Il borgo di Vinci,
situato sulle colline del Montalbano, è circondato da vigneti ed uliveti, un
paesaggio davvero incantevole, ma non è il paesaggio ad attirare qui ogni anno i numerosi visitatori bensì il suo legame con Leonardo Da Vinci.
Il
duecentesco castello dei conti Guidi, conosciuto anche come “castello della
nave" per la sua particolare forma, è oggi la sede del museo leonardiano, un
museo dedicato al Leonardo ingegnere ed inventore.
All'interno del museo si trovano un’ampia e creativa esposizione di modelli (carri armati,
macchine volanti, macchine tessili, meccanismi ed ingranaggi vari) tutti
ricostruiti in base ai disegni e agli appunti di Leonardo oltre ad una sezione
dedicata agli studi anatomici.
Dalla torre
del castello si gode di una bellissima vista sulla campagna circostante e sul
borgo.
Vinci è un borgo curato nei minimi dettagli ed è oltremodo suggestivo passeggiare tra le incantevoli antiche
stradine che lo attraversano.
Nella chiesa
di Santa Croce, di cui qui vedete il campanile, si trova ancora oggi il fonte battesimale nel quale venne battezzato
Leonardo Da Vinci.
Purtroppo non mi è stato possibile visitarla a causa di una cerimonia in corso, una buona scusa per ritornare...
Il vero luogo
di nascita di Leonardo è però la frazione di Anchiano, a poco più di tre
chilometri da Vinci, raggiungibile sia in auto che a piedi.
Immersa negli
uliveti, la casa natale di Leonardo apparteneva alla famiglia di suo padre, Ser
Piero.
Della madre
di Leonardo non si sa praticamente nulla tranne il nome, Caterina, forse una contadina
o forse una cameriera, ma certamente una donna del popolo.
Il figlio,
seppur illegittimo, venne allevato nella casa paterna e la madre per un primo
periodo abitò insieme al bambino nella stessa casa.
Ser Piero si
sposò per ben quattro volte, dai primi due matrimoni non ebbe figli, mentre dal
terzo e dal quarto ne ebbe addirittura dodici.
Qui potrete
trovare tutte le informazioni sul museo di Leonardo a Vinci.
Sul romanzo da abbinare a questi luoghi non ho alcun dubbio.
“L’ombra di Caterina” di Marina
Marazza ci regala un autentico affresco di quella che doveva essere la vita
dell’epoca oltre ad un’immagine diversa di quel Leonardo che noi tutti siamo
soliti conoscere.
Un romanzo
creato su solide basi storiche, ma che ci racconta una storia di fantasia estremamente
affascinate e coinvolgente.
Situata nel
cuore di Roma, sulla collina del Pincio, Villa Medici deve il suo nome al
Cardinale Ferdinando de’ Medici (1549 - 1609) che la acquistò nel 1576 e ne
affidò i lavori di ristrutturazione e completamento probabilmente a Bartolomeo
Ammannati (1511- 1592).
In totale
contrasto con il disadorno aspetto esterno, Villa Medici, presenta
una facciata interna decoratissima, completamente rivestita da antichi marmi
alcuni dei quali provenienti dall’Ara Pacis.
Seguendo la
moda del suo tempo Ferdinando de’ Medici amava collezionare capolavori
dell’arte romana e infatti utilizzò parte di esso per fare decorare non solo la
facciata della villa, ma anche lo splendido giardino che si estende
ancora oggi per più di sette ettari e dal quale si può godere di una
splendida vista della Città Eterna.
Quando nel
1587 il cardinale divenne Granduca di Toscana, a seguito della morte del
fratello Francesco I, portò con sé a Firenze buona parte della sua collezione, altre
opere invece arrivarono successivamente nel capoluogo toscano per desiderio
degli eredi di Ferdinando I che nel tempo si disinteressarono sempre più della
villa sul Pincio.
I leoni
che fiancheggiano la scalea della loggia di Villa Medici sono copie del leone originale antico e
di quello di Flaminio Vacca (1538-1605) che oggi possiamo ammirare ai fianchi
della gradinata di ingresso della Loggia dei Lanzi.
