lunedì 1 settembre 2025

“La torcia” di Marion Zimmer Bradley

Marion Zimmer Bradley è stata una delle autrici che hanno segnato la mia giovinezza.
Ho letto ogni sua opera con passione, pagina dopo pagina, ad eccezione di una: La torcia. Quel vuoto era come un piccolo tarlo nella mia libreria, un tassello mancante che, anno dopo anno, continuava a farsi notare.

Poi, quest’anno, tra i corridoi affollati e luminosi del Salone del Libro, è arrivato finalmente il momento tanto atteso. Ho stretto La torcia tra le mani con un senso di compimento, come se un filo interrotto si fosse finalmente ricongiunto.

Il romanzo racconta la storia di Cassandra, la sacerdotessa di Apollo condannata a vedere il futuro senza mai essere creduta, ma non si limita agli eventi della guerra di Troia, quelli resi celebri dall’Iliade. La torcia segue l’intera parabola della vita di Cassandra, dall’infanzia, quando viene reclamata dal dio, fino agli eventi successivi alla caduta della città.

Marion Zimmer Bradley sceglie la via del romanzo storico, discostandosi dalla versione omerica che ci è più familiare. Eppure, se consideriamo che l’Iliade stessa è il frutto di voci intrecciate nei secoli, allora questa riscrittura risulta sorprendentemente plausibile.

La Cassandra di Marion Zimmer Bradley è una donna moderna intrappolata nell’antichità. Le sue domande sugli dei, sul senso del divino, sul libero arbitrio e sulla possibilità di scegliere il proprio destino, sono domande che restano attuali, ancora radicate nel nostro presente.

Ampio spazio è dedicato al rapporto con l’altro sesso. Marion Zimmer Bradley non giudica: si limita a evidenziare come ogni condotta dovrebbe nascere da una scelta consapevole, non da imposizioni maschili o divine che siano. Ecuba, Elena, Andromaca, Pentesilea e, naturalmente, Cassandra: ognuna di loro rappresenta un modo diverso di essere donna, un diverso volto del femminile.

Un ruolo centrale nel romanzo è occupato anche dal culto della Dea Madre. Il mondo in cui Cassandra cresce è in trasformazione: un sistema patriarcale sempre più dominante va gradualmente soppiantando l’antico ordine matriarcale. La dea viene dimenticata, oscurata, marginalizzata. È un passaggio simbolico potente, che accompagna l’evoluzione (o l’involuzione) della società narrata.

Una nota personale va ad Achille. Dopo aver letto l’Iliade nell’edizione La Lepre, avevo imparato ad apprezzare questo personaggio, arrivando quasi a preferirlo ad Ettore. Nella visione di Marion Zimmer Bradley, Achille è un guerriero folle, accecato dall’ira. Un ritratto duro, con cui non riesco del tutto a concordare, ma che resta coerente con l’equilibrio narrativo del romanzo.

Sono felice di aver colmato questa lacuna nella mia libreria. Forse la vera magia dei libri è tutta qui: non ci trasformano soltanto quando li leggiamo, ma restano in silenzio ad aspettarci, finché non siamo pronti ad incontrarli.





giovedì 10 luglio 2025

“Una lunga caccia” di Louisa May Alcott

Rosamond è una diciottenne vivace e assetata di conoscenza, costretta a vivere in isolamento nella tetra dimora del nonno, un uomo freddo e avido che le ha sempre negato ogni forma di libertà e affetto. Rifugiandosi nei libri, di cui è un’instancabile lettrice, Rosamond sogna un’esistenza diversa, fatta di avventure, passioni e orizzonti sconfinati.

I suoi desideri sembrano avverarsi quando nella sua vita irrompe l’affascinante e misterioso Philip Tempest che inizia a corteggiarla con premura e intensità. Sedotta dal suo carisma e dalla promessa di una nuova vita, Rosamond cede al sentimento. A Nizza, dove la coppia si trasferisce, tutto sembra sfiorare la perfezione: un’esistenza immersa nel lusso, tra svaghi mondani e una libertà mai sperimentata prima.

