Il libro racconta la storia
del genocidio armeno, il massacro che venne perpetrato dall’impero Ottomano tra
il 1915 e il 1918 nei confronti di questo popolo.
Una pagina di storia della quale
poco si conosce ma che, per l’elevato numero di vittime, può essere paragonata
a quella altrettanto atroce del genocidio commesso dai nazisti nei confronti
degli ebrei.
Non molto tempo fa Anny
Romand ritrova un piccolo quaderno, un breve diario, scritto da sua nonna Serpouhi
durante i terribili momenti che la videro vittima di quanto perpetrato dai
turchi nei confronti della popolazione armena.
Anny Romand decide così di
scrivere un romanzo, una sorta di diario a due voci dove alle
pagine tratte dal quadernetto di Serpouhi si alternano le pagine dedicate ai
racconti fatti dalla nonna alla nipotina.
È infatti affidato alla voce della
Anny bambina, non a quella della Anny adulta, il difficile compito di
raccontarci in prima persona gli stralci di quelle conversazioni con Serpouhi.
Allevata dalla nonna, la
piccola Anny non perdeva occasione, infatti, per ascoltarne i lunghi
racconti, nonostante gli aspri rimproveri della madre contraria che la figlia
venisse sottoposta al ricordo di tanto strazio.
Serpouhi si era
sposata giovanissima, aveva appena quindici anni. Lei avrebbe preferito poter
continuare gli studi, ma dopo la morte del padre, a causa della difficile
situazione economica della famiglia, non c'era stata per lei alternativa che
accettare quanto deciso dalla madre. Karnik si era rivelato un bravo
ragazzo e Serpouhi aveva finito per innamorarsi di lui.
Il marito
di Serpouhi venne trascinato via da casa e massacrato insieme agli
altri uomini all’inizio del genocidio.
Quasi subito venne assassinata
anche la figlia più piccola di appena quattro mesi. Serpouhi decise allora di
affidare il figlio più grande ad una famiglia di contadini turchi perché si
prendessero cura di lui, sperando in questo modo di riuscire a salvarlo.
Per due volte Serpouhi tentò
di fuggire ai suoi aguzzini fino a quando riuscì a raggiungere la costa del Mar
Nero e da qui finalmente, dopo essere rimasta a lungo nascosta, poté
imbarcarsi per Costantinopoli.
Raggiunta la salvezza la donna poté
dedicarsi al suo unico vero obiettivo ossia ritrovare suo figlio Jiraïr e
portarlo in salvo.
La prefazione del libro,
edito da La lepre Edizioni, ad opera di Dacia Maraini pone
un quesito solo all’apparenza dalla risposta semplice e scontata.
La domanda è: quando accadono fatti
tanto atroci, come appunto quanto accaduto al popolo armeno, è giusto che le
vittime continuino a raccontare senza sosta quanto avvenuto fin nei minimi dettagli
come fa Serpouhi, oppure, hanno ragione coloro che, come la madre di Anny o lo
stesso Jiraïr, preferiscono dimenticare per lasciarsi tutto alle spalle il
prima possibile?
Senza dubbio è giusto ricordare
perché solo attraverso il ricordo, prendendo coscienza di quanto accaduto, si
può scongiurare il pericolo che certe mostruosità possano ripetersi.
La memoria resta e resterà
sempre l’arma più potente che possediamo per combattere le atrocità perpetrate
nel corso dei secoli.
Eppure, leggendo le pagine di
questo libro, non si può restare indifferenti di fronte alle
remore e ai dubbi della madre di Anny.
Per quanto la bimba sia legata alla
nonna, non si può non accorgersi di quanto certi racconti dell’orrore la
tocchino profondamente e allora viene spontaneo interrogarsi se sia
giusto sottoporre questa bambina all’ascolto di tanto dolore.
Anny accanto alla nonna è costretta
a crescere in fretta, ma riesce comunque a mantenere un’innocenza e un
candore che commuovono il lettore.
La bambina mette tutto il suo
impegno per cercare di comprendere le cose dei “grandi” e per fare tesoro del
racconto di quegli eventi terribili che hanno segnato sua nonna.
Anny è la sola che voglia in
realtà ascoltare Serpouhi, agli altri non interessano i suoi tristi racconti.
Serpouhi era una donna forte e
combattiva, ma ormai è anziana e i dolori patiti ne hanno irrimediabilmente
minato il corpo e lo spirito, così la nipotina si sente in dovere di difenderla
da tutto e da tutti, compresi i venditori che vogliono imbrogliarla e le
impiegate maleducate all’Evêché.
Anny ascolta i racconti di
Serpouhi, racconti terribili e crudi, e nonostante la giovanissima età sa già
che il mondo là fuori può essere oltremodo ostile e la gente malvagia; la bimba
si immedesima così tanto in quelle narrazioni che a volte le sembra di vivere
in prima persona quei fatti e di camminare accanto a Serpouhi in quel suo
Eden trasformatosi in inferno.
L’innocenza di fronte al racconto
dell’orrore può essere racchiusa anche in queste poche righe:
Mi piace andare al cinema,
gli attori, e anche le storie, non sono tristi come quelle di nonna. Al cinema
finisce tutto bene, gli innamorati si ritrovano, i cattivi vengono sempre
puniti. Nelle storie di nonna, invece, i cattivi non vengono puniti mai,
continuano a fare del male e nessuno dice niente, nessuno glielo impedisce.
Serpouhi scrive che chi vive
sereno non potrà mai comprendere la situazione di chi soffre, solo chi ha
condiviso certe atrocità può davvero comprendere e capire.
La gente leggerà il nostro
dolore stampato nei libri, seduta in poltrona. Ma un libro potrà mai descrivere
sul serio l’insieme dei nostri dolori? Impossibile. Se ne parlerà nei salotti
fino alla prossima novità, e così le suppliche e le voci dei poveri armeni si
dissolveranno come fumo di sigaretta, e resterà solo cenere, e solo la terra ci
verrà in aiuto.
“Mia nonna d’Armenia” è un libro di
appena 125 pagine, eppure, bastano queste poche pagine per farci riflettere su
tante differenti tematiche.
Il libro di Anny Romad non
è solo il racconto della tragica storia di Serpouhi e del massacro del popolo
armeno; attraverso le pagine del suo romanzo l’autrice riesce a
dare voce anche a tutte quelle vittime che hanno vissuto sulla loro
pelle le atrocità della guerra, delle deportazioni e di ogni possibile crimine
contro l’umanità, vittime che non hanno potuto o non possono raccontarlo.