Entrambe le
sculture di Villa Medici furono infatti sostituite per volere di Ferdinando I
quando decise di trasferire ed esporre gli originali a Firenze.
Copia del
gruppo dei Niobidi. Le statue originali furono trasportate nel 1770 a Firenze
dove nel 1780 trovarono collocazione in una sala a loro dedicata nella Galleria
degli Uffizi.
Quella che troviamo qui a Villa Medici è una copia dell’obelisco il cui originale oggi si può ammirare nei Giardini di Boboli a Firenze dove fu
fatto trasferire e collocare dal Granduca Pietro Leopoldo di Lorena nel 1788.
Padiglione di
Ferdinando de’ Medici decorato da Jacopo Zucchi (1541-1590)
Scorcio della
gipsoteca di Villa Medici che ospita tra gli altri anche alcuni pregevoli calchi dei rilievi della Colonna Traiana
Particolari del giardino, la loggia di
Venere
Allegoria delle Muse, Jacopo Zucchi (1584-85 circa) soffitto a cassettoni nella Stanza delle Muse
Villa
Medici nel 1804 fu acquistata dalla Repubblica Francese e da allora è sede
dell’Accademia di Francia.
La
prestigiosa istituzione oltre ad offrire residenza agli artisti, si fa anche
promotrice di numerosi eventi culturali quali concerti, convegni e mostre.
Le visite
possono essere effettuate solo con la guida e sono previsti diversi percorsi.
Ho visitato Villa Medici a luglio dello scorso anno scegliendo il percorso dedicato ai giardini e agli appartamenti; la guida era
molto preparata, il numero di partecipanti molto contenuto ed erano anche previste
delle soste per poter fare foto senza così dover perdere neppure un attimo di
spiegazione. Mi sono letteralmente innamorata di questo luogo magico nel centro di Roma, un'oasi di pace a due passi da Piazza di Spagna e da Scalinata Trinità dei Monti, una vera sorpresa.
Qui il link dove trovare tutte le informazioni per poter organizzare la visita.
Veniamo
infine al libro da abbinare, direi “I Medici” di G.F. Young". Una pubblicazione
non recentissima, senza dubbio filomedicea, ma che resta comunque per me il volume più
esaustivo che abbia letto sulla dinastia fiorentina sia per
quanto riguarda gli esponenti del ramo primogenito della famiglia sia per
quello secondogenito, o cadetto che dir si voglia, che si estinse nel 1743 con
la morte di Anna Maria Ludovica, “Ultima
della stirpe reale dei Medici”, come si legge sulla sua tomba.
Filo
conduttore della storia è un antico
violino del Seicento opera del famoso liutaio Jakob Stainer.
La particolarità
di questo strumento è una testina
antropomorfa intagliata sul cavigliere al posto della chiocciola tradizionale.
Il violino viene acquistato ad un’asta
di strumenti musicali di Christie’s da un ricco e distinto signore.
Il giorno successivo all'acquisto lo strumento viene consegnato al nuovo proprietario nell'hotel dove questi è alloggiato e dove qualche ora dopo si presenta un uomo che dice di essere uno scrittore intenzionato ad acquistare il violino.
La
motivazione addotta come giustificazione per una tale insolita richiesta è che
lo strumento sarebbe stato per lui l’unica prova della veridicità di una storia
singolare raccontatagli l’anno prima da un uomo conosciuto per caso.
Lo scrittore inizia il suo racconto.
Una sera in un’osteria viennese aveva assistito alla performance di un artista di strada dal talento straordinario, questi, che si
sarebbe poi presentato con il nome di Jenő Varga,
quel giorno aveva eseguito su sua richiesta un pezzo difficilissimo per
qualunque violinista, la Ciaccona
di J.S. Bach, e lo aveva eseguito in modo oltremodo impeccabile.
Il giorno
successivo all'incontro, lo scrittore che si trovava a Vienna per le
celebrazioni del trecentesimo anno della nascita di Bach, aveva deciso che
doveva assolutamente saperne di più su quello strano personaggio e così si era
messo alla ricerca dell’uomo che ovviamente, solo per puro caso, era stato in grado di
ritrovare.