Ma l’incanto si spezza quando il passato oscuro di Philip riemerge, portando con sé ombre inquietanti e verità taciute. L’uomo che Rosamond ama si rivela per ciò che è davvero: crudele, manipolatore, pericoloso. Il sogno si trasforma in un incubo da cui l’unica via d’uscita è la fuga, ma non sarà semplice. L’ossessione di Philip Tempest non conosce limiti. L'uomo darà inizio a una caccia spietata e Rosamond dovrà lottare con ogni forza per riconquistare la propria libertà.

Louisa May Alcott è universalmente conosciuta per i suoi romanzi di formazione, primo fra tutti l’intramontabile Piccole donne. Tuttavia, pochi sanno che nel corso della sua breve vita (1832–1888), l’autrice scrisse anche numerosi racconti e romanzi gotici, con l’intento di esplorare la complessità della psiche umana. Da fervente sostenitrice dei diritti civili e della giustizia sociale, Louisa May Alcott utilizzò spesso la narrativa come strumento per denunciare le ingiustizie e le ipocrisie della società del suo tempo.

Una lunga caccia venne scritto nel 1866, ma l’editore a cui l’autrice lo sottopose lo giudicò troppo audace per l’epoca e il romanzo rimase inedito per decenni. Solo molti anni dopo la sua morte, nel corso del Novecento, l’opera vide finalmente la luce, rivelando un lato meno noto ma affascinante della sua produzione letteraria.

Ciò che colpisce maggiormente di questo romanzo è la sua sorprendente attualità. Al di là della trama avvincente e dei colpi di scena tipici del romanzo di fine Ottocento, ciò che lascia davvero il segno è la figura di Philip Tempest e la sua ossessione per la protagonista. Un’ossessione che, pur nata in un contesto storico lontano, risuona ancora oggi tragicamente familiare.

Il comportamento di Tempest, il suo desiderio di controllo, la convinzione che l’amore giustifichi il possesso, l’incapacità di accettare la libertà dell’altro, riflettono dinamiche tossiche che ancora oggi affiorano nelle cronache di violenza domestica e femminicidio. La sua idea distorta di amore, che riduce l’altro a un mero oggetto da possedere, è purtroppo ancora presente in molte relazioni contemporanee.

Con straordinaria lucidità e coraggio l’autrice mette in scena non solo il dramma personale della protagonista Rosamond, ma una critica profonda a una cultura patriarcale che confonde l’amore con il dominio.

La protagonista, nel suo disperato tentativo di sfuggire a una relazione tossica, diventa un simbolo di resistenza silenziosa, ma incredibilmente potente. La sua fuga non è solo un gesto di sopravvivenza, ma anche una dichiarazione di autonomia, un rifiuto deciso che l’amore non può giustificare il controllo o la cancellazione dell’identità personale. In un’epoca in cui le donne avevano pochi strumenti per affermare la propria libertà, la sua determinazione a non cedere, a non piegarsi, assume un valore quasi rivoluzionario. La protagonista di Una lunga caccia incarna il coraggio di chi sceglie di rompere il silenzio, di chi osa dire “no” anche quando tutto intorno spinge a restare e a sottomettersi. La storia mette in luce, però, anche l’importanza di trovare sul proprio cammino persone amiche disposte ad aiutare chi si trova in tali difficoltà.

Una lunga caccia è un romanzo di straordinaria intensità emotiva e potenza narrativa. Ciò che rende però questa edizione ancora più speciale è la cura editoriale con cui è stata realizzata: il volume è arricchito da splendide illustrazioni che non si limitano ad accompagnare il testo, ma ne amplificano l’atmosfera, evocando con forza i toni gotici e le tensioni interiori della storia.





 

martedì 1 luglio 2025

“Ambrushur” di Max Peronti

Dopo la caduta del tiranno Zorks, i regni degli uomini sprofondano nel caos: antiche tensioni riaffiorano, nuove alleanze prendono forma e patti occulti si intrecciano. Intanto, orde di pelle-verde si preparano a travolgere l’Ovest, mentre misteriosi razziatori approdano sulle coste meridionali.

