giovedì 28 agosto 2014

“Moll Flanders” di Daniel Defoe (1660 – 1731)

MOLL FLANDERS
di Daniel Defoe
NEWTON & COMPTON
Insieme a “Robinson Crusoe”, “Moll Flander” o meglio come recita il titolo originale “Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders” è probabilmente l’opera più conosciuta di Daniel Defoe. 

Il sottotitolo del romanzo è una più che esaustiva anticipazione di quanto ci si debba attendere dalla lettura:

che nacque nella prigione di Newgate e, durante una vita incessantemente variata di settant’anni, oltre l’infanzia, fu dodici anni prostituta, cinque volte sposata (una delle quali con il fratello), dodici anni ladra, otto anni deportata in Virginia, e che alla fine diventò ricca, visse onesta e morì pentita.
Scritte secondo le sue memorie

Il romanzo inizia proprio con la protagonista che informa il lettore del fatto che sarà lei stessa in prima persona a raccontare la sua storia e precisa che Moll Flanders non è il suo vero nome, ma semplicemente un nome di fantasia da lei preso per sfuggire alla legge.
Avverte che la sua storia parla di una vita vissuta all’insegna del vizio, in totale dispregio delle leggi di Dio e degli uomini.

La madre di Moll, incarcerata per furto a Newgate, appellandosi “al ventre” (permesso concesso quando una donna era incinta) era riuscita a posticipare la propria condanna, ma una volta nata la bambina era stata deportata in Virginia.
Moll Flanders viene quindi allevata in una specie di orfanotrofio, ma al contrario degli altri bambini mandati a servizio all’età di sette/otto anni, a lei è concesso di rimanere in istituto perché considerata come una figlia adottiva dalla donna che lo gestisce.
Quando questa muore, Moll ha solo dodici anni e viene ospitata da una famiglia borghese in qualità di compagna delle due figlie femmine; una volta cresciuta Moll diventa prima l’amante del fratello maggiore e in seguito  la moglie del minore.
Quando però il marito muore prematuramente, lasciati i figli ai suoceri, Moll diventa definitivamente padrona del proprio destino.
Prima sposa un uomo che fa bancarotta e che la abbandona chiedendole di dimenticarlo, poi si sposa con un altro uomo, un proprietario di piantagioni in Virginia piuttosto facoltoso, che la porta nel nuovo continente.
Qui dopo anni di matrimonio e dopo aver dato alla luce due figli, in attesa di un terzo, scopre che la suocera altri non è che la sua stessa madre un tempo deportata proprio in Virginia e che pertanto suo marito le è anche fratello.
Abbandonati marito e figli, ritorna in Inghilterra dove sposa un tipo del Lancashire che però si rivela ben presto essere un cacciatore di dote e, scoperto che lei non ha denaro, la abbandona immediatamente al suo destino.
Moll è nuovamente incinta, ma poiché le viene rinnovata la proposta di matrimonio da parte di un rispettabilissimo uomo d’affari al quale lei aveva lasciato in gestione il proprio denaro, decide di dare via il bambino e dopo aver pagato 5 sterline per il suo mantenimento, raggiunge quello che sarà il suo ennesimo marito.
Dopo qualche anno Moll rimane vedova ed economicamente quasi sul lastrico, decide quindi di dare in affido anche i figli nati da quest’ultimo matrimonio.
Ormai avanti negli anni e senza più possibilità di accalappiare un marito che la mantenga, ripiega su una nuova professione: il furto.
Trascorrono diversi anni in cui riesce a destreggiarsi abilmente imbrogliando e rubando, spesso rischiando la catturata, ma riuscendo sempre a salvarsi in extremis fino al giorno in cui inevitabilmente viene arrestata per il furto di alcune stoffe nella casa di un grossista.
Viene imprigionata a Newgate e qui, grazie all’intervento della sua amica e di un prete che la crede davvero pentita della sua condotta, riesce a far sì che la condanna alla pena di morte le venga commutata con la deportazione.
In carcere ritrova l’unico marito di cui sia stata realmente innamorata, l’uomo del Lancashire; anch’egli è destinato alla deportazione grazie all’aiuto di alcuni amici e in mancanza di alcuni testimoni le cui dichiarazioni lo condurrebbero senza dubbio al patibolo.
Grazie al denaro che avevano messo da parte riescono non solo a fare un viaggio confortevole fino in Virginia, ma anche ad evitare di scontare la pena una volta giunti a destinazione.
Nel nuovo mondo diventano proprietari terrieri e, grazie ai proventi delle loro piantagioni, vivendo onestamente raggiungono finalmente l’agiatezza economica.

Come definire questo romanzo? Un romanzo picaresco, ma anche un romanzo d’avventura con un intento morale nonostante al vizio ed alla corruzione siano dedicate molte più pagine di quante non ne siano dedicate al pentimento.

