domenica 16 agosto 2020

“Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV secolo” di Adriano Petta e Antonino Colavito

Ipazia, astronoma, matematica e filosofa, visse nel IV secolo d.C. ad Alessandria d'Egitto. 

Alla morte del padre Teone ereditò da questi la direzione della scuola neo-platonica; quella alessandrina era stata la comunità scientifica più importante della storia, proprio qui infatti avevano studiato importanti scienziati e filosofi quali Archimede, Ipparco, Aristarco di Samo, Tolomeo e molti altri.

A Ipazia si devono importantissime scoperte scientifiche oltre alla realizzazione di preziosi strumenti come l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro.

Le fonti storiche che la riguardano sono molto esigue e quasi nulla è giunto fino a noi delle sue opere se non qualche raro frammento.

Gli anni di Ipazia furono gli anni in cui si assistette allo sciagurato patto tra l’agonizzante Impero Romano, minacciato dalle popolazioni barbare che premevano ai confini, e la Chiesa cattolica che vantava figure di spicco quali Ambrogio, vescovo di Milano, e il padre della Chiesa Agostino.

Il patto prevedeva, oltre alla completa evangelizzazione dell’Impero, la soppressione di templi, biblioteche, centri di studio e con essi l’eliminazione di scienziati, studiosi, filosofi, in poche parole di tutti coloro che potessero minacciare la Chiesa cattolica con la diffusione del libero pensiero e delle scienze.

Ad osteggiare apertamente il vescovo di Alessandria Cirillo troviamo il prefetto romano Oreste.

Ipazia, già invisa a Cirillo in quanto scienziata, filosofa e per di più donna, pagò con la vita probabilmente anche la sua amicizia con Oreste.

Nel 415 d.C. venne barbaramente uccisa e fatta a pezzi dai fondamentalisti che ritenevano che la sua libertà di pensiero influenzasse negativamente il popolo allontanandolo dal vero credo.

Ipazia amava infatti trasmettere il suo sapere recandosi tra la gente e, nello scontro tra ragione e religione, fu lei a pagare il prezzo più alto.

Il libro è diviso in due parti.

Nella prima parte, scritta da Adriano Petta, viene raccontata la vita di Ipazia; un racconto romanzato, ma che segue con rigore storico gli eventi e il contesto culturale in cui si svolsero i fatti narrati.

Nella seconda parte, ad opera della penna di Antonino Colavito, invece è Ipazia in prima persona a parlarci, come in un sogno, delle sue ricerche, delle sue speranze, sei suoi dubbi e del sapere di cui è custode.

Probabilmente molti di voi, come me, avranno già letto questo romanzo anni fa in occasione dell’uscita del film Agora (2009) con la bravissima Rachel Weisz nel ruolo di Ipazia.

“Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV secolo” è uno di quei libri che ti segnano profondamente, ragione per la quale, anche se di solito non amo rileggere i libri già letti in considerazione del fatto che non mi basterà una vita per leggere tutto quello che vorrei, ho voluto fare un’eccezione come raramente mi accade.

Perché rileggere il romanzo?

Iniziamo dalla motivazione più ovvia, anche se per questo non meno valida, ossia per non dimenticare.

Per non dimenticare che secoli fa una donna dotata di una mente straordinaria, tenace e determinata, diede la sua vita per la scienza e per ciò in cui credeva.

Ipazia morì non solo per difendere il pensiero scientifico, ma anche per affermare il diritto di tutti al libero pensiero.

In molti paesi la donna è ancora oggi considerata un essere inferiore, ma la verità è che anche nel mondo più civilizzato, o almeno in quella parte di mondo che ci piace definire tale, la donna ha raggiunto una parità solo apparente.

Non possiamo infatti ignorare che gli stipendi delle donne, a parità di competenze e mansioni, siano ancora troppo spesso inferiori a quelli dei loro colleghi uomini, che sia ancora necessario avvalersi delle quote rosa e che ai vertici delle grandi aziende gli uomini siano numericamente superiori.

Sono trascorsi ben sedici secoli allorquando Ipazia scelse di dedicare la propria vita alla scienza rinunciando ad una sua famiglia, altro motivo per cui venne osteggiata.

Eppure, non possiamo fingere di non sapere che, nonostante si dica che una donna sia libera di scegliere se diventare madre o meno, colei che rinuncia volontariamente alla maternità per dedicarsi ad altro o anche solo per una sua risoluzione personale, ancora oggi venga sottoposta a critiche, spesso neppure troppo velate, e debba sentirsi sempre in dovere di giustificare le proprie scelte.

Ero inoltre molto curiosa di sapere quali impressioni mi avrebbe suscitato rileggere questo romanzo a distanza di più di dieci anni e dopo aver affrontato nel frattempo tante altre letture.

Le emozioni provate sono state le stesse, la medesima intensità e lo stesso coinvolgimento, se non fosse per una sola piccola nota stonata, ovviamente per il mio personale sentire, laddove si condanna Claudio Claudiano perché incline a sprecare il suo talento dedicandosi esclusivamente alla retorica e alla poesia anziché alla scienza.