In questo clima di incertezza, il negromante Xankroz guida oltre il mare un esercito terrificante, fatto di fantasmi, vampiri, zombie e ogni più spaventosa creatura. Il suo obiettivo è quello di completare un oscuro rituale che annienterebbe ogni forma di vita. L’unica speranza risiede nell’ambrushur Omega, incaricato di fermarlo, ma per riuscirci dovrà stringere un’alleanza pericolosa con maghi oscuri e un elfo dalla dubbia lealtà.

Scoperto quasi per caso al Salone del Libro, questo romanzo fantasy dalle sfumature dark ha superato di gran lunga le mie aspettative. Già dal breve riassunto che ho condiviso, si intuisce quanto il mondo creato da Max Peronti sia ricco e stratificato. Un universo narrativo complesso, sorretto da mappe dettagliate, terre immaginarie e un pantheon divino sfaccettato e sorprendente: un vero piacere per chi ama perdersi tra le pagine di mondi alternativi.

Numerosi sono i richiami ai grandi classici del fantasy, da Tolkien a Sapkowski, passando per Marion Zimmer Bradley e George R. R. Martin. Ma non mancano nemmeno evidenti suggestioni provenienti dalla letteratura gotica. È proprio la perfetta fusione tra questi due universi narrativi a rendere la trama e i suoi personaggi così affascinanti e intensi.

Il mondo immaginato da Max Peronti è qualcosa di sorprendentemente vivido e autentico. Un universo narrativo che non cerca facili dualismi; bene e male non sono entità nette ma sfumature che si intrecciano, proprio come nella vita reale.

I protagonisti di questa storia non sono eroi perfetti né antagonisti assoluti: sono personaggi ambigui, profondi, sfaccettati. È proprio questa loro umanità fragile, contraddittoria, a tratti spietata a renderli tanto affascinanti. Ognuno di loro si muove in un equilibrio precario tra luce e ombra, e in questa varietà ogni lettore potrà riconoscere il proprio personaggio del cuore.

Per quanto mi riguarda, è stato l’elfo oscuro Jeven a catturare la mia attenzione sin dalle primissime pagine. La sua aura enigmatica, pervasa da un’inquietudine silenziosa e da un fascino tenebroso, mi ha completamente conquistato. C'è in lui una tensione irrisolta che affascina e inquieta allo stesso tempo, un equilibrio fragile che lo rende unico.

Da tempo non mi capitava di leggere un fantasy tanto coinvolgente: ricco di colpi di scena, sorprendente e assolutamente avvincente. È uno di quei romanzi che ti catturano sin dalle prime pagine e non ti lasciano andare fino all’ultima riga.

Il finale, aperto e carico di potenzialità, offre un epilogo soddisfacente: la storia si conclude in modo coerente, rendendo il libro perfettamente fruibile anche come volume autoconclusivo. In poche parole: non avete scuse per non leggerlo e sono certa che sarete conquistati anche voi da questo tanto mondo oscuro quanto irresistibile.

 

lunedì 2 giugno 2025

“Il furfante di Radicofani” di Alberto De Stefano

Mi sono imbattuta in questo volume e nel suo autore, con il quale ho scoperto di condividere la passione per la terra Toscana, al Salone del Libro di Torino, attratta, non tanto dalla copertina come spesso accade, quanto dal titolo. Radicofani, borgo incastonato nella bellissima Val d’Orcia lungo la Via Francigena, è celebre soprattutto per la sua imponente fortezza.

Il romanzo racconta la storia di Ghino di Tacco, nobile ghibellino della famiglia dei Cacciaconti, nato nella seconda metà del XIII secolo.

A causa delle esose richieste di pagamento imposte dalla Chiesa senese a favore dello Stato Pontificio, Ghino e il fratello Turino presero parte alle scorribande del padre e dello zio nei dintorni del castello di La Fratta, dove vivevano. Dopo la cattura e la condanna a morte dei loro parenti, Ghino e Turino, ancora minorenni, vennero risparmiati e si rifugiarono a La Fratta, salvo poi riprendere l’attività predatoria qualche anno dopo, occupando la rocca di Radicofani, considerata inespugnabile.