Moll Flanders è davvero pentita della vita dissoluta che ha condotto?
E’ vero che la protagonista dopo aver parlato con il sacerdote e aver convinto quest’ultimo del proprio pentimento, condurrà un’esistenza più rigorosa e moralmente irreprensibile, ma vedere in questo un elemento di sincero pentimento come molti critici sostengono, mi sembra un po’ eccessivo.

E’ normale che in presenza di un reale rischio di condanna alla pena di morte le sue certezze vengano meno, ma è pur vero che nel momento in cui vede che la soluzione del suo caso e la salvezza sono ormai vicine, poco le importa della salvezza della propria anima.
La sua vita diventa onesta solo nel momento in cui è economicamente tranquilla e ormai “anziana”, mai nel corso degli anni fin dall’adolescenza aveva però preso in considerazione di vivere di quel poco che poteva guadagnare rettamente. 

Moll descrivendo lo stato di depressione del marito prima della deportazione, afferma:

É proprio vero che gli animi grandi, quando sono sopraffatti dal dolore, son quelli che cadono nell’avvilimento più profondo e son pronti ad arrendersi.

In considerazione della condotta tenuta dall’uomo nel corso della propria vita, le parole di Moll Flanders non sembrano assolutamente le parole di una donna che condanni il vizio, il furto o qualunque altra cattiva azione.

La mia vita per quarant’anni era stata una spaventosa, complessa rete di crimini: prostituzione, adulterio, incesto, menzogna, furto, in una parola tutto avevo provato fuorché l’assassinio e il tradimento, dall’età di diciotto anni, o press’a poco, fino ai sessanta anni.

Sembra ci sia in questa affermazione più compiacimento che pentimento, ma ammetto di non essere un’ammiratrice di personaggi letterari che vivono nell’illegalità riuscendo spesso a farla franca per anni.
Chi segue il mio blog ricorderà infatti la mia avversione per un personaggio come Barry Lyndon, nato dalla penna di William M. Thackeray.
Devo però riconoscere che Moll Flanders non è così abietta, c’è sempre infatti una possibilità che lei sia sinceramente pentita, Barry Lyndon al contrario è un peccatore convinto senza possibilità o desiderio di redenzione; certamente più coerente, ma senza dubbio più indisponente per il lettore.

Consideriamo ora un altro aspetto della personalità di Moll Flanderse e parliamo di che tipo di madre sia la protagonista del romanzo di Defoe.
Quanti figli ha lasciato per strada senza alcun rimorso? Tranne rari casi l’impressione è che la donna non dimostri nessun sentimento nei confronti della propria prole.
Solo verso la fine della storia quando incontra il figlio concepito con il fratello sembra che si risvegli il suo istinto materno, ma è ragionevole a questo punto chiedersi quanto questo attaccamento non sia dovuto piuttosto al fatto che voglia tramite lui entrare in possesso della parte di eredità lasciatale dalla madre piuttosto che mossa da vero affetto nei confronti di un figlio abbandonato in tenera età.

Si dice che Defoe, per stabilire il compenso che avrebbe ricavato dalle sue opere, concordasse con l’editore il numero delle pagine e poi, una volta steso il romanzo, lo facesse pubblicare senza prima rileggerlo; tale sistema ovviamente comportava la presenza di imprecisioni e lacune nel testo.
Questo potrebbe spiegare perché nelle ultime pagine si nomini solo un figlio avuto dal fratello, quando in realtà i figli erano tre di cui uno morto alla nascita.
Ma tutto ciò non spiega comunque perché Moll Flanders, così affezionata al figlio ritrovato in Virginia, non parli mai e anzi sembri aver proprio dimenticato tutti gli altri numerosi figli.

Il mondo per Moll Flander sembra ruotare esclusivamente intorno al denaro. 
La ricchezza è il vero fulcro di tutto il racconto; ogni cosa gira intorno al capitale, al risparmio, ai soldi, agli interessi.
Tutto ha un prezzo, tutto è mercificato persino la vita delle persone; il matrimonio è solo un contratto basato sull’interesse e gli stessi figli sono considerati semplicemente come una fonte di reddito per chi li prende in custodia e una spesa per chi se ne vuole liberare.

La dote non è mai storpia né mostruosa, il denaro era gradito, comunque fosse la moglie

E così l’avarizia mi costrinse là dove la povertà mi aveva condotta

Il romanzo è stato pubblicato nel 1722 pertanto non si può pretendere che la lettura sia sempre scorrevole, ma nell’insieme è comunque un testo piacevole.

