita conobbe così l’Italia, la corte di Napoli prima e di Firenze dopo. Il matrimonio durò solo pochi mesi poiché Alessandro venne assassinato per mano del cugino Lorenzino.

Vedova ad appena quindici anni, Margherita si ritrovò di nuovo ad essere una pedina sullo scacchiere politico. Carlo V decise di concedere la mano della figlia a Ottavio Farnese, legandosi così nuovamente alla famiglia di un papa, Paolo III.

Se il matrimonio con Alessandro era stato accettato da Margherita con ubbidienza, quello con Ottavio fu da lei contrastato profondamente. Gli sposi, però, dopo un inizio burrascoso, riuscirono col tempo a trovare un loro equilibrio di coppia fatto di stima e affetto reciproci.

Margherita per volontà del fratellastro Filippo II, succeduto al padre Carlo V, fu governatrice delle Fiandre dove trascorse parecchi anni, ma nessun luogo le fu mai caro quanto la terra d’Abruzzo. Non è quindi un caso che questa terra per cui Margherita si adoperò tanto per emanciparla a livello economico e amministrativo, proiettandola sul grande scenario politico nazionale ed europeo, non manchi mai di celebrarla e tenerne viva la memoria ancora oggi.

Inutile dire che mi sono avvicinata a questo personaggio perché legata alla famiglia Medici sebbene solo per un brevissimo periodo. Avrebbe forse potuto esserlo più a lungo se Carlo V avesse accettato di darla in sposa a Cosimo I de’ Medici, ma il destino volle che scegliesse diversamente e forse per Firenze e la Toscana fu meglio così perché altrimenti non avrebbe avuto una duchessa come Eleonora di Toledo al quale il granducato deve moltissimo.

Margherita d’Austria, duchessa di Parma e Piacenza, fu però anch’ella una figura di grande forza. Donna colta, intelligente, ostinata e intraprendente, in un mondo governato dagli uomini, percorse sempre, laddove le fu possibile, la via diplomatica della mediazione.

I fatti narrati nel romanzo di Giulia Alberico sono ovviamente liberamente reinterpretai dall’autrice, ma invogliano il lettore a cercare di saperne di più su questa protagonista la cui storia non è così conosciuta come quella di altre grandi figure femminili a lei contemporanea o di poco discoste nel tempo. 

Il racconto è scorrevole, le pagine scivolano via velate di malinconia: l’incalzare del tempo che volge al termine, i ricordi di una vita, un bilancio fatto di sogni infranti e desideri realizzati, di rimpianti per amori che avrebbero meritato una possibilità, di rimorsi per essere stata troppo egoista con chi avrebbe meritato più attenzioni, ma anche di coraggio e gratitudine, coraggio per essere riuscita ad affrontare prove difficili e gratitudine per coloro che le sono rimasti accanto senza chiederle mai nulla in cambio.

“La signora delle Fiandre” è un buon romanzo storico dove l’atmosfera e il modo di pensare dell’epoca sono resi in maniera minuziosa e dove i personaggi di pura invenzione si integrano perfettamente ai numerosi personaggi realmente esistiti. Pur trattandosi di un racconto liberante ispirato alla storia di Margherita d’Austria è evidente che l’autrice abbia effettuato una scrupolosa ricerca storica prima di accingersi alla stesura del romanzo.





sabato 8 giugno 2024

“Richelieu. La storia dell’uomo che cambiò la Francia” di Natascia Luchetti

Sono sempre stata affascinata dai personaggi più discussi e controversi della storia e forse, proprio per questo, sono stata attratta fin da subito da questo romanzo di Natascia Luchetti.

Armand-Jean, il quarto dei cinque figli del Grand Prévôt di Francia François du Plessis, signore di Richelieu, e di Susanne de La Porte, rimane orfano di padre all’età di appena cinque anni. 

Armand sembra condannato per la sua salute malferma a non sopravvivere all’infanzia. La madre del piccolo decide così di affidarlo alle cure di un medico donna, Eugénie de Clombert, con la speranza che la sua esperienza e le sue capacità riescano laddove tutti gli altri luminari hanno fallito. Eugénie porta con sé al castello di Chillou la figlia Ninon, sua promettente allieva. Al castello ritroverà anche Jonàs, il figlio minore, che già da qualche tempo presta servizio presso la residenza dei Richelieu.