Della figura di Ghino di Tacco parlano sia Dante che Boccaccio. Se il secondo lo rese protagonista di una novella della decima giornata del Decameron, narrando il suo sequestro dell’abate di Cluny, il primo lo menziona nel VI canto del Purgatorio (vv. 13-14) quando, tra le anime morte per violenza, Dante incontra Benincasa da Laterina, il giurista che condannò i parenti di Ghino e che venne ucciso dal fuorilegge per vendicarli:

"Quiv'era l'Aretin che da le braccia fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte."

Ghino di Tacco è una sorta di Robin Hood ante litteram: un brigante gentiluomo, le cui azioni erano guidate da un ferreo codice d’onore. Era un ladro, sì, ma rubava solo ai ricchi, lasciando loro sempre il necessario per sopravvivere. Talvolta, arrivava persino a offrire un banchetto ai derubati prima di lasciarli andare incolumi per la loro strada.

Alberto De Stefano ripercorre le avventure di Ghino di Tacco, rielaborando il materiale storico a disposizione e trasformandolo in un racconto avvincente, dove realtà e finzione si intrecciano armoniosamente.  Pur basandosi su eventi documentati, l’autore romanza ampiamente la narrazione, arricchendola con personaggi e situazioni che amplificano la dimensione epica e avventurosa della vicenda.

Tra le tante figure di fantasia spicca Dulce, la donna amata dal fuorilegge, che aggiunge alla narrazione un pizzico di romanticismo nel ritmo serrato della storia, bilanciando l’azione con momenti di intensità emotiva.

Un avvincente romanzo storico che restituisce nuova vita a un personaggio già leggendario nella sua epoca, facendolo rivivere con intensità e fascino.

 

domenica 1 giugno 2025

“Le camelie invernali” di Ermal Meta

Nel XV secolo, il condottiero albanese Lekë Dukagjini trascrisse il Kanun, un codice di comportamento che regolava la vita individuale, familiare e sociale degli albanesi. Le sue leggi furono tramandate oralmente per secoli, ma col tempo molte caddero tutte nell'oblio, tranne una: la gjakmarrje, la vendetta di sangue.

Secondo questa norma, se qualcuno veniva ucciso, un membro della sua famiglia aveva il diritto di vendicarsi, uccidendo a sua volta un membro della famiglia dell'assassino per ristabilire l'onore. Tuttavia, donne e bambini erano esclusi dalla vendetta, che non poteva avvenire dentro casa. Questo obbligava i maschi della famiglia dell'assassino a vivere reclusi in casa, fino alla consumazione della vendetta o alla concessione del perdono da parte della famiglia della vittima.

Nel 2025, Lara, studentessa di giornalismo nata in Italia da genitori albanesi, visita per la prima volta l'Albania. Il suo obiettivo è intervistare un uomo che non esce di casa da trent'anni.

Il filo dei ricordi dell'uomo misterioso intervistato da Lara ci riporta in Albania, nel 1995. 

Halil e Rozafa vivono nel dolore per la scomparsa della loro figlia, svanita nel nulla anni prima. Incapaci di trovare pace, riversano tutto il loro amore sull'altro figlio, Uksan. Samir è il suo migliore amico, i due ragazzi sono inseparabili. La vita di Samir è segnata da un ambiente familiare difficile: un padre violento e sempre ubriaco che picchia la moglie, e degli zii che impongono la loro autorità con prepotenza.

In un crudele gioco del destino, sarà proprio Samir a dover versare il sangue di Uksan per rispettare la legge del Kanun e preservare l'onore della sua famiglia.

Ho affrontato questo secondo romanzo di Ermal Meta con un po’ di timore, dopo aver amato il suo esordio letterario Domani e per sempre. Anche questa storia è coinvolgente, seppur in modo diverso. Non ho ritrovato i richiami ai testi delle sue canzoni presenti nel primo romanzo, ma, conoscendo e apprezzando la sua musica, non ho potuto ignorare il dettaglio della bambina scomparsa che porta il nome di Nina. Inoltre, nelle pagine iniziali, mi è tornata in mente l’immagine della cavallina storna che portava colui che non ritorna, un ricordo poetico intenso. Alcune frasi, poi, mi hanno evocato gli scritti di Tolstoj, senza un motivo preciso. Non c’è alcun legame diretto con l’autore o con la storia, solo mie sensazioni che emergono spontaneamente.