Il violinista iniziò su richiesta dello
scrittore a raccontare la sua storia.
JenőVarga era originario di
Nagyret, un paese
dell’Ungheria al confine con l’Austria e la Slovenia.
Figlio naturale, viveva solo con la
madre; del padre nonconosceva neppure il nome
anche se in età adulta avrebbe avuto poi modo di farsi un’idea della sua
identità.
L’unico ricordo che gli rimaneva di quel
genitore mai conosciuto era un violino.
La madre di Jenő era
una bella donna e quando lui era ancora piccolo si era sposata con il suo
datore di lavoro, un uomo piuttosto ordinario, ma di buon cuore.
L’uomo si
era preso cura del bambino come se fosse stato suo figlio, ma Jenő non riusciva
a vedere in lui il padre che non aveva mai conosciuto.
Jenő sentiva
di non avere nulla in comune con quell'uomo rozzo, mentre la musica faceva
parte di lui ed il suono del violino lo faceva entrare in contatto con il suo
vero padre ovunque egli fosse.
Aveva iniziato dapprima a studiare come
autodidatta, la musica sgorgava da lui come per magia, poi gli era stato
permesso di prendere lezioni.
Jenő Varga era un talento non comune e presto aveva vinto una borsa di studio che lo aveva
portato a studiare nella più prestigiosa scuola di musica.
Il Collegium Musicum, contrariamente a
quanto ci si potesse aspettare, era un ambiente malsano dove insegnanti gretti
e meschini mettevano a dura prova la resistenza psicologica dei loro allievi.
Tra quelle
mura fredde ogni rapporto umano era bandito e la competizione regnava sovrana, ma
nonostante questo un giorno in quel
terribileluogo Jenő aveva fatto la
conoscenza di Kuno Blau, il suo primo ed unico amico.
Kuno e Jenő erano
entrambi violisti eccellenti, ma mentre
il primo era un barone, un aristocratico, l’altro era semplicemente un figlio
del popolo.
Una volta
diplomati, Kuno invita l’amico a passare qualche tempo nel suo castello, ansioso
di presentargli la sua blasonata famiglia.
Jenő decide di accettare, ma ben
presto si accorgerà che Kuno è una persona molto diversa da quella conosciuta
in collegio .
La famiglia
Blau nasconde molti segreti, molti dei
quali inconfessabili riguardano proprio la vita di Jenő.
Nonostante
“Canone inverso” sia un romanzo molto breve, sono solo 150 pagine, la storia è
molto intensa e la narrazione piuttosto complicata, abbiamo infatti tre diversi narratori: l’acquirente del
violino, lo scrittore e l’artista di strada.
“Canone
inverso “ è una storia avvincente e appassionante che si svolge nella metà
degli anni ’80 ma che grazie a continui flashback ci riporta continuamente indietro negli anni ’30.
Jenő Varga è il virtuoso che vive
per la sua arte, insegue il suo sogno
senza curarsi della sofferenza che provoca nelle persone a lui vicine, la madre
ed il patrigno in primis.
La musica è
la sua passione, ma questa passione lo consuma tanto da costringerlo addirittura
a dover abbandonare il suo strumento per qualche tempo onde evitare di mettere irrimediabilmente
a repentaglio la sua salute fisica e
mentale.
L’amore per Sophia e l’amore per la
musica sono per certi versi due facce della stessa medaglia.
Per Jenő
Sophie Hirschbaum è la personificazione
della musica stessa, si innamora di lei da bambino ancora prima di vederla,
si innamora di lei semplicemente ascoltandola suonare attraverso le assi del
pavimento e da quel momento ne fa la sua musa.
Jenő Varga prova invidia nei confronti
di Kuno, vorrebbe
potersi vantare come l’amico dei propri antenati, ma a lui tutto questo è
precluso; allo stesso tempo però Kuno
mostra insofferenza nei confronti dell’amico perché in cuor suo non può che riconoscerne la superiorità, sa
che la sua tecnica mai potrà competere con il talento innato di Jenő.
