Inizi del Novecento,
uno studente universitario giapponese racconta del suo incontro con il maestro
durante una vacanza a Kamakura.
In verità egli non è un
suo insegnante, ma lo studente gli si rivolge così per rispetto; come egli
stesso infatti spiegherà nelle prime pagine del libro è sua abitudine
rivolgersi in tal modo alle persone più anziane.
Il romanzo è diviso in
tre parti, nelle prime due l’io narrante è lo studente che in prima persona racconta
dei suoi studi, della sua famiglia, ma soprattutto cerca di fare luce sullo
strano rapporto instauratosi nel tempo tra lui e il maestro, rapporto che
coinvolge in parte anche la moglie di questi.
Nell’ultima parte
invece a prendere la parola è il maestro stesso che, attraverso le pagine di
una lunga lettera, affida allo studente il suo testamento morale.
Il cuore delle cose
(titolo originale Kokoro) di Natsume Sōseki, ritenuto oggi il suo capolavoro,
presenta molti punti di contatto con la biografia del suo autore tanto da poter
identificare il maestro con l’autore stesso.
Molto importante diventa
quindi, per comprendere meglio il romanzo, la lettura dell’interessante
prefazione di Gian Carlo Calza dedicata proprio alla vita di Sōseki e alla sua
poetica.
Il 30 luglio 1912 morì l’imperatore
Meiji e questo evento segnò profondamente il Giappone. Con la morte
dell’imperatore terminava l’epoca di transizione del Giappone dal mondo feudale
alla corsa verso l’occidentalizzazione.
Mi sono interrogata
spesso sulle problematiche della traduzione di questo libro, non solo a livello
linguistico, ma anche sulla difficoltà nel riuscire a trasmettere adeguatamente
quella spiritualità e quel sentire orientali così lontani dalla cultura
occidentale.
In questo romanzo, forse anche perché Natsume Sōseki era un profondo
conoscitore della letteratura occidentale ed in particolare di quella britannica,
non si avverte nessun forte distacco tra le due culture. Qui la tradizione
giapponese entra in comunione con quella occidentale sulla scia di quell'occidentalizzazione verso cui si avviava il Giappone proprio a quel tempo.
Così il concetto che l’amore profondo provato per la donna amata
sia da paragonarsi ad una religione, nonostante venga espresso in un
romanzo dove la società segue un modello prettamente patriarcale, non può non
richiamare alla memoria la poetica di John Keats e quella lettera che il 13
ottobre 1919 egli scrisse alla sua Fanny “Sono
sempre rimasto stupefatto dinnanzi a chi moriva da martire per la religione –
l’amore è la mia religione – io potrei morire per amore – potrei morire per te.
Il mio unico credo è l’amore e tu il mio solo dogma”.
Il cuore delle cose è
un romanzo particolare, un romanzo che
si svela a poco a poco, intriso di malinconia e solitudine. Delusione e senso
di perdita pervadano ogni pagina; su ogni cosa domina la sfiducia nel prossimo dal momento che non può esistere una netta
linea di demarcazione tra buoni e cattivi poiché si può essere certi che anche i migliori inevitabilmente dinnanzi
alle tentazioni della vita si lasceranno corrompere.
Incomunicabilità, rassegnazione e frustrazione coinvolgono tutti i
personaggi indistintamente, lo studente, la moglie, il maestro, l’amico K,
soffocando ogni cosa; le verità taciute,
il senso di inadeguatezza, la sofferenza, il tradimento minano alla base ogni
rapporto, ogni possibile complicità è preclusa.
La moglie del maestro
continuerà a sentirsi colpevole per qualcosa che non ha commesso, il maestro
seguiterà a colpevolizzarsi ritenendo se stesso la sola causa di tanto dolore, mentre
l’ombra dell’amico K, morto da tanto tempo, continuerà a spandere la sua tragica
ombra sulle vite di chi gli è sopravvissuto.
Solo allo studente sarà concesso conoscere la verità, ma sarà troppo tardi
o forse no, forse conoscere la verità potrà salvarlo da se stesso e dalle prove
della vita che lo attenderanno in quest’epoca
moderna, così piena di libertà,
indipendenza, ed egoistica affermazione individuale.