Il compito di Ninon al castello sarà quello di occuparsi di Armand. Nonostante la diffidenza iniziale del piccolo paziente, presto tra i due si instaurerà un rapporto di amicizia e confidenza destinato a consolidarsi nel tempo.

Armand come terzogenito maschio è destinato ad una carriera militare, ma quando Alphonse, il secondogenito, non si dimostrerà all’altezza del compito, toccherà a lui abbracciare, nonostante la sua avversione per questa strada, la carriera ecclesiastica diventando vescovo di Luçon.

Risulta evidente che l’autrice abbia studiato a lungo la figura del cardinale Richelieu così come è certo che molti particolari, soprattutto legati ai luoghi menzionati e agli eventi occorsi, siano frutto di accurate ricerche e numerose letture da lei effettuate.

Il risultato è un romanzo storico di grande effetto, ricco di colpi di scena e personaggi davvero intriganti e affascinanti.

Armand è un uomo che ha dovuto combattere contro una malattia invalidante fin dalla nascita, ma la sua caparbietà e la sua tenacia, lo hanno portato a superare ogni tipo di ostacolo. Il giovane Richelieu è ostinato, intelligente, scaltro, determinato a non fermarsi di fronte a nulla e a nessuno pur di perseguire i propri scopi, ma è anche estremamente leale con chi ha condiviso la sua strada e gli è stato fedele.

Ninon è forte, coraggiosa e risoluta; un personaggio molto moderno. Nonostante la vita non le abbia fatto sconti, riesce sempre a rialzarsi senza perdere mai davvero la sua umanità. Come Armand è inflessibile con i nemici, ma sincera e devota nei confronti dei propri cari e degli amici sinceri.

Armand-Jean du Plessis de Richelieu ha un disegno politico ben preciso ed è determinato a realizzarlo sostenendo chiunque al momento gli sembri l’alleato più conveniente senza preoccuparsi di tradirlo qualora qualcun altro gli prospetti maggiori vantaggi per la sua causa.

Tra i tanti personaggi che si incontrano tra queste pagine troviamo il re di Francia Luigi XIII e Anna d’Austria, la regina madre e reggente Maria de’ Medici, il principe di Condè e le figure tanto discusse di Concino Concini e la sua consorte Leonora Galigai.

Tra le critiche che ho letto rivolte a questo libro ci sono l’accusa all’autrice di essersi dilungata troppo in descrizioni che appesantirebbero il racconto e l’aver reso la storia troppo romanzata.

Personalmente ho trovato la storia estremamente piacevole e sebbene si tratti di un tomo di quasi ottocento pagine l’ho trovato nell’insieme molto scorrevole. Tante, è vero, sono le descrizioni, ma sempre utili all’economia del racconto e tutt’altro che superflue. Si tratta senza dubbio di un romanzo che, sebbene come precedentemente evidenziato nasce da attenti studi, non vuole essere assolutamente un saggio.

Se guardiamo al taglio dato al racconto dall’autrice sembrerebbe quasi quello di un romanzo d’altri tempi, con un forte richiamo alla letteratura ottocentesca; del resto, in più di un’occasione, Natascia Luchetti schiaccia l’occhio ad un classico come “I tre moschettieri” di Alexandre Dumas e, visto l’argomento, non potrebbe essere diversamente. Un omaggio allo scrittore francese per certi versi doveroso anche se l’autrice è ammirata sostenitrice del “cattivo” della storia di Dumas.

A differenza dei “I tre moschettieri” di Dumas, romanzo di cappa e spada, quello della Luchetti è un romanzo più articolato dove è l’introspezione psicologica a prevalere seguendo le inclinazioni del suo protagonista, politico fine ed arguto ma anche spietato se necessario.

Il racconto si presterebbe benissimo a diventare un’avvincente serie televisiva. Alla sua trama non mancherebbe davvero nulla: personaggi intriganti e seducenti, numerosi colpi di scena inaspettati e luoghi ricchi di fascino e mistero dove ambientare la storia.

