domenica 8 dicembre 2013

“Lasciando casa” di Anita Brookner

LASCIANDO CASA
di Anita Brookner
NERI POZZA
La storia si svolge alla fine degli anni Settanta, Emma Roberts ha 26 anni e vive con la madre a Londra.
Il padre è morto quando lei aveva solo otto anni e da allora la madre vive la sua condizione di rispettabile vedovanza trascorrendo le giornate immersa nella lettura.
Oppressa dall’amore della madre, Emma capisce che è giunto il momento di vivere la propria vita e, per uscire dal suo stato di angoscia e solitudine, decide di accettare una piccola borsa di studio. Grazie a questa offerta, si trasferisce a Parigi dove potrà concludere i suoi studi sui progetti dei giardini ideali del Sei e del Settecento.
Da sola, nella capitale francese, Emma deve affrontare per la prima volta le sue paure e superare quel senso di inadeguatezza e di incapacità che non la abbandonerà per tutta la vita.
Il processo di emancipazione non si rivela così semplice come aveva immaginato e nonostante l’amicizia di Françoise Desnoyers, una giovane irrequieta bibliotecaria dalla vita turbolenta, e di Michael, un ragazzo schivo e riservato, Emma rimane schiava del suo modo di essere sobrio ed ordinato.
Durante il suo soggiorno a Parigi, la madre muore improvvisamente ed Emma è costretta a rientrare a Londra.
Dopo un primo momento di smarrimento, la ragazza prende coscienza che la sua vita è ora radicalmente cambiata.
Pur non afflitta da preoccupazioni economiche, grazie alla lungimiranza della madre che le ha lasciato del denaro, è però ben consapevole che ormai è giunto il momento di affrancarsi da una mentalità adolescenziale per entrare definitivamente nella fase adulta.
Proprio in questo periodo conosce Philip Hudson, un medico che ha il doppio dei suoi anni, con il quale inizia una relazione basata non sulla passione ma sull’amicizia ed il rispetto reciproco.
Un rapporto tra due persone mature e malinconiche che hanno entrambe bisogno dei loro spazi. Il loro non è amore ma piuttosto l’unione di due solitudini.
                                  
“Lasciando casa” è il racconto di un viaggio all’interno di sé stessi. Quello di Emma è un viaggio introspettivo, un percorso che lei sente di dover compiere per conoscere sé stessa nel tentativo di superare le proprie paure e le proprie insicurezze. Emma deve affrontare l’incapacità di relazionarsi con il prossimo se vuole crescere come persona.
La vera conquista sarà proprio riuscire ad accettarsi per quello che si è, con i propri limiti e le proprie ansie; ritagliandosi i propri spazi certo, ma senza rinunciare totalmente alla compagnia degli altri nonostante la difficoltà a misurarsi con la società.

Sono più o meno a mio agio, più o meno contenta: non tutti sono nati per interpretare un ruolo eroico. L’unica ambizione realistica è vivere nel presente.

“Lasciando casa” è un libro raffinato ed intenso, un libro che fa riflettere.
La storia scorre lentamente sottolineata da un flusso costante di pensieri e riflessioni della protagonista, ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il romanzo non risulta mai noioso, monotono o ripetitivo.
Anita Brooker è bravissima a rendere partecipe il lettore e a far sì che egli indaghi quegli stessi conflitti e disagi interiori sui quali si interroga la protagonista della storia.

Definizione perfetta quella del New York Times Book Review “un romanzo magnifico, profondo ed elegante”.


domenica 1 dicembre 2013

“Acquanera” di Valentina D’Urbano

ACQUANERA
di Valentina D’Urbano
LONGANESI
"Dieci anni senza mai tornare.
Quando arrivo è quasi mattina e piove, una pioggia di traverso, gelida, che ti taglia la faccia.
A Roccachiara è sempre così. Fa freddo e piove, oppure l’umidità è talmente densa che fa lo stesso, è come se piovesse.
Mi incammino per la via principale del paese e tutto è uguale a come mi ricordavo, sembra una fotografia, non cambia mai. Le case costruite una addosso all’altra, le inferriate dei negozi ancora chiusi, le stesse insegne di trent’anni fa. Le strade strette e desolate, i vicoli con le fioriere appese accanto alle porte.
Non c’è nessuno, solo la pioggia.
Tutto il resto è il silenzio.
Dicono che tutto questo silenzio provenga dal lago. Si solleva come nebbia, si spande per il paese, soffoca tutti i rumori."