Con questo secondo romanzo, Ermal Meta conferma il suo talento nel narrare storie avvincenti e nel creare personaggi profondi e autentici, capaci di entrare nel cuore del lettore.  

La sua abilità nel delineare i caratteri dei protagonisti li rende vivi e reali. La struttura narrativa con continui flashback non distrae, ma mantiene alta l’attenzione, facendo sì che nulla venga perso nella storia.

È un racconto intenso e potente, un pugno nello stomaco, ma che allo stesso tempo lascia spazio alla tenerezza: la determinazione di due ragazzi nel voler vivere, il momentaneo abbassarsi di una maschera, un amore che, pur profondo, non può essere confessato. Dolcezza e tristezza danzano insieme nella sofferenza, intrecciandosi in un equilibrio dove i confini tra luce e ombra sfumano, perché nulla può esistere soltanto in bianco o in nero.

Una storia dura e crudele, che si sviluppa in un climax di emozioni e tensione, un susseguirsi di colpi di scena fino a un epilogo inaspettato. 

Un epilogo che lascia un senso di amarezza, ma che appare inevitabile. Un finale che si vorrebbe diverso, perché violenza e ingiustizia dovrebbero essere sempre sconfitte, eppure continuano a ripetersi nel tempo, dimostrando che l’umanità, forse, non impara mai dai propri errori.



giovedì 29 maggio 2025

“Ottaviano de’ Medici e gli artisti” di Anna Maria Bracciante

Il mio incontro con il libro di Anna Maria Bracciante è stato del tutto casuale, ma si è rivelato una scoperta affascinante, capace di gettare luce su un personaggio poco noto della famiglia Medici: Ottaviano de’ Medici. Questo volume ci parla di una figura che ha operato nell'ombra, lasciando però una significativa eredità culturale.

Ottavio de’ Medici (1482-1546) apparteneva a un ramo cadetto della dinastia, discendente di Giovenco di Averardo. Suo padre, Lorenzo, fu stretto collaboratore di Lorenzo il Magnifico, risiedeva di fronte alla chiesa di San Marco e nel 1504 si iscrisse all’Arte della Lana. Ottaviano si mantenne distante dalla scena politica per i  primi quarant’anni della sua vita, lasciando spazio ai suoi fratelli e preferendo dedicarsi agli affari di famiglia, così da avere più tempo libero per coltivare i propri interessi culturali.

Il suo legame con i Medici fu saldo e profondo, intrecciando amicizie con Leone X e Clemente VII. Quest'ultimo lo scelse per incarichi di fiducia, affidandogli l’amministrazione dei beni medicei e l’educazione di Alessandro e Ippolito durante il loro soggiorno fiorentino. Per un breve periodo, fu anche tutore della giovane Caterina de’ Medici, destinata a diventare regina di Francia.

Pur nutrendo affetto per Cosimo I de’ Medici, durante il governo di questi, Ottaviano preferì ritirarsi dalla scena politica a causa della sua diversa concezione del mecenatismo. Mentre Cosimo considerava l’arte uno strumento di propaganda per rafforzare l’immagine del principe, Ottaviano ne aveva una visione più vicina a quella di Lorenzo il Magnifico, ritenendola un mezzo di formazione culturale ed etica. La sua idea di mecenatismo implicava un’affinità spirituale con gli artisti che sosteneva, un rapporto basato sulla condivisione di valori e aspirazioni piuttosto che sulla mera commissione di opere.

Ottaviano ebbe un ruolo di primaria importanza nella supervisione amministrativa della Villa di Poggio a Caiano, dimostrando una notevole capacità organizzativa e gestionale. In particolare, la sua influenza si rivelò determinante nella selezione di almeno due artisti di grande rilievo: Andrea del Sarto e il Franciabigio, entrambi fondamentali nella decorazione e realizzazione delle opere pittoriche della villa.

La sua vicinanza agli ambienti artistici del tempo lo portò a sviluppare profondi legami con alcune delle figure più eminenti del Rinascimento fiorentino. Fu non solo amico, ma anche un fervido sostenitore di Andrea del Sarto e Lorenzo di Credi, offrendo loro protezione e opportunità per esprimere pienamente il loro talento. Tuttavia, uno dei rapporti più significativi che intrattenne fu quello con il giovane Giorgio Vasari, che lo considerava una sorta di mentore e guida intellettuale. Grazie alla sua influenza e ai suoi consigli, Vasari poté affinare il proprio percorso artistico e intellettuale, gettando le basi per la sua carriera di pittore e storico dell’arte.