Le case editrici e gli autori ci hanno talmente abituati alle saghe in più volumi che quando ci troviamo dinnanzi ad un volume più corposo del solito ci spaventiamo. Al potenziale lettore interessato alla figura di Richelieu quindi consiglio di non farsi intimorire dalla mole del libro e di affrontare serenamente la lettura di questa storia che non potrà che coinvolgerlo ed emozionarlo fin dalle prime pagine.



lunedì 20 maggio 2024

“La vita s’impara” di Corrado Augias

Non saprei dire precisamente il momento in cui si siano radicati così fortemente in me la stima e l’apprezzamento per Corrado Augias, sta di fatto che da qualche anno a questa parte egli è divenuto una sorta di grillo parlante per la mia coscienza oltre che occasione di piacevoli momenti di condivisione con mio padre ogni qualvolta vi sia una sua trasmissione in televisione.

Ho parlato di grillo parlante perché non sono mai stata particolarmente attratta dalla storia del Risorgimento e, mea culpa, ancor meno da quella del Novecento. Ebbene, Corrado Augias grazie alle sue trasmissioni ha gradatamente instillato in me il desiderio di colmare questa lacuna spingendomi a fare i conti con il nostro “recente” passato di italiani.

Alla soglia dei novant’anni Corrado Augias, giornalista, scrittore, autore di programmi culturali in tv, si racconta, con lo stile garbato e ironico che lo contraddistinguono, attraverso aneddoti famigliari e lavorativi, letture, incontri, città (Roma, Parigi e New York), occasioni colte e mancate del suo percorso umano e professionale.

Leggiamo dell’infanzia passata in Libia al seguito del padre ufficiale della Regia Aeronautica, della paura dei bombardamenti e dell’arrivo degli americani a Roma, del collegio cattolico, degli studi classici e dell’università, dei concorsi fatti e di quello vinto che ne decretò il suo ingresso in RAI, dove Augias ha trascorso quasi sessant’anni e, assistendo all’avvicendarsi di tutte le varie ondate politiche, dai socialisti ai berlusconiani ai grillini, è stato testimone del suo lento e inesorabile declino.

Il racconto della sua vita diventa il racconto dell’Italia. Un’Italia che nel corso degli ultimi ottant’anni ha subito moltissimi cambiamenti. Come scrive lo stesso Augias, non si tratta solo di grandi differenze che possono essere colte facilmente come la pace e la guerra, la povertà e la ricchezza, la religiosità e la laicizzazione, ma si tratta anche di tanti piccoli e impercettibili cambiamenti, spesso di difficile individuazione e ancor più di difficile valutazione.

Nelle pagine di questo libro Augias affronta anche il tema del suo essere ateo che tiene a precisare non deve intendersi con una mancanza di spiritualità. Molti gli scritti a cui fa riferimento e a cui sin da giovane si è dedicato per indagare questo suo rapporto mancato con Dio.

Si ritrovano in queste pagine molte delle tematiche che Augias è solito affrontare nelle sue trasmissioni, ma tanti sono anche gli spunti di lettura per approfondire i temi trattati, a tal scopo di grande utilità è la dettagliata nota bibliografica presente.

Attraverso la lettura del libro sono riaffiorati alla mia mente tanti ricordi di quando ero una ragazzina come alcuni fotogrammi di “Telefono giallo”, uno dei fortunati programmi condotti da Augias, e una sigla che era solita nominare mia nonna, Unrra, riferita ad un’amministrazione delle Nazioni Unite per l’assistenza ai paesi europei devastati dalla seconda guerra mondiale.

Un rammarico grande quello di non aver dato più peso ai ricordi del tempo di guerra di mia nonna. Non che non l’abbia ascoltata, anzi, in fin dei conti se Corrado Augias con i suoi racconti riesce a smuover così tanto la mia coscienza, il merito è senza dubbio di mia nonna e dei suoi ricordi. È tuttavia altrettanto vero che se potessi ascoltare oggi quegli stessi racconti, lo farei con più consapevolezza traendone maggior beneficio, ma come giustamente recita il titolo del libro, la vita s’impara.

Corrado Augias è un giornalista arguto ed elegante, pacato ma allo stesso tempo implacabile. In una televisione urlata, la sua calma e la sua garbata eloquenza sono un vero balsamo.

Augias ha il grande pregio in questo libro come nelle sue trasmissioni televisive, cito a semplice titolo esemplificativo “La Torre di Babele” e  “Città segrete”, di non sottovalutare mai l’intelligenza del lettore, o spettatore che sia, spronandolo a colmare le proprie lacune piuttosto che assecondandone le mancanze come spesso accade per la maggior parte delle trasmissioni divulgative di oggi.    