La trama del
romanzo è indubbiamente coinvolgente ed intensa anche se il triplice piano narrativo non facilita sempre
la fluidità del racconto e crea qualche problema di comprensione soprattutto nel
finale laddove uno straordinario quanto inaspettato
colpo di scena attende il lettore.
L’autore
dimostra una capacità eccezionale nel saper indagare e descrivere la
complessità dell’animo umano nelle sue molteplici sfaccettature.
Avventura, introspezione psicologica,
mistero, passione sono solo alcuni degliingredienti di questo romanzo che sa toccare le corde del cuore.
Da questo
romanzo è stato liberamente tratto nel 2000 un film pluripremiato intitolato
“Canone inverso. Making Love” per la
regia di Ricky Tognazzi.
Un film
bellissimo, assolutamente da vedere, anche se la trama, soprattutto per quanto
riguarda la storia d’amore, si discosta
tantissimo da quella del romanzo.
Ho apprezzato in egual misura il libro ed il film, ognuno di loro a suo modo riesce a coinvolgere ed emozionare il lettore e lo spettatore come solo le grandi storie
hanno la capacità di fare.
Tra i vari
premi ricevuti dal film assolutamente da ricordare l'assegnazione del David di Donatello per la straordinaria colonna sonora di Ennio
Morricone.
Michelangelo
era refrattario ad ogni lusinga e riteneva che a parlare dovesse essere
esclusivamente il suo lavoro, Raffaello ebbe della sua professione un’idea
completamente diversa, egli fu l’unico artista
del suo tempo a fare un uso politico della sua arte.
Capì che
l’arte poteva essere un’arma più efficace della spada, se maneggiata con
intelligenza; bravissimo nel saper dosare le parole, fu sempre molto attento a
non esprimere mai giudizi troppo netti che avrebbero potuto, in un secondo
tempo, essere usati come armi contro di lui.
Raffaello seppe impersonare il cortigiano perfetto,
egli più di ogni altro mise in atto gli insegnamenti dell’amico Baldassar
Castiglione, umanista, letterato e diplomatico, autore del celebre Il Cortegiano.
L’Urbinate
non solo fu il miglior interprete di quella attitudine della sprezzatura
che tanto il Castiglione predicò nei suoi scritti, ossia quella naturalezza di atteggiamento, quella
moderazione dei toni, quel non essere mai troppo affettati né troppo drammatici
nei modi, ma Raffaello apprese alla perfezione sopratutto la lezione più
importante del Castiglione ossia quella di
metter ogni diligenza per assomigliarsi al maestro ed il veder diversi omini di tal professione, e,
governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar
scegliendo or da un or da un altro varie cose.
Acuto
osservatore, Raffaello Sanzio studiò i più grandi maestri del suo tempo da
Perugino a Pinturicchio, da Leonardo Da Vinci a Michelangelo, colui che passò alla
storia come il suo antagonista per eccellenza,
riuscendo ad assorbire le qualità e le capacità di ognuno di loro per poi
tracciare una strada nuova.
Imparò a fondere tutti i loro linguaggi per
crearne uno tutto suo e, di fatto, con il suo talento eccezionale influenzò il
progresso dell’arte per almeno tre secoli.
A differenza
di Michelangelo che ha lasciato centinaia di lettere, di Leonardo Da Vinci di
cui oggi possiamo leggere i numerosissimi appunti, Raffaello ha lasciato pochissimi scritti di suo pugno e a noi non
resta quindi che affidarci all'analisi dei suoi dipinti per poter cercare di conoscere
la sua vita e per tentare di comprendere quei rapporti che determinarono la sua
carriera.
È questa la
grande sfida che Costantino D’Orazio coglie e lo fa con questo libro, a metà strada tra il memoir e il saggio, scegliendo di ci
presentarci una galleria di personaggi
ritratti da Raffaello.
Sono proprio
loro in prima persona a parlarci della loro storia e di quella dell’Urbinate.
Attraverso le
loro parole, alcune frutto della fantasia dell’autore, altre ricavate da versi
ed epistole di chi fu vicino all'artista, Costantino D’Orazio ci regala un
ritratto davvero particolare di Raffaello.