Il libro di Anna Maria Bracciante analizza con grande precisione le committenze artistiche di Ottaviano e il suo rapporto con gli artisti dell’epoca, dipingendo il ritratto di un uomo discreto ma influente.

Sebbene le sue tracce possano sembrare effimere nella grande storia, la sua impronta è rimasta viva nelle opere che contribuì a far nascere e nei pensieri di coloro che lo amarono e ne riconobbero la grandezza, da Andrea del Sarto a Pietro Aretino, da Giorgio Vasari a tanti altri.

Un libro che riscopre un protagonista dimenticato, ma essenziale, della cultura rinascimentale.



domenica 11 maggio 2025

“Il paggio e l’anatomista” di Walter Bernardi

La corte granducale di Ferdinando II de’ Medici fu un luogo di straordinario fermento culturale e scientifico, in cui l’Accademia del Cimento e l’Accademia della Crusca rappresentavano centri nevralgici di sperimentazione e innovazione. Tuttavia, dietro la facciata di progresso e ricerca, si celavano dinamiche di potere, rivalità e intrighi degni di una tragedia teatrale.

In quella corte, fortemente improntata al maschilismo, si muovevano personaggi dalle vite complesse e spesso contraddittorie: un ambiente dove l’omosessualità, seppur palesemente diffusa, non veniva mai apertamente dichiarata. 

Il desiderio di prestigio alimentava incessanti lotte interne, in cui la delazione e le maldicenze erano strumenti di guerra quotidiana. Non c’era scrupolo nel colpire gli avversari con ogni mezzo possibile, mentre la scienza conviveva con passioni e vendette in un intrico inestricabile di sapere e potere.

Tra i protagonisti di questa storia spicca il conte Bruto della Molara, amante per vent’anni del granduca Ferdinando II, figura enigmatica la cui influenza si intrecciava inesorabilmente con la politica e la vita di corte.

Altro protagonista della scena era Francesco Redi, il medico granducale, scienziato e letterato, uno degli ultimi ingegni veramente enciclopedici della cultura italiana.

Attorno a loro si animava un firmamento di studiosi, un mosaico di menti eccelse che trovavano nella corte medicea il luogo ideale per dare forma alle loro intuizioni: Vincenzo Viviani, devoto allievo di Galileo; Lorenzo Magalotti, sofisticato intellettuale e diplomatico; Giovanni Alfonso Borelli, pioniere della fisiologia e della fisica; Nicola Stenone, lo scienziato che avrebbe rivoluzionato la geologia. Nomi che hanno attraversato il tempo, lasciando un’eredità che superava le vicissitudini personali, accompagnando la corte fino agli anni di Cosimo III.

La corte di Ferdinando II de’ Medici non fu dunque soltanto un cenacolo di sapere, ma anche un teatro di passioni umane, dove ambizione, talento e desiderio si mescolavano in un affresco vibrante di luci e ombre.

Il saggio di Walter Bernardi ci invita a guardare questi uomini sotto una luce diversa. Non più come icone irraggiungibili, ma come esseri umani, immersi nelle loro contraddizioni, nelle loro lotte interiori, nella loro sete di conoscenza mescolata all’ambizione.

Attraverso un’attenta ricerca, l’autore riporta frammenti di corrispondenza che svelano il volto nascosto di questi protagonisti della scienza. Le lettere diventano testimonianze di dissidi, di confronti feroci, di alleanze e tradimenti, di dubbi che precedono ogni grande scoperta.

Bernardi suggerisce che molto è ancora celato negli archivi, che il passato non ha ancora rivelato tutti i suoi segreti. Il suo lavoro è più di un racconto storico: è un viaggio nei meandri dell’umano, un invito a leggere il passato con occhi nuovi, a riconoscere che il genio non esiste senza il suo contesto, senza le passioni, senza le fragilità che lo rendono profondamente autentico.