Nonostante apparentemente il racconto talvolta possa risultare forse un po’ monotono, quasi fosse un elenco di matrimoni, nascite e furti, in realtà il romanzo di Defoe offre al lettore molti spunti di riflessione e gli fornisce interessanti informazioni sull’epoca.

Attraverso le pagine di “Moll Flanders” riceviamo dettagliate informazioni sulle leggi del Settecento e sull’applicazione delle pene, sulla vita che si conduceva all’interno del carcere di Newgate, sulla deportazione dei condannati nelle colonie e sull’immagine di libertà, opportunità e tolleranza che i contemporanei di Defoe avevano dell’America.

Tutto questo fa di “Moll Flanders” un classico della letteratura inglese che non può mancare nelle vostre librerie.



martedì 26 agosto 2014

“Verde oscurità” di Anya Seton

VERDE OSCURITA’
di Anya Seton
SUPERBEAT

Anno 1968, Celia Taylor è da poco diventata Lady Marsdon in virtù del matrimonio con Robert Marsdon, unico erede del defunto sir Charles e legittimo proprietario di Medfield Place, la residenza di famiglia nel Sussex.

Celia e Robert si sono conosciuti in viaggio sulla Queen Mary, il famoso transatlantico che prestò servizio sulla rotta Southampton- Cherbourg-New York fino al 1967.
Il loro è amore a prima vista; una passione travolgente ed inarrestabile tra un esponente di una antica famiglia britannica e una giovane ricca americana.

Il matrimonio viene celebrato con un semplice rito civile appena giunti a Londra e, dopo una breve "gita" in Portogallo, la coppia si trasferisce a Medfield Place.

Sembra tutto perfetto fino al giorno in cui decidono di visitare la residenza di Cowdray e Celia, attirata da una forza misteriosa, non riesce a stare lontana dalla collina di St. Ann nonostante il marito sia contrario a questo suo desiderio di visitare il luogo.

Da quel momento tutto cambia: Robert diventa evasivo e si chiude sempre più in se stesso mentre Celia è continuamente assalita da strane visioni.

La donna si accorge che il marito è ossessionato dalla cronaca dei Marsdon, il volume che si trova nella biblioteca del maniero e che contiene le annotazioni fatte dalla famiglia a partire dall’anno 1430 fino al 15 settembre 1967.

Nei fine settimana i Marsdon sono soliti ricevere ospiti a Medfiled Place e proprio durante una di queste riunioni la situazione precipita.
Celia va in catalessi e viene ricoverata in fin di vita in ospedale mentre Robert, dopo aver licenziato tutta la servitù, si barrica nello studio. 
A questo punto il dottor indù Akananda, ospite a Medfield e amico della madre di Celia, prende in mano la situazione.

Egli comprende, infatti, che Celia è in realtà la reincarnazione di un’altra Celia vissuta in epoca Tudor, una giovanissima e bellissima ragazza innamorata di un monaco benedettino che altri non era che un antenato di Robert, Fratello Stephen.

Robert sente gravare sulla sua anima tutto il peso delle colpe di Stephen, nel quale si immedesima fino al punto di non riuscire più a distinguere il presente dal passato.

Già dal prologo siamo a conoscenza dell’amore illecito tra Celia de Bohun ed il benedettino; sappiamo bene quale sia stato il tragico epilogo a cui questa immorale passione abbia condotto i due protagonisti: la giovane donna, che portava in grembo il frutto del suo peccato, era stata murata viva mentre il suo amante, in preda al rimorso, si era impiccato.

E’ noto fin dalla prima pagina che proprio questo crimine, perpetrato tanti secoli prima, è la chiave di volta degli eventi recenti che si svolgono nel 1968, ma nonostante il fatto che tutto ci sia ben chiaro sin dall’inizio, la vicenda cattura l’attenzione del lettore e lo tiene incollato alle pagine, desideroso di conoscere ogni più piccolo dettaglio su come si siano svolti i fatti.

Sia che crediate o no alla reincarnazione non potrete che rimanere attratti dalle teorie sulla rinascita dell’individuo, sulla trasmigrazione dell’anima e sulla possibilità che il male fatto nelle vite precedenti possa essere espiato attraverso le vite future.

Perfetta è poi ricostruzione storica dell’epoca Tudor, dal 1552 al 1559, gli anni di regno dei tre figli di Enrico VIII.
La vicenda inizia sotto il Regno di Edoardo, prosegue durante tutto il regno di Maria e si conclude subito dopo l’ascesa al trono di Elisabetta I.

I personaggi del romanzo sono ben delineati e conquistano il lettore con il loro alone di mistero.

