Forse il modo migliore
per introdurre questo libro è lasciare la parola proprio all’autore:Alla mia Firenze
con cuore d’italiano
dedico questo libro
perché essa sempre
ricordi
le sciagurate vicende
che dal corrotto
principato concittadino
la condussero
a quell’aborrita
servitù straniera
che in centoventidue
anni
fece spesso sentire
al popolo toscano
la dura verità
dell’antico dettato
dove pasce caval tedesco
non nasce più erba
Con questa dedica si
apre il volume edito da Giunti Marzocco (1993), una ristampa anastatica, ossia
una riproduzione inalterata, dell’edizione Bemporad & Figlio Editori del 1909
dell’opera di Giuseppe Conti.
Il libro racconta le vicende della storia toscana durante
il regno degli ultimi due granduchi della dinastia Medici: Cosimo III
(1642-1723)
che regnò dal 1670 al 1723 e Gian
Gastone (1671-1737) in carica dal 1723 al 1737.
Un periodo oscuro
quello del regno di questi due granduchi per la Toscana e per l’Italia intera,
un periodo in cui le grandi potenze straniere Francia, Spagna e Impero si contendevano
i territori della penisola che di fatto erano ormai considerati dei semplici
stati vassalli da tassare e sfruttare.
Quello di Conti è un quadro impietoso degli ultimi Medici.
Il tono usato è moralistico e ironico; non stupisce quindi il suo apprezzamento
per Giovan Battista Fagiuoli, poeta e
commediografo fiorentino, vissuto all’epoca degli eventi raccontati i cui
scritti erano acuti e taglienti ma mai volgari. Stralci di diario, di lettere e
di opere sono riportati dal Conti e pertanto il lettore può farsi direttamente
un’idea dello stile del Fagiuoli.
Il libro non vuole essere un libro di storia, ma piuttosto il racconto cronachistico degli avvenimenti storico-culturali che caratterizzarono
gli anni del Granducato di Toscana dal 1671 al 1737.
Attraverso le fonti
letterarie, i bandi, i motuproprio e
gli epistolari prende vita un affresco della società dell’epoca dove intrighi politici e amorosi fanno da padroni in
una società ormai lontana dagli antichi fasti rinascimentali e delle prime
corti granducali.
Attraverso il racconto
di coloriti aneddoti e dei costumi del tempo Giuseppe Conti ci presenta da
vicino gli ultimi esponenti della famiglia Medici con i loro quasi inesistenti pregi
e i loro tanti difetti, introducendo sulla scena anche quei loschi figuri che popolarono
la corte spadroneggiando spesso sui loro stessi signori.
Cosimo III ne esce come un uomo tirchio, bigotto
e incapace, ossessionato dalla religione e succube dei Gesuiti, tormentato dalla mancanza di eredi, sempre preoccupato
di poter entrare in contrasto con qualche sovrano, afflitto da insicurezza
cronica, ma sempre pronto ad imporre nuove
tasse ai propri sudditi persino sull’uso delle parrucche pur di rimpinguare
le casse dello Stato.
Perennemente in lite
con la moglie, Margherita Luisa
d’Orleans, cugina del Re Sole, Cosimo III ebbe pessimi rapporti anche con i
figli maschi il Gran Principe Ferdinando, troppo simile alla madre, e Gian
Gastone troppo melanconico e solitario. L’unica con cui ebbe un ottimo rapporto fu la figlia Anna Maria Luisa che cercò in ogni modo senza successo, dopo la morte del primogenito, di designare come erede del Granducato.
Per quanto riguarda le lettere di famiglia di cui il Conti
riporta alcuni estratti non potrete non sorridere leggendo alcune righe che
la granduchessa inviava al consorte dopo essere finalmente riuscita a fare ritorno in
Francia:
Mi mettete in stato di disperazione a tal segno, che non ci
è ora alla giornata che io non vi desideri la morte e che io non volessi che
voi fussi impiccato
Insomma, come avrete
capito, quella che traspare da queste pagine è l’immagine di una dinastia da operetta la cui Corte era
un luogo di beghe più private che politiche.