Difficile classificare questo libro. Un testo autobiografico, uno scritto giornalistico, uno spaccato di società e costume, un invito alla partecipazione alla società civile e alla salvaguardia della democrazia, la testimonianza preziosa di un cambiamento storico, economico, politico e culturale, “La vita s’impara”  è tutto questo e molto altro ancora.




venerdì 17 maggio 2024

“La cripta di Venezia” di Matteo Strukul

L’educanda Marietta scopre nella cripta al di sotto della cappella di San Tommaso il cadavere di una sorella del convento di San Zaccaria.

La donna inginocchiata sull’altare, con le braccia legate dietro la schiena ha la mascella disarticolata; la morte è sopraggiunta per soffocamento dovuto al mattone che le è stato spinto violentemente in bocca.

Un modus operandi tanto raccapricciante non può che richiamare alla memoria gli efferati delitti compiuti da Olaf Teufel tre e sette anni prima.

Considerando poi che la donna assassinata è Polissena Mocenigo, nipote del doge morente, non stupisce che venga nuovamente chiamato ad indagare sull'omicidio l’artista Antonio Canal, detto il Canaletto, coadiuvato ancora una volta dai suoi inseparabili amici Owen McSwiney e Joseph Smith.

Molte cose sono cambiate nella vita di Canaletto nel corso degli ultimi tre anni. Da quando Charlotte, la figlia dell’eroe di Corfù, si è ritirata nel castello avito per espiare le proprie colpe, Canaletto non prova più lo stesso piacere di un tempo per la pittura. Vive richiuso in se stesso, malinconico e senza entusiasmo. Pur attraversando un periodo emotivamente così difficile, il pittore non ha perso il suo alto senso dell’onore e non si tira indietro dinnanzi alla chiamata della Repubblica.

“La cripta di Venezia” ci conduce alla scoperta di una sconosciuta città lagunare sotterranea. Un luogo ricco di fascino e inedito per il lettore che incontra nuovamente quei personaggi che tanto ha amato e apprezzato nei due capitoli precedenti della trilogia.

Come sempre ogni personaggio viene descritto e caratterizzato minuziosamente dall’autore. Un esempio ne è l’educanda Marietta che incontriamo all’inizio del romanzo. Bastano poche righe a Strukul, come veloci pennellate su una tela, per regalarci un ritratto completo di quella ragazzina claudicante di buona famiglia, dall’aspetto semplice e dal carattere mite, segnata a vita dall’intransigenza di un padre violento.

Incontriamo nuovamente tra queste pagine il personaggio luciferino di Orsolya Esterházy, bella e spietata regina dei Morlacchi, i Valacchi Neri, che sente ora approssimarsi la fine dell’attesa; presto potrà finalmente consumare la sua spietata vedetta.

Sulla scena appaiono anche nuovi interessanti personaggi. È il caso, ad esempio, della pittrice Giulia Lama, una donna non convenzionale, che vive fuori da ogni schema e anzi sembra voler infrangere intenzionalmente ogni regola prevista dalle convenzioni sociali. Una donna del genere non può non affascinare Canaletto da sempre attratto da figure femminili dal carattere volitivo, indipendenti e insofferenti alle regole della società benpensante.

Matteo Strukul è un autore che non delude mai: la sua scrittura fluida, la caratterizzazione dei suoi personaggi, la scelta di ambientazioni particolari e ricche di fascino, le trame coinvolgenti catturano il lettore fin dalle prime pagine trascinandolo nella storia e rendendolo partecipe degli eventi narrati.

“La cripta di Venezia” è il capitolo conclusivo di una trilogia, ma nulla vieta di leggerlo anche come romanzo autoconclusivo, per quanto il mio consiglio sia quello di leggere i tre volumi nell’ordine di pubblicazione così da poterne apprezzare meglio il dipanarsi della trama.

Capitolo conclusivo di una trilogia, dicevo, ma non necessariamente l’ultima avventura di Canaletto perché il finale resta quanto mai aperto. 