I protagonisti delle due storie, nonostante queste siano ambientate in periodi storici lontani nel tempo, si integrano perfettamente dando vita ad un romanzo dalla trama avvincente e straordinaria.
Magistrale è la costruzione del “doppio”, quasi ogni personaggio infatti ha un suo alter ego in epoca Tudor: Celia Marsdon era Celia De Bohun, sir Robert / Fratello Stephen, la signora Taylor / Ursula, il dottor Akananda / Julian Ridolfi, Edna e George Simpson / Emma e Christopher Allen, sir Harry / sir Anthony Browne e per finire Igor / Simkin. 

“Verde oscurità” è un romanzo intrigante e affascinante in cui l’autrice ha saputo dosare sapientemente suspense, amore e mistero riuscendo così a regalarci una storia  intensa e coinvolgente.

Una lettura inoltre imperdibile per chiunque ami le storie ambientate in epoca Tudor.




domenica 24 agosto 2014

“L’illusione della separatezza” di Simon Van Booy

L’ILLUSIONE DELLA SEPARATEZZA
di Simon Van Booy
NERI POZZA
“L’illusione della separatezza” è un romanzo difficile da riassumere in quanto pur trattandosi di un libro di poco più di duecento pagine, queste sono di una tale intensità che diventa quasi impossibile provare a condensarne il significato senza correre il rischio di rovinare la bellezza dell’insieme.

Siamo qui per risvegliarci dall’illusione della separatezzasono queste parole del monaco zen Thich Nhat Hanh che hanno ispirato Van Booy nella scelta del titolo e non solo.

Il filo conduttore del romanzo è il concetto che ogni evento e ogni scelta nella nostra vita siano strettamente legati gli uni agli altri.
Nulla accade per caso, ad ogni azione corrisponde una reazione e

che ne siamo consapevoli o meno, ovunque andiamo lasciamo una parte di noi.

Nel libro ogni capitolo è dedicato ad un personaggio che a sua volta può essere il protagonista anche di più di un capitolo.
Ciò che è davvero significativo è che le vite di ciascuno dei protagonisti, senza che essi ne siano a conoscenza, sono legate le une alle altre.

Nel 1944 John Bray cade durante una missione. Il suo aereo, un B-24 Liberator viene abbattuto dalla contraerea tedesca nella Francia occupata dai nazisti.
Egli è l’unico superstite e dopo aver ricevuto soccorso dai maquis, i membri della Resistenza nelle zone rurali, vaga per il territorio francese nella speranza di riuscire a ritornare in patria, nella lontana Long Island, dalla sua amata Harriet.
Durante quel suo vagabondare, ferito e malconcio, incontra un soldato tedesco, un ragazzo più spaventato ed affamato di lui.
John gli punta contro la pistola, ma alla fine preferisce non sparare e lasciarlo vivere; dopo aver condiviso quel poco cibo che possiedono ognuno prosegue per la propria strada.
Sarà questa decisione del soldato americano nei confronti di quello tedesco a costituire l’evento che cambierà la vita di molte persone.

Così leggiamo della storia di Hugo l’uomo senza volto, a seguito di un colpo di arma da fuoco; quella di Anne-Lise, la ragazza che durante il secondo conflitto mondiale a soli 17 anni combatte per le strade tra le fila della Resistenza francese; di Martin, l’uomo gentile che accudisce gli anziani della casa di riposo Starlight a Los Angeles; di Danny, il ragazzino dislessico che impara a leggere grazie all’aiuto di un vicino di casa e che, dopo essersi fatto strada nel mondo del cinema come regista, non dimentica chi gli è stato accanto quando era solo un bambino che la madre era costretta ad affidare alle cure dei vicini per poter andare a lavorare e sbarcare il lunario; di Amelia, la ragazza cieca dotata di una forza straordinaria che le permette di vivere la sua vita senza lasciarsi abbattere dalla sua malattia, riuscendo così a trovare la sua strada nel mondo; di Sebastien che, dopo più di vent’anni dall’incidente, si ritrova a giocare vicino alla carcassa del B-24 di John e ritrova la foto di Harriet che il soldato portava sempre con sé.

“L’illusione della separatezza” è un romanzo struggente, emozionante ed elegante; è vera poesia in prosa.
E’ un libro da leggere, sottolineare e rileggere per non dimenticarne frasi e passaggi di infinita bellezza.
Ciascuno di noi, come i protagonisti del romanzo, è parte della storia. 
Leggendo queste pagine infatti comprendiamo che tutti noi, nessuno escluso, facciamo parte di un unico universo dove sogni, paure, solitudini, delusioni sono propri di ogni essere umano:

Credo che le persone sarebbero più felici se ammettessero più spesso i fatti. In un certo senso siamo tutti prigionieri di un ricordo, o di una paura, o di una delusione, siamo tutti definiti da qualcosa che non possiamo cambiare.