Dotato di una
sensibilità fuori dal comune, l’Urbinate, possedeva
una capacità straordinaria nel saper scavare dentro l’anima delle persone,
così da riuscire a cogliere ogni desiderio, timore, sentimento di colui che stava
ritraendo.
Possedeva il
dono di saper irretire i giovani con la sua pittura e divenne un modello per le
generazioni future.
Al contrario
degli altri artisti non fu mai geloso
della sua arte. Sceglieva con molta cura i suoi allievi ed istruiva i suoi
collaboratori affinché fossero perfettamente in grado di riprodurre il suo stile, ma era
sempre lui a ritoccare sul finale ogni dipinto.
In questo
modo la sua bottega poteva essere in grado di soddisfare le numerose richieste
che le giungevano da ogni parte.
Di bell'aspetto, allegro, di buone
maniere e ambizioso, era noto anche per le sue scorribande amorose.
A Raffaello,
primo nella storia, fu affidato un compito molto particolare, tanto che si potrebbe dire
che fu proprio lui a ricoprire il ruolo di sovrintendente dei beni culturali ante litteram.
Leone X
infatti lo incaricò di un incredibile compito: censire tutte le antichità presenti a Roma.
Raffaello
prese molto a cuore questo incarico; egli sentiva che in quei mattoni, in
quelle architetture crollate c’era la fonte più preziosa della nostra cultura,
tanto che decise di scrivere una lettera a Leone X per chiedere di rendere
illegale il furto di reperti ed il riutilizzo degli stessi come materiale da
costruzione.
Il libro di
Costantino D’Orazio è un libro affascinante che sa conquistare il lettore
fornendogli un’insolita chiave di
lettura per interpretare alcuni dei più grandi capolavori di quell'artista dal quale, mentre era in
vita, la Natura temette di esser vinta e, quando morì, temette di morire anch'essa.
Nella vita di
ciascuno di noi avvengono cambiamenti continui, alcuni di essi sono
impercettibili e lenti, altri invece più visibili e sensibili, ma quello che è
certo è che la vita non si ferma mai.
Questa
pandemia ci ha solo sbattuto in faccia questa verità e lo ha fatto nel modo più
brutale possibile, privandoci della nostra libertà e della nostra sicurezza.
Da un giorno all'altro abbiamo dovuto prendere coscienza del fatto che noi non possiamo controllare
il futuro perché il futuro è imperscrutabile.
Abbiamo visto
crollare le nostre certezze, certezze che in realtà non sono mai state tali,
perché l’unica cosa certa è il presente.
Marina
Panatero e Tea Pecunia cercano in questo loro libro di darci qualche utile consiglio per affrontare al meglio questo “tempo
sospeso” che, nostro malgrado, ci siamo trovati a dover gestire.
Un “tempo
sospeso” che ha generato in noi ansia perché ci siamo ritrovati catapultati in
una realtà completamente aliena.
Per alleviare
il nostro senso di impotenza e di rabbia, per arginare il senso di panico
crescente, il suggerimento delle autrici del libro è quello di provare a dedicare almeno dieci minuti
della nostra giornata alla meditazione.
Ad alcuni
potrebbe sembrare forse una soluzione semplicistica e banale, altri addirittura
potrebbero sorriderne, ma perché non provare?
Nella vita è
importante aprire le porte alle
possibilità e, se la meditazione potesse davvero farci ritrovare il nostro
equilibrio, perché rinunciare a priori?
L’importante,
ci avvertono le autrici del libro, è nonscoraggiarsi alle prime difficoltà,
non arrabbiarsi se ai primi tentativi i nostri pensieri cercheranno di prendere
direzioni diverse, capita anche ai più esperti e innervosirsi non farebbe che
procuraci un senso di frustrazione che, invece di aiutarci, ci farebbe solo
stare peggio.
Inoltre, mai sentirsi
in difetto se per un giorno non praticheremo i nostri esercizi quotidiani,
pazienza, cerchiamo di evitare dannosi ed
inutili sensi di colpa.
Meditare non
coincide assolutamente con l’assenza di pensiero, i pensieri fanno parte di
noi, noi siamo pensiero, ne formuliamo un numero esorbitante senza neppure
rendercene conto.