L’invito al lettore affezionato, dunque, è quello di non disperare perché con ogni probabilità il nostro amato Canaletto tornerà, speriamo presto, a gettarsi nella mischia per risolvere nuovi casi con nostra somma soddisfazione.



giovedì 16 maggio 2024

“Eleonora di Toledo e l’invenzione della corte dei Medici a Firenze”

Le donne della famiglia Medici ebbero tutte, sebbene alcune più di altre, un ruolo fondamentale per la dinastia e, se ad Anna Maria Luisa si deve il lascito di un patrimonio che ancora oggi rende grande Firenze e la Toscana intera, a Eleonora di Toledo dobbiamo l’invenzione della corte medicea così come noi la conosciamo.

Eleonora di Toledo giunse a Firenze diciasettenne; il suo matrimonio con Cosimo I de’ Medici fu un matrimonio politico, ma si rivelò fin da subito un’unione ben riuscita.

Eleonora portò con sé il rigido cerimoniale spagnolo, ma non solo. La duchessa fu amante delle arti, delle lettere e della moda. Eleonora di Toledo non ebbe nulla da invidiare alle altre celebri donne del Rinascimento quali Isabella d’Este e Vittoria Colonna.

Eleonora amministrò il ducato in assenza del marito per il quale fu fin dall’inizio una valida alleata. Si dice che il duca si fidasse del giudizio della moglie, una donna capace di determinare in prima persona le sorti dello stato e la sua economia, più che di quello di chiunque altro dei suoi consiglieri e anche di quello della madre Maria Salviati a cui era particolarmente legato.

La bella e affascinante Eleonora di Toledo diede a Cosimo undici figli di cui però solo quattro le sopravvissero. La duchessa fu una donna politicamente molto accorta e lo si vide anche nel suo modo di programmare l’avvenire dei figli fin dalla loro più tenere età.

Il libro è il catalogo dell’omonima mostra che si è svolta a Palazzo Pitti nell’anno 2023. Nel volume si mettono in evidenza i molteplici aspetti della complessa personalità di Eleonora di Toledo. Si analizzano le sue capacità imprenditoriali e politiche, ma anche il suo rapporto con la religione, gli artisti e i membri della famiglia di origine e di quella d'adozione.

Tra i vari temi analizzati in questo catalogo troviamo il rapporto venutosi a creare non solo tra i Medici e i Toledo, ma anche le somiglianze e le differenze tra Firenze e Napoli, due città con affinità senza dubbio politiche, ma anche culturali e artistiche.

Fu Eleonora ad acquistare Palazzo Pitti e il terreno circostante su cui sorsero per suo volere i Giardini di Boboli. Insieme al marito si occupò della ristrutturazione e della scelte iconografiche per le decorazioni delle stanze di Palazzo Vecchio; a lei si deve inoltre la nascita della ritrattistica ufficiale di corte.

Si indagano nel libro anche i rapporti con gli artisti del tempo. Non mancano poi divertenti aneddoti come quello che vide protagonista un Benvenuto Cellini in difficoltà perché costretto, suo malgrado, dalla duchessa ad intercedere per lei presso il duca per l’acquisto di una collana di perle il cui valore era molto inferiore a quello richiesto dal venditore.

Eleonora di Toledo, ben lontana da svolgere una mera funzione decorativa presso la corte medicea, fu una donna indipendente e capace di affermare la propria autorità, di plasmare la propria immagine e quella del ducato.

Eleonora fu spesso immortalata dal Bronzino per ritratti ufficiali da usare anche come modello sia per repliche destinate ad adornare le varie residenze sia per essere utilizzate come doni diplomatici per assicurare la diffusione dell’immagine di Eleonora stessa, ma soprattutto della solidità del ducato grazie all’immagine dei figli spesso rappresentati accanto a lei oppure da soli.

Eleonora, dopo aver ampiamente assolto il suo compito, ovvero quello di garantire una discendenza alla dinastia Medici, morì a Pisa nel 1562. Il suo corpo, già minato dalla tubercolosi e provato dalle numerose gravidanze, non riuscì ad avere la meglio sulle febbri malariche che la colpirono.

Morì appena quarantenne senza potersi fregiare del titolo di granduchessa perché il Granducato di Toscana, per il quale lei tanto si era adoperata, venne creato solo sette anni più tardi nel 1569.

 

 

mercoledì 1 maggio 2024

“Unisono” di Andrea Fatale

Siamo noi a scegliere i libri o sono loro che scelgono noi? Risposta che sembrerebbe scontata, ma non lo è più quando ci accorgiamo che un volume, che era lì ad aspettarci da mesi, capita improvvisamente tra le nostre mani al momento giusto.