Inizia così “Acquanera” il secondo romanzo di Valentina D’Urbano pubblicato nel 2013 da Longanesi ad un solo anno dall’uscita del suo libro d’esordio “Il rumore dei tuoi passi”.

“Acquanera” è la storia di tre donne: Elsa (la nonna), Onda (la madre) e Fortuna (la figlia).
Tre generazioni di donne straordinarie e dotate di particolari capacità, legate tra loro non solo da vincoli di parentela ma anche da segreti inconfessati.
Il romanzo si apre con il ritorno in paese dopo dieci anni di assenza di Fortuna.
Roccachiara è un luogo totalmente nato dalla fantasia dell’autrice, un paese chiuso tra la montagna alle sue spalle ed il lago più in basso, uno specchio d’acqua scura e minacciosa circondato da fitti boschi. Unica indicazione geografica è la vicinanza con il confine austriaco.
A richiamare al paese natio Fortuna è il ritrovamento dei resti di una donna, molto probabilmente quello che resta del corpo della sua amica Luce, scomparsa proprio dieci anni prima.
Il passato si riaffaccia prepotentemente nella vita di Fortuna che, nonostante abbia provato nel corso degli ultimi anni a lasciarsi tutto alle spalle, deve inevitabilmente affrontarlo facendo i conti con  ricordi e sentimenti sepolti ma mai completamente sopiti.

“Acquanera” è una storia affascinante e inquietante. Un romanzo misterioso come misteriose sono le sue protagoniste.
Pur trattandosi di una storia “fantastica”, il cui filo conduttore è il paranormale: Elsa avverte la presenza degli spiriti dei trapassati, Onda è una medium che dialoga con loro e la stessa Fortuna non è del tutto priva di doti particolari delle quali non voglio anticiparvi nulla…nonostante gli eventi fuori dal comune narrati nel romanzo, i personaggi riescono ad essere dolorosamente reali.

Elsa è una donna forte, custode di una sapienza antica, una madre spaventata dalla propria figlia ma allo stesso tempo una nonna preoccupata e amorevole.
Onda, costretta da Elsa a portare a termine la gravidanza, non riuscirà mai ad amare la figlia. E’ assolutamente priva di istinto materno, è una donna che rifiuta totalmente la maternità. La sua è una personalità selvaggia, asociale e difficile.
Fortuna da bambina cerca in ogni modo di essere accettata e amata da Onda ma crescendo prende coscienza dell’impossibilità che il suo desiderio si possa avverare. E’ una ragazzina emarginata e sola fino a quando incontrerà Maria Luce, la sua amica “per sempre”, la figlia del becchino del paese, una bambina abituata a vivere nell’ombra. Luce come Fortuna è discriminata e rifiutata dalla società. Tutti hanno paura di lei e una volta cresciuta, pur diventando una bellissima ragazza, in paese continueranno a temerla e ad evitarla.

La storia mi ha ricordato a tratti un celebre film del 1999 con Bruce Willis intitolato “Il sesto senso” dove il bambino protagonista è continuamente circondato da anime vaganti che vogliono comunicare con lui. La scena in cui Cole Sear dice al Dr. Malcolm Crowe “vedo la gente morta” mi è tornata subito in mente quando Onda viene condotta dallo spirito del nonno Angelo sulle sponde del lago.
Un’altra immagine poi mi ha riportata al mondo del cinema: il momento in cui Fortuna vede per la prima volta Luce, l’apparizione della bambina “fantasma” bianca e grigia e nera che siede a gambe incrociate su una tomba sembra proprio uscita da un film di Tim Burton.

Attraverso una prosa asciutta e scorrevole, Valentina D’Urbano riesce ad incatenare il lettore alle pagine rendendogli quasi impossibile interromperne la lettura. Al lettore attento inoltre non possono sfuggire tutti gli indizi che la D’Urbano sapientemente inserisce all’interno della storia e che anticipano i colpi di scena finali.