Quello che
dobbiamo sapere è però che non esiste un
pensiero “neutro”, ogni pensiero è accompagnato da un “sentire” che diviene
sostanza e quella sostanza diviene “sentire fisico”.
Rimuginare
sulle cose non fa che arrecare danni non solo alla nostra mente, ma anche al
nostro fisico.
Le situazioni esterne non possono essere
cambiate, ma si può cambiare il nostro modo di percepirle.
Per prima
cosa le autrici ci suggeriscono di smettere di raccontarcela, è importante essere
onesti con noi stessi: questo è il primo passo per poter mettere in pratica il
“lasciare andare”.
Meditazione
vuol dire addestrare la mente a vivere
il qui e ora, perché solo vivendo
il presente è possibile liberarsi del rancore e della rabbia che ancora
suscitano in noi i ricordi negativi degli di eventi passati.
Tre sono i passaggi fondamentali:
accettazione, lasciare andare e ringraziamento.
Accettare non vuol dire subire passivamente, ma
prendere atto che quanto accade, esiste e accade indipendentemente dalla nostra
volontà.
Accettarlo ci
aiuta ad alleggerire il carico emotivo che ci portiamo addosso.
Lasciare andare è il passo successivo all’accettazione,
non è un passo semplice da compiere, ma è fondamentale, per la nostra salute
psico-fisica, prendere coscienza di non poter controllare gli eventi.
Infine
imparare a ringraziare ossia essere
grati della vita e alla vita.
Si può essere
grati per qualunque cosa, per una camminata sulla spiaggia, per un caffè con
gli amici, per tantissime piccole cose che sembrano scontate, ma in realtà non
lo sono affatto e oggi più che mai ce ne siamo dovuti rendere conto in maniera
piuttosto brusca.
È
scientificamente dimostrato che la meditazione faccia bene alla salute, non
solo allunga la vita, ma ne migliora
notevolmente la qualità.
Ha infatti numerosi effetti benefici sul nostro
organismo e sulla nostra mente, ad esempio, ha la capacità di ridurre fortemente lo stress; se siete
curiosi, all'interno del libro troverete un elenco ben dettagliato.
La seconda parte del volume è invece
dedicata agli esercizi di meditazione veri e propri, semplici esercizi per principianti
e non solo, con i quali iniziare a mettere in pratica i consigli di Marina e
Tea.
La meditazione può essere di diversi tipi, ad esempio
può essere formale, ossia quella
classica che tutti immaginiamo, quella che si pratica nella posizione del fiore
di loto, oppure informale, per
informale si intende quel tipo di meditazione che si compie durante il giorno,
ad esempio, quando ci si focalizza sui profumi che ci circondano, sul gusto del
cibo e sulle nostre sensazioni.
Ho usato
volutamente il termine focalizzare
perché la meditazione è focalizzazione, mai concentrazione.
La
concentrazione implica uno sforzo, la meditazione deve invece fluire
liberamente e pertanto non può mai essere costrizione.
Meditare
significa infatti indirizzare dolcemente
l’attenzione dove vogliamo noi, riportando delicatamente i nostri pensieri a
ciò che stiamo focalizzando quando ce ne allontaniamo.
La
meditazione è lo strumento che abbiamo per domare
la nostra mente ribelle in maniera graduale e consapevole.
“La via d’uscita
è dentro” è un libro che può servire come spunto per coloro che già praticano la
meditazione oppure essere un’utile guida per i neofiti che vogliono provare a
riprendere in mano le redini della propria vita accedendo alle risorse
interiori che ciascuno di noi possiede.
Per
altri post dedicati ai libri di Marina Panatero e Tea Pecunia potete
cliccare qui
Questa è la storia di un’ossessione. Una caccia all'uomo, un viaggio alla scoperta di
un mondo dal quale ci separano trecento anni. Un’indagine sulle orme di una
persona la cui vita e la cui morte, spazzate via dalla risacca degli eventi,
non sembrano avere lasciato alcuna traccia. Nessuna fonte, nessun autore hanno
serbato il benché minimo ricordo della sua esistenza: rimane solo lo strumento
che le sue mani hanno creato, e che ora vibra nelle mie.