Andrea Fatale probabilmente direbbe che nulla accade per caso perché, anche se non ne siamo consapevoli, per ognuno di noi il destino è già stato scritto. Attenzione, questo non significa che bisogna rinunciare a vivere, ma semplicemente che bisogna assecondare il flusso della vita senza opporvisi.

In particolare egli pone l’accento sul fatto che oggi, nella società moderna, manchi del tutto la capacità di avvertire quella dimensione “sacra” dell’esistenza umana che va oltre la realtà ordinaria ed è afferrabile solo attraverso l’intelletto.

Il suo intento con questo libro è quello quindi di aiutarci a comprendere come l’attuazione di una rivoluzione interiore sia per noi l’unica via percorribile per far fronte alla dissennata epoca in cui viviamo. 

Per quanto noi ci si sforzi, infatti, di spiegare l’universo attraverso la logica e la scienza, non possiamo continuare ad ignorare che quanto intuiamo sia in realtà solo una piccolissima parte di un qualcosa di infinitamente più grande, impossibile da comprendere nella sua vastità.

Il saggio attinge alla sapienza dei Misteri, prende in esame ogni tipo di filosofia e religione, orientale e occidentale, dalle origini fino ad oggi, senza tralasciare di esaminare persino la meccanica quantistica. Riesce così a dimostrare come tutti quanti questi dogmi, dottrine e discipline, seppur così differenti tra loro, abbiano un forte denominatore comune.

L’intento di questo saggio è quello di tentare di sradicare quella nociva abitudine nella quale noi tutti indulgiamo ovvero l'arrovellarsi nel continuo vano tentativo di controllare ciò che non è possibile controllate.

Noi viviamo sempre in perenne oscillazione tra la nostalgia per il passato e l’ansia per un futuro che è solo incertezza. Sempre in bilico tra il desiderio di ritrovare ciò che abbiamo perduto nel passato e il timore per quello che ci aspetta domani. Quello che più di tutto ci provoca dolore è l’attaccamento, per questo è oltremodo necessario imparare a lasciare andare e vivere pienamente il qui e ora.

Solo mettendo, poi, l’amore al centro possiamo davvero ritrovare la nostra serenità, perché ognuno di noi è solo una parte dell’insieme. Mettere da parte l’ego, ritornare a fare parte di una comunità, far rivivere lo spirito di fratellanza è quello di cui abbiamo davvero bisogno per stare bene e sentirci realizzati. 

Potrebbero sembrare concetti semplici, ma non lo sono affatto quando si cerca di metterli in pratica soprattutto oggigiorno in una società dove siamo sempre più iperconnessi e allo stesso tempo sempre più soli.

Il saggio di Andrea Fatale è molto ben articolato ed esaustivo, ma a tratti può risultare un po’ ostico per i neofiti. Come suggerisce Alberto Camici nella prefazione, il consiglio è quello di andare spediti avanti nella lettura perché pagina dopo pagina vedrete che le nebbie si diraderanno e i concetti espressi non saranno più così difficili da recepire.

Sarei bugiarda se non vi dicessi che all’inizio sono stata tentata di avvalermi del terzo diritto del lettore di Pennac, ovvero quello di abbandonare la lettura del libro, ma sono contenta di non averlo fatto perché da questo libro si possono davvero trarre insegnamenti utili e importanti.

Un passaggio in particolare credo meriti di essere citato perché sintetizza in poche parole quanto espresso dall’autore nel suo libro; si tratta di una bellissima definizione che egli dà della vita:

La vita è come un arcobaleno composto da tanti colori con mille sfumature diverse. Molti, traditi dalla loro superficialità, vedono pochi colori o magari solo uno…  Chi invece con gioia offre se stesso alla vita si gode la pienezza di uno spettacolo meraviglioso! È tutta questione di consapevolezza.

 



giovedì 18 aprile 2024

“I Medici. Uomini, potere e passioni” a cura di A. Wieczorek, G. Rosendahl e D. Lippi

Edizione italiana del volume pubblicato in occasione della mostra a Mannheim per il 270° anniversario della morte di Anna Maria Luisa de’ Medici (2013), “I Medici. Uomini, potere e passione” è un libro nato con l’intento di rimanere un testo di riferimento sulla storia medicea anche negli anni successivi a quello dell’evento.