 “Acquanera” è un romanzo affascinante e avvincente, una lettura che vi coinvolgerà emotivamente dalla prima all’ultima pagina.                                                                                       



domenica 24 novembre 2013

“Angel” di Elizabeth Taylor (1912 -1975)

ANGEL
di Elizabeth Taylor
BEAT
Edizione originale NERI POZZA
Elizabeth Taylor (omonima della celebre attrice) è una scrittrice britannica tra le più amate del Novecento. I suoi romanzi sono stati spesso accostati a quelli di E. M. Forster (1879 – 1970) per il modo di rappresentare sia l’ambiente della media borghesia sia quello delle realtà sociali più povere.
E’ stato scritto inoltre che le sue opere ricordano quelle di un’altra grande autrice inglese tanto che il San Francisco Chronicle l’ha definita proprio la Jane Austen del XX secolo”.

A convincermi del fatto che dovessi assolutamente leggere questo libro sono state la curiosità suscitata dalle note sull’autrice e la sinossi nella quarta di copertina “In uno di quei villaggi dickensiani della vecchia Inghilterra, vive Angel Deverell (…)
Il romanzo però si è rivelato molto lontano dalle mie aspettative. Non sono rimasta assolutamente delusa dal libro, davvero ben scritto, ma piuttosto sorpresa perché mi ero immaginata tutt’altro sviluppo della storia e soprattutto una protagonista completamente diversa.

Angel Deverell è una ragazzina quindicenne indolente e indisponente. Vive con la madre vedova, una donna dolce e mite, proprietaria di una drogheria. Angel, che grazie agli sforzi economici della madre e della zia frequenta una scuola privata, non riesce ad accettare di dover vivere al limite dell’indigenza. Vive nel suo mondo fantastico, in una realtà parallela creata dalla sua immaginazione: sogna di essere ricca, una vera lady e di vivere in una casa splendida, Paradise House, quella stessa villa dove lavora a servizio sua zia Lottie.
Sempre più esasperata dal rapporto conflittuale con la madre, Angel lascerà la scuola per rincorrere il suo sogno: diventare una scrittrice. Angel non solo riuscirà a pubblicare i suoi romanzi ma grazie a questi guadagnerà tanto da potersi permettere di comprare quella stessa casa che aveva occupato le sue fantasie giovanili.

Angel Deverell ha davvero poco dell’eroina. Fin dalle prime pagine è una ragazzina sfuggente, anaffettiva e superba. Il modo di rapportarsi con la madre, il trattamento che riserva a questa sconvolge il lettore turbandolo profondamente, perché l’astio che Angel prova nei confronti della madre è qualcosa che va al di là della classica animosità adolescenziale nei confronti di un genitore.
Angel diventerà donna, ma la sua corazza diventerà sempre più dura. Grazie al suo carattere inflessibile, al rigore e alla severità che la contraddistinguono riuscirà a raggiungere il successo e persino a sposare l’uomo tanto desiderato ma nulla di tutto questo riuscirà a salvarla dalla sua solitudine.
Angel Deverell è una donna egoista ed egocentrica, incapace di mostrare i propri sentimenti agli esseri umani e proprio per questo motivo ama circondarsi di ogni specie animale: cani, gatti, pavoni, pony….
La realtà è sempre filtrata attraverso la sua fantasia: il suo matrimonio è perfetto perché lei lo vuole vedere tale, non si rende conto che il “suo” Esmé non è vero, ma è solo una proiezione della sua fantasia e del suo desiderio. Persino quando il tradimento di questi sarà evidente, si aggrapperà con tutte le sue forze alla finzione per cancellare l’ovvio e continuare a rifugiarsi nella menzogna.

Non si può amare Angel, ma nel corso della storia si impara a provare compassione per lei e l’astio che il lettore prova nelle prime pagine per la ragazzina insensibile e viziata, lascia il posto alla commiserazione nei confronti della donna esigente e fredda che non riesce ad aprirsi al prossimo perché incapace di ammettere di aver bisogno di amore.
Angel nella sua vita ha sempre cercato approvazione e adulazione, mai affetto e comprensione; è una donna che solo verso la fine riuscirà ad ammettere, stupendosene lei stessa, di aver paura di restare sola:

“Mi sentivo sola” rispose Angel, e quelle parole la sorpresero.