Ipazia era una scienziata e una filosofa, faceva della ragione il suo unico scopo, per lei la ragione era la fonte di tutto.

Oggi abbiamo una tecnologia super avanzata, la scienza ha fatto passi da gigante, ma mai come oggi avremmo in verità bisogno di molta più poesia.

All’epoca in cui visse Ipazia la filosofia, la matematica, l’astronomia, la musica erano strettamente collegate tra loro, per cui non so se tale affermazione nasca dal vero pensiero di Ipazia ritrovato tra i frammenti delle sue opere o se sia invece solo finzione letteraria ad opera dell’autore del romanzo, però leggere:

Lascia perdere Shalim testi di religione e di filosofia. Noi sappiamo cosa può veramente mutare il cammino dell’uomo.

Pur comprendendo che si tratta di un romanzo che parla di storia della scienza, trovo comunque piuttosto fastidioso quanto così espresso.

Capisco la necessità da parte di Ipazia di dover scegliere cosa salvare, ma una tale affermazione traccia un confine troppo netto tra ciò che è da considerarsi utile e ciò che invece deve essere considerato superfluo dell’umano sapere.

Premesso che mi risulta impossibile fare una classificazione delle varie discipline, mi rifiuto di credere che poesia, filosofia, ma anche religione e mitologia, nelle quali affondano le nostre radici, si possano ritenere materie superflue per il cammino dell’uomo.

Gli studi umanistici sono sempre più osteggiati perché poco remunerativi e considerati di limitata utilità, non comprendendo che proprio attraverso questi stessi studi si forgia la chiave del pensiero, la possibilità di sviluppare quello spirito critico che manca alla nostra società spianando così la strada a fondamentalisti e populisti.

Non so perché non avessi notato questa stonatura quando lessi il romanzo per la prima volta, forse mi ero troppo persa nella trama del racconto o, più semplicemente, magari dieci anni fa non ero così suscettibile sull’argomento.

La figura di Ipazia, comunque, donna forte e determinata, sicura delle proprie scelte, comunicativa e appassionata, dolce ma allo stesso autorevole e ferma, non può che affascinare e coinvolgere il lettore anche ad una seconda lettura più approfondita.

Spero di essere riuscita ad incuriosirvi abbastanza da spingervi a leggere il libro nel caso non l’aveste mai fatto o, nel caso invece esso sia una vecchia conoscenza, di avervi un poco invogliati a inserirlo nell’elenco dei romanzi da rileggere.

 


2 commenti:

  1. "[...] colei che rinuncia volontariamente alla maternità per dedicarsi ad altro o anche solo per una sua risoluzione personale, ancora oggi venga sottoposta a critiche, spesso neppure troppo velate, e debba sentirsi sempre in dovere di giustificare le proprie scelte."

    Molto vero. Immagino, però, che questa linea di pensiero non sia solo un retaggio culturale, bensì anche biologico che punta alla sopravvivenza della specie. Tra le donne che non desiderano avere figli, infatti, ce ne sono molto che, se scoprono per qualche motivo che non potranno comunque averne per i motivi clinici più svariati, ne rimangono stravolte. Penso la maggior parte della gente senta questo retaggio perché fa parte delle dinamiche che tendono viva una specie.

    Quanto alla stonatura di cui parli, per darti un'opinione dovrei andare rispolverare le mie conoscenze sul tardo antico. Potrebbe essere che l'autore considerasse poesia e filosofia discipline che rientrassero più in una vita in cui ci si potesse dedicare all'ozio romano? Forse per questo mette certe parole in bocca a Ipazia. Non so.

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    1. Credo sia normale per chi desidera dei figli, ma non può averne, restare sconvolto da tale rivelazione. Ma dovrebbe sconvolgere l'impossibilità di realizzare il proprio desiderio di maternità, non l'impossibilità di essere "normali" per la società.

      Capisco cosa tu voglia dire sull'esigenza biologica di perpetrare la specie e sono d'accordo con te nella teoria. E'ovvio che se tutte le donne non volessero più avere figli, ne conseguirebbe l'estinzione della specie.
      Questo però è anche un pensiero pericoloso, perché allo stesso modo dovremmo pensare che l'omosessualità sarà sempre condannata per gli stessi motivi.
      Io voglio sperare che un giorno ognuno sarà davvero libero di scegliere senza sentirsi giudicato o sottoposto a pressioni. Lo so, la mia è pura utopia. Si viene persino giudicati sull'abito che si indossa!

      Per quanto riguarda la stonatura, ho pensato qualcosa di simile anch'io e ci starebbe pure anche se ad esempio l'otium per i latini non era proprio il nostro concetto di "ozio".
      La stonatura più che altro l'ho avvertita perché è difficile non legarla a quello che si percepisce sull'argomento oggi, ma ti ripeto nel contesto del romanzo ci sta perfettamente. Ipazia è una scienziata e una filosofa, quelli che noi oggi studiamo come filosofi all'epoca erano in fin dei conti annoverati tra gli scienziati, le demarcazioni non erano così nette tra le discipline.

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