Il libro presenta brevi e dettagliate schede dedicate ai personaggi della dinastia e racconta gli eventi storici che li videro protagonisti per quasi trecento anni. Vengono inoltre indagati dettagliatamente tutti quegli elementi legati alla storia dell’arte, alla letteratura e alla filosofia che tanto interessarono tutti gli esponenti della famiglia Medici nel corso dei secoli.

Il volume è costituito da una serie di articolati interventi molto diversi tra loro per argomento e stile, numerosi infatti sono gli autori, che terminano tutti con un’interessante bibliografia per chi volesse approfondire quanto trattato in ciascuno di essi.

Le prime pagine sono dedicate alle sepolture dei Medici con ampie digressioni su San Lorenzo, le Cappelle Medicee e l’Opificio delle Pietre Dure e con una breve storia alle traslazioni, esumazioni e ricognizioni dei luoghi di sepoltura.

Tra i tanti altri argomenti trattati troviamo: il sistema bancario, di cui si analizza dettagliatamente anche l’aspetto teologico e filosofico, il recupero e il restauro delle vesti di Eleonora di Toledo, di don Garzia e di Cosimo I, l’educazione, il ruolo sociale e la mortalità dei bambini, il mestiere delle armi, la storia di Galileo Galilei e il Calcio Storico Fiorentino.

Tra i vari autori non poteva mancare il compianto Alberto Bruschi. In verità mi sono imbattuta in questo volume proprio mentre stavo effettuando una ricerca dei suoi scritti.

Il suo intervento non poteva che essere dedicato all’amato Giovanni Gastone, o Gian Gastone come da subito venne chiamato.

Il ritratto a corredo dell’articolo di Bruschi è un dipinto, opera di Franz Ferdinand Richter, che per un periodo è stato esposto anche al Museo de’ Medici nella sua precedente sede. Analizzando nel dettaglio quest’opera del Richter Alberto Bruschi tratteggia, con la sensibilità che sempre lo ha contraddistinto parlando dell’ultimo granduca Medici, il ritratto di un sovrano dal volto bonario corrotto dagli anni e dalle amarezze, dall’animo ricco di contraddizioni proprie della sua follia e della sua genialità, i cui “occhi velati da profonda tristezza paiono fissati nell’eternità, rivelando sgomenti pensieri”. 

Bruschi non manca ancora una volta di sottolineare quanto la memoria di Gian Gastone sia stata vittima, e lo sia purtroppo spesso ancor oggi, di “biografi prezzolati e servi rancorosi” in gara tra loro per indirizzare i contemporanei verso i Lorena ed ingraziarsi così questi nuovi padroni, più tardi, poi, il perbenismo dell’Ottocento fece il resto.

“I Medici. Uomini, potere e passioni” è un volume interessante, ricco di spunti e curiosità. Un’edizione particolarmente accurata nel suo apparato tipografico con bellissime illustrazioni. Una lettura assolutamente consigliata.




lunedì 15 aprile 2024

“Figlie dell’oro” di Flaminia Colella

Delia conosce il marito Carlo quando, appena diciassettenne, si trova ricoverata in fin di vita nell’ospedale dove lui presta servizio. Una vita matrimoniale piena, fatta magari anche di alti e bassi come quella di tutte le coppie, ma pure di tante avventure, viaggi e conoscenze. La propensione alla gelosia e il dolore fisico di Delia insieme al carattere inquieto di Carlo scandiscono i tanti anni di una vita insieme coronata dalla nascita di cinque figlie.

Delia, sebbene la vita non sia stata sempre clemente con lei, non ha mai avuto davvero paura e Carlo, da parte sua, l’ha sempre spronata a non cedere a questo sentimento anche nei momenti più difficili. Serena, al contrario, vive nel costante timore: ha paura della vita, dell’amore, dell’ineluttabile. 

Delia lascia in eredità a Serena un libro di poesie di Emily Dickinson. La donna spera che i versi della poetessa da lei tanto amata, e che ha sempre sentito così affine a se stessa, possano aiutare la ragazza a superare la crisi e indurla finalmente a vivere con pienezza la propria esistenza.

“Le figlie dell’oro” è un romanzo polifonico dove le voci di quattro donne si intrecciano e si sovrappongono nel tempo e nello spazio. Sono le voci di Delia, di Gabriella, l’insegnante di pittura di Delia, di Serena, io narrante del romanzo, e di Emily Dickinson le cui poesie fanno eco ai racconti di Delia.