Si può apprezzare un romanzo anche senza averne amato la protagonista? Certamente sì.
Non posso dire se “Angel” sia il romanzo più o meno riuscito tra quelli scritti da Elizabeth Taylor perché è il primo ed unico libro ad oggi che io abbia letto di questa autrice.
“Angel” è però sicuramente una storia interessante e coinvolgente i cui personaggi sono descritti in maniera magistrale. 
Elizabeth Taylor approfondisce la psicologia di tutti i suoi soggetti, non solo quella della controversa e altezzosa protagonista, ma anche quella dei i co-protagonisti come la fedele e innamorata Nora, il devoto e compassionevole Theo, il debole e mediocre Esmé; senza tralasciare di caratterizzare i personaggi con un ruolo minore tra cui la lungimirante e gelosa Hermione, moglie di Theo o la sorella della madre di Angel, Zia Lottie.

L’ultima parte del romanzo in cui viene descritto il declino della villa e del giardino che fanno da cornice al declino fisico della protagonista sono davvero toccanti così come sono commoventi le immagini della due anziane donne, Angel e la cognata Nora, che trascorrono le loro solitarie serate nelle fatiscenti stanze di Paradise House.
Impossibile non richiamare alla mente le pagine di un grande romanzo dell’Ottocento, ovvero Grandi Speranze di Charles Dickens, con la descrizione di Miss Havisham e della sua enorme casa in decadenza.

Dal romanzo è stato tratto un film nel 2007 diretto da François Ozon in cui Romola Garai interpreta il ruolo principale di Angel.
Non ho avuto la possibilità ancora di vedere il film ma la mia impressione dalla breve visione del trailer è che, come spesso accade nelle trasposizioni cinematografiche dei romanzi, la Angel di  François Ozon sia un personaggio molto distante dalla Angel di Elizabeth Taylor.
Ad ogni modo non resterò con questa curiosità a lungo perché conto di vedere “Angel  - La vita, il romanzo” quanto prima.


domenica 17 novembre 2013

“La figlia del boia” di Oliver Pötzsch

LA FIGLIA DEL BOIA
di Oliver Pötzsch
BEAT
Edizione originale NERI POZZA
Il romanzo è ambientato nella Baviera del 1659, nei giorni che precedono la notte di Valpurga (la notte del 30 aprile), conosciuta anche come la notte delle streghe nelle vecchie tradizioni germaniche, ed il primo maggio, giorno di festa in cui si celebrava l’arrivo della primavera.

A Schongau, città commerciale posta su una collina lungo le rive del fiume Lech, viene ritrovato il cadavere di un bambino. Il piccolo, di nome Joseph Grimmer, era il figlio di un barcaiolo.
Ad essere accusata dell’efferato delitto è la levatrice del paese, Martha Stechlin. 
Le ragioni che inducono il consiglio della città ad accusare la donna sono principalmente due.
La prima è che il ragazzino era solito trascorrere i pomeriggi da lei insieme ad altri quattro bambini (due maschi e due femmine), la seconda è che sul corpo di Joseph Grimmer è stato rinvenuto un simbolo legato al mondo “magico”.
La levatrice viene quindi incarcerata con l’accusa di stregoneria.
Il boia del paese, Jacob Kuisl, descritto come un uomo di corporatura massiccia, dalla chioma irsuta e dalla barba incolta, non crede alla colpevolezza della donna e decide con l’aiuto del medico, Simon Fronwieser, figlio del medico del paese di scagionare la Stechlin.
Alle loro indagini prenderà parte anche Magdalena Kuisl, la figlia ventenne del boia, una ragazza tanto bella quanto intelligente e testarda innamorata di Simon e da questi ricambiata.
La loro storia è contrastata non solo dai genitori ma è anche malvista dai concittadini che non possono accettare che “la figlia di un boia” frequenti una persona rispettabile.
Il boia e la sua famiglia, infatti, sono considerati dalla società come persone da emarginare e da isolare. Il carnefice compie il suo lavoro, è una figura necessaria alla società, ma terminato il suo compito, non può essere considerato una persona degna di essere frequentata.