Non è davvero possibile raccontare il romanzo di Simon Van Booy perché, per poterne apprezzare pienamente la bellezza e comprenderne a fondo il significato, è estremamente necessario che sia il lettore stesso a leggere le sue pagine, facendosi trasportare dalle infinite emozioni che solo le parole del romanzo sapranno suscitare in lui.




giovedì 21 agosto 2014

“Inferno” di Dan Brown

INFERNO
di Dan Brown
MONDADORI
Protagonista del romanzo è nuovamente il celebre personaggio nato dalla penna di Dan Brown, Robert Langdon, l’affascinante professore di storia dell’arte ed esperto di simbologia.

Il titolo “Inferno” è un chiaro richiamo alla prima cantica della Divina Commedia ed proprio a Dante e alla forte simbologia presente nella sua opera più famosa che si ispira la vicenda del romanzo.

Robert Langdon si risveglia in un letto di ospedale a Firenze dopo essere stato ferito alla testa da un colpo di pistola.
Il trauma cranico ha compromesso la sua memoria a breve termine; il professore non ricorda praticamente più nulla di quanto accaduto nelle ultime ore prima dell’incidente e tanto meno ha idea del perchè si trovi nel capoluogo toscano.

Langdon è continuamente ossessionato dall’immagine di una bellissima donna, non più giovane e dai capelli argentei, che lo richiama dall’altra sponda di un fiume le cui acque sono rosso sangue.
La donna, ai cui piedi si trovano cadaveri e corpi in agonia, in una specie di visione dell’inferno dantesco, ripete solo due parole: cerca trova.

La dottoressa Sienna Brooks mentre esamina il quadro clinico di Robert porgendogli domande e sollecitandolo a ricordare qualcosa, lo informa che al suo arrivo in ospedale ripeteva continuamente “very sorry” come se volesse scusarsi di qualcosa con qualcuno.

Ben presto chi ha sparato a Robert riesce a rintracciarlo, entra nella sua stanza e fredda con un colpo da arma da fuoco il dottor Marconi, il medico con cui Sienna stava collaborando.
La dottoressa Brooks, dopo un primo momento di smarrimento, afferra il paziente per un braccio e lo conduce immediatamente fuori dall’ospedale.
I due riescono a sfuggire all’inseguimento del killer e a giungere a casa di lei.
Sienna, ormai coinvolta nella misteriosa vicenda, si vede costretta suo malgrado a fornire tutto l’aiuto necessario a Langdon perché questi possa ricostruire cosa sia realmente accaduto negli ultimi giorni e capire per quale motivo qualcuno lo voglia morto…

“Inferno” è uscito in libreria da più di un anno e i pareri su questo romanzo sono piuttosto discordi.
Qualcuno è rimasto affascinato e qualcuno invece lo ha definito semplicemente un romanzo come tanti altri.
Se lo paragoniamo a “Il codice Da Vinci” credo che rimarremmo ovviamente tutti delusi dalla lettura, non solo perché il più celebre romanzo di Dan Brown sia realmente più coinvolgente, ma perché alla sua uscita “Il codice Da Vinci” era davvero qualcosa di nuovo e come tale era stato in grado di affascinare milioni di lettori.

Ho letto tutti i libri di questo autore e, ad essere sincera, nonostante il mio iniziale scetticismo, “Inferno” mi è piaciuto molto di più di altri suoi romanzi.

Indubbiamente il mio interesse è stato fortemente sollecitato dai richiami a Dante, alla simbologia della Divina Commedia, dai dipinti presi in esame senza dimenticare la splendida ambientazione del racconto che passa da Firenze a Venezia per giungere fino ad Istanbul nelle sue pagine conclusive: Palazzo Pitti, il corridoio vasariano, il Duomo di Firenze e il Battistero, Piazza San Marco e il Duomo, il racconto della Venezia dei Dogi e infine Santa Sophia ad Instanbul.

Ho trovato particolarmente interessante anche la costruzione della storia incentrata sulla corsa contro il tempo per sventare la minaccia di un nuovo virus in grado decimare la popolazione mondiale; affascinante il confronto tra la peste dei secoli passati e qualcosa di estremamente letale creato in vitro dall’uomo.

“Inferno” è un giusto mix di storia dell’arte, adrenalina e temi di attualità come l’etica a cui dovrebbe attenersi la ricerca scientifica o il problema della crescita senza controllo della popolazione mondiale contrapposto al costate impoverimento delle risorse perché questa sia in grado di sopravvivere.

Confesso che  ho trovato le prime pagine del romanzo terribilmente noiose e che è stato davvero faticoso superarle, ma una volta entrata nella dinamica del racconto sono stata letteralmente catturata dalla velocità e dall’intelligenza con cui questo è stato orchestrato e dagli immancabili colpi di scena finali.