Le pagine del libro sono popolate dal senso di vuoto, dalla paura di vivere, da un sentimento di inadeguatezza e dal desiderio di fuggire, ma la fuga non è mai una soluzione.

Riaffiorano alla mente del lettore alcuni famosi versi montaliani “spesso il male di vivere ho incontrato” e proprio il dolore dell’esistenza diviene il filo conduttore del romanzo. Lo troviamo nelle paure di Serena, nella follia dei pazienti di Carlo, e lo troviamo talvolta anche in Carlo stesso, lui, eminente psichiatra, che si trova a condividere, suo malgrado, alcuni demoni con i propri ammalati.

Serena accetta di entrare nel labirinto delle poesie della Dickinson e, nel tentativo di dipanare quel labirinto, scova similitudini tra la poetessa e Delia, ma anche con se stessa. Mettendo a confronto il mondo della Dickinson e quello di Delia con il mondo contemporaneo, passo dopo passo Serena riemerge dall’abisso, dal nero, trovando una propria dimensione e una propria stabilità per quanto ancora malferma.

La poesia di Emily Dickinson ha un potere terapeutico così come l’amore detiene un potere salvifico. Non è importante cosa si ami, ma è importante farlo per conoscere se stessi, per superare le nostre paure, per entrare in contatto con il nostro punto più oscuro e smettere così di temerlo una volta per tutte.  

“Le figlie dell’oro” è un libro intenso e complesso. È una lettura che scava nel profondo, che richiede tempo e concentrazione per essere apprezzata e compresa pienamente.

 




domenica 31 marzo 2024

“Il cardo e la spada” di Elisabetta Sala

Siamo nel 1618, l’impero degli Asburgo è frammentato in una serie di principati che professano diverse religioni: calvinisti, luterani e cattolici. In Boemia i ribelli si rifiutano di riconoscere come legittimo erede al trono Ferdinando d’Asburgo offrendo la corona di Boemia a diversi principi luterani. L’unico pronto a sfidare l’Asburgo è però il calvinista Elettore Palatino Federico V. 

Siamo solo all’inizio di quella che sarà ricordata come la Guerra dei trent’anni e che vedrà intervenire nel suo lungo protrarsi anche i paesi limitrofi a sostegno della Causa protestante. Una guerra di religione che avrà, come sempre accade in questi casi, poco o nulla a che fare con la religione, ma tanto con la sete di potere.

Nella vita non tutto è sempre o bianco o nero e talvolta c’è ancora spazio per il riscatto. Anche nella ferocia della battaglia può esserci un gesto di pietà che faccia intravedere un lampo di speranza, di umanità laddove anche la religione diviene solo un pretesto per battersi e all’onore sembrano credere ormai solo i bambini.

Rose è una donna scozzese imbarcatasi giovanissima con un’amica per sfuggire alla miseria e vedere il mondo. È una donna apparentemente senza scrupoli, che odia perdere il controllo e che non si fida di nessuno, ma qualcosa muterà radicalmente la sua vita e la farà redimere.

Brian è un soldato, ama e odia la guerra allo stesso tempo; il mestiere delle armi è l’unico che conosce.  Da moltissimo tempo non schiude il suo cuore a qualcuno e quando il bisogno di stringere legami si impossessa all'improvviso di lui ne rimane totalmente disorientato.

“Il cardo e la spada” è un bellissimo romanzo corale dove i personaggi di fantasia intrecciano perfettamente le loro vicende umane con quelle dei personaggi storici realmente vissuti.

Tra questi ultimi ce n’è uno in particolare che affascina il lettore e lo spinge a documentarsi sulla sua esistenza. Si tratta del gesuita Friedrich Spee, autore di inni religiosi e della Cautio criminalis, opera in cui egli ha indagato le procedure dei processi per stregoneria criticando fortemente l’uso delle torture.

Non vi nascondo che l’avvio del romanzo mi è sembrato piuttosto lento. All’inizio la narrazione fa un po’ fatica a decollare, ma poi prende slancio e il lettore si trova senza quasi accorgersene totalmente coinvolto dalle vicende dei protagonisti con i quali si stabilisce un forte rapporto empatico tanto che, come spesso accade in questi casi, si fa fatica a lasciare andare i personaggi al termine della lettura.