Pochi sono gli indizi che all’inizio l’autore ci offre per cercare di risolvere il caso: il simbolo tatuato sul piccolo che riconduce all’ambito della stregoneria, il fatto che tutti e cinque i bambini coinvolti siano orfani e quattro di loro siano affidati a famiglie adottive ed infine la rivalità che corre tra la cittadina di Schongau e un’altra cittadina commerciale, la città di Augusta.

“La figlia del boia” è solo il primo di una serie di romanzi scritti da Oliver Pötzsch.
La saga in Germania è già arrivata al suo quarto capitolo, mentre in Italia la casa editrice Neri Pozza ha pubblicato da poco il secondo libro intitolato “La figlia del boia e il monaco nero”.
Vi tranquillizzo subito dicendovi che questo primo volume non implica necessariamente la lettura del secondo capitolo della saga, a meno che ovviamente non siate voi a scegliere di proseguire.
“La figlia del boia” è a tutti gli effetti un libro completo.

Non fatevi sviare dal titolo: il vero protagonista della storia è Jacob Kuisl, mentre la figlia Magdalena è piuttosto una co-protagonista insieme al suo innamorato Simon Fronwieser.
La figura di Jacob Kuisl è una figura affascinate, un uomo temuto ed emarginato, al quale però i concittadini non disdegnano di rivolgersi in caso di necessità.
Egli è esperto di erboristeria e grande conoscitore dell’animo umano: due qualità che lo rendono più competente e capace di qualunque medico nel curare il corpo umano.

Vi chiederete perché Oliver Pötzsch abbia deciso di scrivere di un personaggio tanto singolare quanto può esserlo un boia.
Oliver Pötzsch, nato nel 1970, a Monaco di Baviera è in realtà lui stesso discendente dei Kuisl, la dinastia dei boia a cui appartiene il protagonista del romanzo.
Dopo la morte del cugino di sua nonna, tale Fritz Kuisl, un uomo ossessionato per tutta la vita dalla storia di famiglia, Pötzsch ha la possibilità, grazie alla moglie del defunto parente, di consultare l’immensa quantità di documenti e materiale da lui raccolti nel corso della sua esistenza.
Da qui, proprio da questa raccolta di testimonianze, cronache, resoconti, alberi genealogici, nasce l’idea del romanzo.
L’ambientazione de “La figlia del boia” si basa quindi su dati scientifici e storici dettagliati e reali mentre la trama e alcuni personaggi, tra cui la figura di Simon Fronwieser, nascono totalmente dalla fantasia di Oliver Pötzsch.

Il libro non è solo un romanzo storico, ma nasce da una contaminazione di generi diversi: storico, giallo e thriller.
Il ritmo del racconto si adatta perfettamente all’andamento della narrazione, più lento nelle pagine in cui i protagonisti cercano di far quadrare i vari tasselli dell’indagine per diventare poi incalzante col precipitare degli eventi. La tensione narrativa è comunque sempre alta ed il racconto non è mai noioso. 

“La figlia del boia” è un romanzo originale che ci regala un ampio quadro della società dell’epoca, spesso corrotta e folle, ma soprattutto schiava della superstizione e della sete di guadagno.



lunedì 11 novembre 2013

“Vecchi amici e nuovi amori. Immaginario seguito dei romanzi di Jane Austen” di Sybil G. Brinton (1874 – 1928)

VECCHI AMICI E NUOVI AMORI
Immaginario seguito dei romanzi di Jane Austen
di Sybil G. Brinton
JO MARCH 
C’è una caratteristica propria di quasi ogni coppia felicemente sposata – ovvero il desiderio di vedere matrimoni altrettanto felici tra i propri giovani amici; e in alcuni casi, laddove questo desiderio è forte e le circostanze appaiono favorevoli alla buona riuscita dei loro sforzi, accade che essi si imbarchino nella pericolosa ma piacevolissima impresa di aiutare quelle persone ancora incerte, a prendere una decisione riguardo a questo passo così importante della vita, e fatto ciò, si prodighino a rimuovere ogni ostacolo affinché questa decisione possa celermente tradursi in azione.