Dan Brown ha dimostrato ancora una volta di essere il migliore nel saper condurre il lettore all’interno della narrazione, di essere in grado di coinvolgerlo nell’indagine e nella ricostruzione dei vari elementi attraverso i quali giungere alla soluzione del caso.



lunedì 18 agosto 2014

“Le navi dei vichinghi” di Frans Gunnar Bengtsson

LE NAVI DEI VICHINGHI
di Frans Gunnar Bengtsson
SUPERBEAT
Frans Gunner Bengtsson (1894-1954) fu un importante poeta e scrittore svedese che scrisse diversi saggi su vari personaggi letterari e storici tra cui Walter Scott, Joseph Conrad e il re svedese Carlo XII.

L’opera che gli diede più fama fu però “Le navi dei vichinghi”, romanzo che venne pubblicato in due parti, la prima nel 1941 e la seconda nel 1945.

Il libro narra le vicende di Orm il Rosso, figlio di Toste e di Asa.
Orm aveva un fratello maggiore di nome Odd, un ragazzo robusto e saggio che già in giovane età era solito accompagnare il padre nei viaggi per mare in cerca di prede e di bottino.

Nonostante Odd avesse dimostrato fin da subito di essere un abile navigatore ed un valoroso guerriero, Asa gli preferiva Orm più docile caratterialmente e fisicamente più alto e snello del fratello, tanto da preoccupare la madre per la sua salute cagionevole.

Quando Odd raggiunse l’età per andare per mare, la madre convinse il padre a farlo rimanere a casa ancora per un altro anno adducendo come scusa un sogno premonitore secondo il quale, se il figlio fosse partito, avrebbe certamente incontrato la morte sulla tolda di una nave.
Toste acconsentì alla richiesta della moglie, ma durante l’assenza del padre e del fratello, la fattoria fu attaccata e Odd fu fatto prigioniero dagli uomini di Krok.

Questi erano partiti da Liester con tre navi con l’intenzione di fare bottino nel paese degli slavi, ma le cose non erano andate esattamente come si erano aspettati.
Odd, grazie all’astuzia invece di essere ucciso da coloro che l’avevano catturato, non solo riuscì a salvare la pelle, ma addirittura ad unirsi alla spedizione di Krok e partire per una grande avventura.

Inizia così il racconto del primo dei  tre viaggi per mare affrontati da Odd il Rosso nel corso della sua lunga vita.
Leggendo delle sue peregrinazioni lo vediamo conquistare bottini e vincere battaglie; leggiamo di come fu catturato e reso schiavo, costretto per anni a remare incatenato insieme ai suoi uomini sulle navi del califfo; lo ritroviamo poi, grazie alla sua arguzia e ai colpi della sua buona stella, tra le guardie del visir Almansur e poi di nuovo nella sua terra alla corte di Harald Dente Azzurro, re di Danimarca; infine leggiamo delle sue razzie sulle coste inglesi impresa che lo guidò sino a Westminster dinnanzi a Etelredo, re d’Inghilterra…

Molto interessante è la breve introduzione al romanzo di Michael Chabon.
Egli non ci parla solo della storia, ma ci racconta anche di come da giovane egli sia venuto in possesso del romanzo, regalatogli da una zia che si era stabilita per una ventina d’anni proprio in Danimarca.

Michael Chabon lesse per la prima volta il romanzo intorno all’età di quattordici anni rimanendone letteralmente affascinato. 

“Le navi dei vichinghi” è una bellissimo racconto d’avventura le cui storie di battaglie epiche, avventure per mare, scorribande, razzie, omicidi, storie d’amore e incontri con straordinari personaggi ne fanno un libro adatto anche ai lettori più giovani.

L’opera di Bengtsson è un romanzo storico di grande fascino grazie sopratutto alla sapiente ironia con cui lo scrittore riesce a delineare i suoi protagonisti, vedi ad esempio l’ipocondria da cui è afflitto un guerriero forte e valoroso come Orm il Rosso, e per l’abilità e lo humour con cui riesce a risolvere situazioni piuttosto controverse come l’incontro e l’inevitabile scontro delle diverse religioni: l’antico pantheon vichingo, il cristianesimo, la religione musulmana senza dimenticare l’introduzione persino dell’elemento ebreo, tramite il personaggio del giudeo Solimano.

“Le navi dei vichinghi” è un classico imperdibile che racconta l’epopea di un popolo epico, audace e di grande fascino, un romanzo assolutamente da leggere.