Inizia così “Un
viaggio italiano. Storia di una passione nell'Europa del Settecento”, unlibro a metà tra il romanzo e l’indagine storica.
Philipp Blom, storico e scrittore, fin da ragazzo aveva sognato una carriera da musicista, ma aveva dovuto arrendersi dinnanzi all'evidente mancanza
di talento; non sempre infatti la pazienza e la determinazione sono sufficienti
per realizzare i propri sogni.
La passione per il violino però non l’ha
mai abbandonato e,
tranne per un breve periodo della sua vita, non ha mai smesso di suonarlo.
Grazie alla musica egli ha sempre trovato
conforto nei momenti di crisi e rifugio nei tempi difficili.
Un giorno,
quasi per caso, il nostro io narrante entra
in possesso di un antico violino del Settecento, un violino fatto probabilmente
in Italia, ma da un liutaio tedesco.
Nasce così in
lui l’ossessione di scoprire di più su
colui che diede vita a questo strumento.
Inizia da qui
un lungo viaggionel tempo fatto di innumerevoli incontri
con esperti disposti ad esaminare il violino, di indagini storiche d’archivio complesse ed affascinanti, ma anche estenuanti, e di
numerose perizie al fine di ottenere una datazione certa grazie all'indagine
dendrocronologica.
Sulla base
delle fonti storiche Philipp Blom
ricostruisce una storia alquanto verosimile della vita dello sconosciuto
liutaio.
Forse all'inizio
del 1700 un giovane lasciò Füssen alla volta dell’Italia, giunsea Venezia, dove divenne apprendista nella bottega
di qualche famoso artigiano, magari addirittura di Goffriller.
Forse il nostro
giovane rimase a lavorare nella bottega del suo maestro e non ebbe mai il
coraggio o la possibilità economica di mettersi in proprio o, magari, aprì egli
stesso una sua bottega, o forse lasciò Venezia per un’altra città.
Le
possibilità sono infinite, ma di tutto ciò non ci è dato sapere nulla, perché questo
è
il triste destino degli ultimi superstiti: non hanno più nessuno con cui
parlare.
Attraverso le
pagine di questo splendido libro Philipp Blom ci riporta indietro in un’epoca di artigiani girovaghi, aristocratici e musicisti
di corte; un’epoca in cui l’Italia era un paese ancora diviso, governato da
potenze straniere e funestato da guerre.
Eppure,
nonostante il periodo così travagliato, l’Italia era anche un paese in grado di
esprimere il meglio nelle arti e nelle scienze dando i natali a personaggi
quali Antonio Vivaldi e Giacomo Casanova, solo per citare alcuni dei personaggi
che incontriamo proprio nel libro di Blom.
Philipp Blom
ci racconta della nascita della liuteria
a Füssen e del suo declino, delle botteghe
italiane ed in particolare delle differenze che intercorrevano tra quelle
cremonesi e quelle veneziane, della vita
degli apprendisti e del loro operato all'interno di quelle stesse botteghe,
dei violini, di quelli costruiti da liutai famosi quali Stradivari, Guarneri del Gesù, Testore, e di quelli nati dalle mani
di artigiani meno conosciuti dai più, come Goffriller,
Stainer, Kaiser.
Il libro di
Philipp Bloom è un libro che dischiude al lettore
le porte di un mondo appassionante e sconosciuto come quello della
compravendita degli strumenti d’epoca e di un mondo altrettanto
affascinante come quello dei laboratori
dove persone dalla capacità straordinarie riparano inestimabili capolavori
della liuteria.
Philpp Blom attraverso
le pagine del suo libro ci regala un originale affresco dell’Europa ed in
particolare dell’Italia dell’età dei lumi e, grazie alle sue descrizioni di
paesaggi urbani e culturali insoliti, ci sembra di poter scrutare il tutto da un punto di osservazione privilegiato, quasi che
noi stessi ci trovassimo dentro una di quelle meravigliose vedute di Canaletto
e da lì potessimo gettare uno sguardo sulla seducente vita della Venezia del
Settecento.