Già dall’incipit del romanzo risulta evidente che quello scritto di Sybil G. Brinton è uno di quei libri che vi coinvolgerà talmente da riuscire a tenervi letteralmente incollati alle pagine. 
Farete davvero fatica a posarlo anche solo per un minuto.
Purtroppo però, quando giungerete all’ultima pagina, rimpiangerete di non essere stati in grado di “dosarne” la lettura, poiché la parola fine arriverà inevitabilmente troppo presto.

Non sono mai stata particolarmente attratta dai derivati e dai sequel delle opere austeniane che, tranne in rari casi come per "La trilogia di Fitzwilliam Darcy" di Pamela Aidan, ho trovato del tutto superflui e inutili.

Mi rendo conto che eguagliare la “cara zia Jane” sia impossibile, ma forse proprio per questo sono rimasta affascinata dal libro della Brinton, primo vero sequel dei romanzi austeniani, pubblicato per la prima volta nel 1913.
Questa autrice riesce davvero a farci rivivere le emozioni che abbiamo vissuto con i libri della Austen.  Bisogna senza dubbio riconoscerle il grande merito di essere in grado fin dalle prime righe di trasportarci nel mondo magico dei personaggi austeniani.
Tutti ricordiamo gli incipit dei romanzi di Jane Austen, la loro forza e la loro incisività, ma l’incipit del libro di Sybil G. Briton non ha nulla da invidiare a quelli scritti dall’autrice da lei e da noi tanto amata.

La scelta del titolo è più che azzeccata, perché proprio di nuovi amori e vecchi amici si tratta per tutti noi Janeites che, con grande entusiasmo e partecipazione, siamo felici di poter ritrovare, anche se per breve tempo, tutti i personaggi che ci hanno fatto emozionare con le loro storie nei sei romanzi canonici della Austen.

La bravura della Brinton sta proprio nella sua capacità di far rivivere tutti i personaggi dei romanzi austeniani in un unico romanzo, creando per loro credibilissimi collegamenti di parentele, amicizie e conoscenze, così che la narrazione non risulti mai forzata.

Ottima la scelta di incentrare le storie d’amore sui personaggi che nei romanzi della Austen non erano i veri protagonisti, ma solo co-protagonisti o personaggi secondari.
Certo ognuno di noi avrebbe magari voluto leggere qualcosa di più del suo protagonista preferito, per quanto mi riguarda ad esempio sarei stata felicissima di avere qualche notizia maggiore di Mr. e Mrs. Wentworth ma sarebbe stato un errore e la Brinton è stata abilissima ad evitarlo.

Ciascuno di noi inoltre sarà felice o meno di ritrovare alcuni personaggi. Da parte mia ho sempre detestato Kitty Bennet (Orgoglio e Pregiudizio) e, per quanto la Brinton cerchi nelle sue pagine di dare risalto alla sua esuberanza più che alla sua personalità superficiale ed inconsistente, non riesco proprio a farmela piacere.
Ma ripeto, questi sono giudizi personali, ognuno ha le sue simpatie e antipatie…Devo rendere ad esempio merito alla Brinton di essere riuscita a farmi riconciliare con il personaggio di Mary Crawford (Mansfield Park)…ma la cosa che più ho apprezzato è poter leggere finalmente di Georgiana Darcy (Orgoglio e pregiudizio), l’adorata sorella di Mr. Darcy, una figura della quale ho sempre desiderato conoscere qualcosa di più.

Sybil G. Brinton ha cercato, oserei dire con soddisfacenti risultati, di riprodurre il più fedelmente possibile lo stile di Jane Austen, ma un plauso in questo senso va anche alla traduttrice ed alle curatrici del testo italiano che sono state bravissime a restare fedeli non solo all’originale del testo della Brinton ma anche alla tradizione italiana delle traduzioni austeniane.

Potrei andare avanti per ore a parlarvi di questo libro, ma non voglio rovinarvi la sorpresa. Posso solo dirvi leggetelo...leggetelo…leggetelo…

Un suggerimento: Natale è alle porte e, se avete amiche e amici che adorano Jane Austen, quale regalo più indovinato di una copia di “Vecchi amici e nuovi amori”?