Un unico consiglio prima di affrontare il testo, se non siete ferratissimi sulla geografia della Scania, dello Jutland e dei vari luoghi all’epoca in cui il racconto è ambientato, procuratevi una mappa che vi aiuterà nel vostro “viaggio”…buona lettura!


domenica 17 agosto 2014

“Il nuotatore” di Zsuzsa Bánk

IL NUOTATORE
di Zsuzsa Bánk
NERI POZZA 
La storia è ambienta in Ungheria negli anni ’50 del secolo scorso quando la cortina di ferro divideva in due l’Europa.

Katalin lavora in una fabbrica a Papa. Ogni mattina esce di casa e Kata, la sua bambina, puntuale si alza all’alba per poterla salutare dalla finestra.

Un giorno però Katalin se ne va in silenzio, prima della solita ora, così che nessuno possa vederla. 
Un giorno come tanti altri decide di abbandonare il marito Kalman e i figli Kata e Isti per andare all’ovest attraversando il confine austriaco.
Katalin non parte sola, ad accompagnarla in questa avventura verso una nuova vita c’è la sua amica Vali.

Quando l’aria in paese diventa irrespirabile a causa del continuo parlare della gente, Kalman vende casa e terreno e parte con i bambini.
I tre iniziano a girovagare per il paese senza alcuna prospettiva e senza alcuna intenzione di trovare un luogo da poter chiamare nuovamente casa.

Le loro peregrinazioni li portano a chiedere ospitalità ai parenti sparsi nelle varie regioni ungheresi.
La prima tappa è Budapest dalla madrina Manci, poi è la volta di Szerencs a casa della zia Zsofi per proseguire fino a Siofok dalla Zia Agi.
In seguito i tre si fermano per qualche tempo a casa della nonna paterna Anna per fare ritorno di nuovo a casa di zia Zsofi a Szerencs.

In questo continuo peregrinare senza meta, sospesi fuori del tempo, i giorni trascorrono sempre uguali nell’attesa di qualcosa di indefinito; non c’è nessuna felicità tranne in rari momenti sul lago Balaton come quando Isti può nuotare libero, senza essere assillato dai problemi, dalle paure e dai dubbi.

Non ci lasciavamo dietro nulla. Il tempo adesso passava in un attimo, andava semplicemente avanti anche se non succedeva niente, almeno niente di quel che volevamo noi. Quando l’orologio batteva le ore sembrava quasi scherzasse. Più avanti cominciai a nascondere pietre, piume o monete nelle case in cui vivevamo per un po’ prima di lasciare anche queste.

Dalle parole di Kata, io narrante della storia, traspare la costante paura di lei e di Isti di essere vittime di un nuovo abbandono, la continua ricerca di un luogo a cui appartenere e di trovare persone alle quali legarsi, la triste consapevolezza di essere un peso per il padre ed il tormento di non comprendere come la madre abbia potuto abbandonarli.

Il ritmo del racconto è lento e descrittivo così da poter scandire meglio la lentezza stessa della vita dei protagonisti e sottolineare il monotono trascorrere delle stagioni che si succedono sempre uguali in quelle atmosfere rarefatte sotto quei cieli bassi e grigi.

quell’aspettare sospesi prima o poi sarebbe finito. Invece quella sensazione non passava, non ci lasciava più. Restava e si attaccava ai nostri giorni, a quell’estate (…)

Il romanzo di Zsuzsa Bánk non è solo il racconto della famiglia Valencei, del loro dolore, della loro incapacità di comunicare e dell’abbandono che tanto ha segnato la loro esistenza come famiglia e come singoli individui, ma è anche il racconto di un popolo che ha perso la fiducia in se stesso, di una nazione oppressa che ha dimenticato la propria identità e non sa come ritrovarsi.

“Il nuotatore” è un romanzo struggente e malinconico che attraverso le sue pagine parla direttamente al cuore del lettore.



lunedì 28 luglio 2014

“Il fantasma dell’Opera” di Gaston Leroux (1868 – 1927)

IL FANTASMA DELL’OPERA
di Gaston Leroux
NEWTON COMPTON EDITORI
Pubblicato nel 1911 “Il fantasma dell’Opera” è forse il romanzo più conosciuto di Leroux, opera che contribuì inoltre a consacrare definitivamente la fama dello scrittore.

Ad oggi sono molte le trasposizioni cinematografiche del libro la cui fortuna ha visto anche adattamenti teatrali, trasformazioni in musical e perfino adattamenti per il balletto.

La trama del romanzo è nota a tutti.

Erik, conosciuto da molti come il fantasma dell’Opera e da alcuni come il signore delle botole, vive nei sotterranei del teatro.
Il suo aspetto mostruoso non gli permette di potersi presentare in pubblico se non indossando una maschera che nasconda le sue orribili fattezze.
                                                                                               
E’ prodigiosamente magro e il suo frac volteggia sopra una impalcatura scheletrica. I suoi occhi sono così profondi che le pupille, immobili, non si distinguono bene. Insomma, si vedono soltanto due grandi buchi neri come dei crani morti. La sua pelle, tesa sull’ossatura come la pelle di un tamburo, non è bianca, ma sgradevolmente giallastra; il naso è così minuscolo da essere invisibile di profilo, e l’assenza di quel naso è cosa orribile a vedersi. Tre o quattro lunghe ciocche castane sulla fronte e dietro le orecchie fungono da capigliatura.