Attori principali ne
erano i figli di Cosimo III: il Gran
Principe Ferdinando il cui solo interesse erano musica, feste e
divertimenti da condividere con il suo amato De Castris e l’amante veneziana mentre la moglie Violante Beatrice di Baviera, perdutamente
innamorata di lui, cercava di giustificare ogni suo più equivoco comportamento; Anna
Maria Luisa che avrebbe voluto fin da subito sottrarre il titolo al fratello minore e infine Gian Gastone che, schiavo dell’alcol
e del suo scaltro e mefistofelico aiutante
di camera Giuliano Dami, era solito terminare le sue giornate in mezzo a un
numero spropositato di aitanti giovani di dubbia fama, i cosiddetti Ruspanti.
Giuseppe Conti rimarca
quanto differente fosse stato lo spessore di Cosimo III, inetto e dubbioso
sovrano, rispetto a quello di Vittorio Amedeo II valoroso guerriero e accorto
politico in grado di tenere testa alla potentissima Francia e farsi stimare
dalle altre potenze europee.
Dobbiamo a questo punto necessariamente considerare alcune circostanze
molto significative.
Per prima cosa il Conti scriveva nel
1908, pochi decenni dopo i moti risorgimentali, non risulta quindi strano
il suo trasporto nel voler rimarcare quanto
fosse un’aborrita servitù quella del
popolo toscano assoggettato ad una dinastia straniera come quella degli Asburgo-Lorena. Secondo
cosa sempre non da sottovalutare: il Conti è un suddito del Regno d’Italia ragion per cui è abbastanza scontata la poco celata
adulazione che egli dimostra nei confronti di Vittorio Amedeo II da lui
definito il vero capostipite della dinastia sabauda.
Il Conti afferma che la fonte principale della sua opera consiste nel manoscritto di un certo Luigi di
Lorenzo Gualtieri.
Lorenzo Gualtieri fu
in gioventù lo staffiere e poi il dispensiere di Cosimo III. Il figlio Luigi ne
ereditò l’incarico, ma ben presto venne cacciato trovando però più tardi
occupazione presso la corte lorenese. Non sarebbe quindi così strano leggervi un qualche intento vendicativo nel narrare certi fatti
con così tanto livore e insensibilità.
Come abbiamo già detto
in altre occasioni, grazie ad un certo revisionismo storico, negli ultimi anni è stato in parte rivalutato
l’operato degli ultimi esponenti della dinastia medicea. Al di là del
grande merito di Anna Maria Luisa per la sottoscrizione del Patto di famiglia, il
Gran Principe Ferdinando fu ad esempio un ragguardevole mecenate musicale e Gian Gastone, seppur
finirà i suoi giorni nel peggiore dei modi, fu in gioventù un principe
illuminato e filosofo che purtroppo ebbe la sfortuna di dover sottostare ad un
matrimonio per lui disastroso tanto da rovinargli per sempre il carattere.
Mi rendo perfettamente
conto che non sia possibile in alcun
modo rendere giustizia a una opera di tanto spessore e così corposa, sono più
di novecento pagine, in così poche righe.
Il volume è senza
dubbio una pietra miliare della storiografica
medicea e la bellezza della veste grafica di questa edizione, trattandosi
di una ristampa anastatica, è senza dubbio un valore aggiunto.
Detto questo, mi sento
in dovere di mettere in guardia un eventuale lettore dall’affrontarne la lettura senza una forte motivazione e una qualche conoscenza della materia poiché va detto che l'opera di Conti, per quanto scritta in modo ironico e sagace, non è scevra da
pagine scritte in un linguaggio terribilmente aulico soprattutto laddove
vengono riportati i testi originali dei documenti dell’epoca.