Colgo l’occasione per ringraziare ancora una volta Valeria Mastroianni e Lorenza Ricci della Jo Mach Agenzia Letteraria che, con la collana Atlantide, riescono a donarci sempre delle autentiche perle pescando nei profondi oceani della letteratura dimenticata…

Vi ricordo della collana Atlantide:



giovedì 7 novembre 2013

“Londra. Una biografia” di Peter Ackroyd

LONDRA. UNA BIOGRAFIA
di Peter Ackroyd
NERI POZZA
Londra è una città che contiene ogni desiderio o ogni parola mai pronunciata, ogni gesto o azione mai compiuti, ogni affermazione nobile o insensibile mai pronunciata.

Londra è la città degli eccessi, è una città senza limiti. 
Londra è infinita e con lei non è possibile avere mezze misure: o la si ama perdutamente o la si odia profondamente.
Se appartenete, come me, a coloro che la adorano…allora questa monumentale biografia, un tomo di ben 668 pagine, è davvero il vostro libro.

L'opera di Peter Ackroyd, originario di Acton un quartiere nella parte ovest di Londra, è prima di tutto un atto d’amore nei confronti della propria città. 
Il suo è un progetto ambizioso che vuole celebrare il mito di Londra.

L’autore ci racconta, con la grande capacità narrativa che lo contraddistingue, la storia della città dalle origini fino ai giorni nostri, avvalendosi di una vasta bibliografia e cercando di assimilare più informazioni possibili su di essa attraverso ogni tipo di documento che la riguardi. Moltissime sono le citazioni di personaggi illustri, scrittori, filosofi, poeti, statisti…

La bibliografia su Londra è vastissima, basti pensare solo alla letteratura inglese e a come questa possa essere considerata, sotto alcuni aspetti, “letteratura londinese”. Ogni autore ha parlato di Londra: Chaucer, Dickens, Orwell, Austen… solo per citarne alcuni perché l’elenco sarebbe infinito. Per non parlare poi degli autori stranieri: Nathaniel Hawthorne, Henry James…

Londra è una città cosmopolita, una città che riesce a rinnovarsi giorno dopo giorno, ma allo stesso tempo che riesce a rimanere fedele a se stessa; una città dove il vecchio e il nuovo riescono ad integrarsi e a coesistere magnificamente.
Sir Walter Besant disse “Ho passeggiato per Londra gli ultimi trent’anni, e ho trovato qualcosa di nuovo ogni giorno”, un’affermazione condivisa da molti estimatori della città.

La cosa che colpisce di più è proprio la sua capacità di essere una nazione nella nazione e di riuscire a far sì che ogni suo abitante sia orgoglioso di appartenerle, di poter dire “io sono di Londra”.

La biografia inizia raccontando del letto di mare dell’era giurassica che ricopriva un tempo il territorio, leggiamo poi dei ritrovamenti di rinoceronti e mammut…della Londra celtica e di Londinium, la città romana…l’epoca Elisabettiana…l’epoca Vittoriana…sino ad arrivare ai due conflitti mondiali…e via via fino ai giorni nostri... il punk degli anni Settanta….gli yuppies degli anni Ottanta…

Ogni aspetto della città viene analizzato, non solo la crescita demografica o la storia dei singoli quartieri e del loro sviluppo edilizio.
Ci sono pagine dedicate alla storia del crimine (come non ricordare la vicenda Jack lo squartatore?), alla prostituzione (con numerosi riferimenti al romanzo di Daniel Defoe, “Moll Flanders”), alla violenza per le strade di Londra, al Tamigi e ai suoi affluenti tra cui il famoso Fleet, alle prigioni, al tristemente celebre manicomio di Bedlam, all’economia e al commercio, alle fiere e ai mercati, al traffico, all’amministrazione della giustizia, agli incendi, alle numerosissime chiese, alle taverne…
Sono davvero tantissimi i temi affrontati da Ackroyd per descrivere una città che egli considera una cosa viva: una grande vita che ingloba la somma di vite individuali.   