Erik è però un personaggio dalle mille risorse: è un abile costruttore, a lui viene attribuita infatti in parte la costruzione del teatro con i suoi numerosi cunicoli, passaggi segreti e botole; è un capace ventriloquo, tanto da essere definito il migliore del mondo, e per finire è dotato di eccezionali doti canore.

Proprio grazie alla sua magnifica voce, Erik presentandosi come l’angelo della musica riesce ad ammaliare Christine Daaé, una giovane ed ingenua cantante, orfana di padre.
Il padre della ragazza, un valente violinista di origini svedesi, aveva raccontato a Christine, quando questa era solo una bambina, la storia dell’angelo della musica e, proprio a causa del ricordo legato al genitore, lei ingenuamente cade nel tranello di Erik.

Christine un giorno rivede a teatro un amico di infanzia, Raoul ovvero il visconte di Chagny; questi si innamora perdutamente della ragazza da lei ricambiato.
La loro storia d’amore però sarà una storia di tormenti e paura poiché il fantasma dell’Opera non ha nessuna intenzione di cedere al rivale la donna che anch’egli ama perdutamente e userà ogni mezzo a sua disposizione per sposare Christine e sbarazzarsi di Raoul.

Leroux conduce sapientemente la narrazione tenendo sempre alta l’attenzione del lettore utilizzando le strutture del romanzo epistolare e diaristico.
Riesce inoltre a rendere sempre partecipe il lettore della storia porgendo a questi il racconto da diversi punti di vista attraverso le testimonianze, i racconti, le memorie di vari personaggi.

Le ultime pagine che riguardano l’epilogo del racconto e svelano chi sia in effetti Erik, sono affidate alla testimonianza di colui che a teatro è conosciuto come il Persiano ma che Erik chiama il daroga.
Il daroga (capo della polizia) aveva salvato la vita ad Erik anni addietro in Persia quando questi era stato condannato a morte dal sultano perché non potesse mai svelare i misteri del palazzo che gli aveva costruito e non ne potesse costruire di simili per altri committenti.

Il Persiano si sente quindi responsabile dei delitti commessi da Erik e tenta in tutti i modi di porgli un freno.

Raoul e Christine sono due tra i personaggi principali, eppure non mi hanno particolarmente entusiasmata: troppo ingenua e svenevole lei, troppo imberbe e mellifluo lui, insomma ben lontani da personaggi dai caratteri forti e ben delineati come Mina Murray e Jonathan Harker vessati da Dracula nell’omonimo romanzo di Bram Stoker.

Erik è invece un personaggio ben riuscito, non solo per la descrizione del suo aspetto fisico, delle sue qualità diaboliche e per la sua astuzia, ma sopratutto per quel senso di pietà che sa infondere nel lettore al termine della narrazione quando vengono svelati i particolari della sua infanzia e quando egli stesso apre il cuore al Persiano raccontandogli del bacio dato e ricevuto da Christine.

Il fantasma dell’Opera è un mostro, un essere crudele che come Frankenstein, celebre personaggio nato dalla penna di Mary Shelley, rivendica la sua appartenenza al mondo degli uomini con gli unici mezzi che ha a sua disposizione.
Lui essere deforme dalla voce d’angelo anela esclusivamente ad essere amato come qualunque altro essere umano.

Amami e vedrai! Avevo soltanto bisogno di essere amato per diventare buono!

“Il fantasma dell’opera” è un romanzo teatrale e gotico dove le descrizioni dei luoghi sono dettagliatissime e perfette.
Ogni cosa è raccontata da Leroux con una tale dovizia di particolari che il lettore non fa alcuna fatica a ricreare nella sua mente ogni angolo del teatro e della casa sul lago.

E’ una storia terribile e misteriosa dove si potrebbe dire che i veri protagonisti siano i sentimenti: la passione, la vendetta, l’amore, la gelosia, la compassione…

E’ un romanzo che raccoglie in se diverse tipologie di scrittura che appartengono a diversi stili letterari come il poliziesco, la commedia, l’avventura e l’horror. 
Forse si deve anche a questa contaminazione di generi se “Il fantasma dell’opera” riesce ancora oggi, a più di un secolo dalla sua prima pubblicazione, ad affascinare il lettore moderno e a coinvolgerlo dalla prima all’ultima pagina.