Londra sarà anche una città ingorda, rumorosa, sporca, violenta, caotica…ma è anche una città forte, orgogliosa, fiera e combattiva che non si può fare a meno di amare.
E ricordate che come il mare e il patibolo, Londra non rifiuta nessuno.



domenica 27 ottobre 2013

“All’Autunno” di John Keats


Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d'uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché
l'estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull'aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.

E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l'hai -
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.




“All’Autunno” è ritenuta da molti critici una delle più perfette poesie mai scritte in lingua inglese e forse proprio per tale motivo è oggi uno dei poemi più antologizzati in questa lingua.

Composta nel 1819 venne pubblicata nell’anno successivo e inclusa nella raccolta “Lamia, Isabella, La Vigilia di Sant’Agnese e altre Poesie”.

Dalle molte correzioni ed errori di scrittura presenti in un manoscritto senza titolo che sembrerebbe essere una prima edizione dell’ode, ne possiamo dedurre che Keats scrisse molto rapidamente queste tre stanze, preso dall’eccitazione creativa del momento. Molti, infatti, sono i cambiamenti apportati dal poeta prima di darne alle stampe la versione definitiva.

Keats compose questa poesia il 19 settembre dopo aver trascorso una piacevole e serena giornata in campagna. Le sensazioni provate quel giorno furono da lui stesso descritte in una lettera, datata 22 Settembre, al suo amico J. H. Reynolds:

"How beautiful the season is now. How fine the air -- a temperate sharpness about it. Really, without joking, chaste weather -- Dian skies. I never liked stubble-fields so much as now -- aye, better than chilly green of the Spring. Somehow, a stubble plain looks warm, in the same way that some pictures look warm. This struck me so much in my Sunday's walk that I composed upon it." 

L’ode si compone di tre stanze ciascuna di 11 versi in rima (la prima stanza ABABCDEDCCE, la seconda e la terza ABABCDECDDE), non rintracciabili nella versione tradotta che, per quanto eccellente, perde la musicalità e il ritmo dell’originale.


To Autumn

Season of mists and mellow fruitfulness
Close bosom-friend of the maturing sun
Conspiring with him how to load and bless
With fruit the vines that round the thatch-eaves run;
To bend with apples the moss'd cottage-trees,
And fill all fruit with ripeness to the core;
To swell the gourd, and plump the hazel shells
With a sweet kernel; to set budding more,
And still more, later flowers for the bees,
Until they think warm days will never cease,
For Summer has o'er-brimm'd their clammy cells.

Who hath not seen thee oft amid thy store?
Sometimes whoever seeks abroad may find
Thee sitting careless on a granary floor,
Thy hair soft-lifted by the winnowing wind;
Or on a half-reap'd furrow sound asleep,
Drows'd with the fume of poppies, while thy hook
Spares the next swath and all its twined flowers:
And sometimes like a gleaner thou dost keep
Steady thy laden head across a brook;
Or by a cider-press, with patient look,
Thou watchest the last oozings hours by hours.

Where are the songs of Spring? Ay, where are they?
Think not of them, thou hast thy music too,-
While barred clouds bloom the soft-dying day,
And touch the stubble-plains with rosy hue;
Then in a wailful choir the small gnats mourn
Among the river sallows, borne aloft
Or sinking as the light wind lives or dies;
And full-grown lambs loud bleat from hilly bourn;
Hedge-crickets sing; and now with treble soft
The red-breast whistles from a garden-croft;
And gathering swallows twitter in the skies.


La prima stanza ci racconta dei primi giorni d’autunno: la temperatura è ancora mite e la natura è tutto un'esplosione di colori e di frutti. Nella seconda assistiamo alla personificazione dell’Autunno stesso, il ritmo inizia a rallentare e la stagione viene rappresentata come una figura che con il suo falcetto è intenta a mietere, lasciando che il vento le scompigli i capelli. Nell’ultima stanza invece la stagione autunnale viene messa a confronto con quella primaverile, l’autunno sta per finire e tutto fa presagire l’arrivo dell’inverno: la migrazione delle rondini, gli agnelli nati in primavera che sono ormai cresciuti…

Non è tanto il declino dell’autunno quello che John Keats vuole cogliere con questo inno ma piuttosto l’infinito ciclo di morte e rinascita della vita e della natura.