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sabato 4 dicembre 2021

“La camicia bruciata” di Anna Banti

Nel castello di Blois le giornate si susseguono tutte uguali, ma la giovane Marguerite Louise è più che mai decisa a conquistarsi il suo posto nel mondo. Lei, figlia di Gastone d’Orleans e della seconda moglie Margherita di Lorena, non può contare su un ricco appannaggio; pur essendo una principessa del sangue, infatti, i mezzi della famiglia non sono purtroppo all’altezza del suo lignaggio. Lei che un tempo si pensava potesse era destinata a salire addirittura sul trono di Francia accanto al cugino Luigi XIV è ora costretta ad accettare che questi le trovi un marito degno del nome che porta e dell’illustre parentela.

È la stessa Marguerite Louise, una piccola zanzara, che in cerca di un riscatto impone la sua presenza alla scrittrice pretendendo che venga raccontata la sua storia. 

I suoi comportamenti, i suoi desideri, le sue bizze ai giorni nostri non avrebbero nulla di scandaloso, ma all’epoca crearono non poco scompiglio e ben più di un incidente diplomatico.

Avrete già capito che il malcapitato che fu scelto per la bella e capricciosa francese fu il figlio di Ferdinando II Granduca di Toscana e di Vittoria della Rovere. Sfortunatamente per il povero Cosimo Marguerite accettò le nozze impaziente di potersi finalmente dedicare a tutti quei divertimenti che a Blois le erano preclusi ma, ahimè, mai matrimonio fu più malamente assortito.

“La camicia bruciata” è però la storia anche di un’altra infelice principessa giunta nel Granducato di Toscana, Violante di Baviera la moglie del Gran Principe Ferdinando.

Marguerite Louise e Violante furono due donne dai caratteri profondamente differenti, in comune solo il triste destino di essersi legate agli ultimi protagonisti della dinastia medicea.

La francese fu tanto ambiziosa, irriverente e irrequieta quanto la tedesca fu accondiscende, pacata e sempre attenta alle necessità altrui.

Cosimo III e il figlio Ferdinando furono due figure diametralmente opposte, nel libro Anna Banti fa dire a Marguerite Louise del marito che fu un inetto, ipocrita e sempre pronto a scaricare i propri torti sugli altri.

Di sicuro Cosimo III, cresciuto da una madre iperprotettiva e devota fino al parossismo quale fu Vittoria della Rovere, non poteva essere l’uomo adatto ad una donna dal temperamento forte e bizzoso come quello di Marguerite Louise. Le ambizioni deluse non poterono che acuire l’inevitabile strappo che si produsse tra Cosimo e la moglie la quale, avendo come metro di paragone lo splendore della Corte del Re Sole, non poteva che detestare quella granducale che le appariva ogni giorno sempre più gretta, bigotta e claustrofobica.

Il Gran Principe Ferdinando molto aveva in comune con la madre, come l’essere alla continua ricerca di piaceri e svaghi, ma Violante considerava la sua una spensieratezza troppo ostentata per essere genuina.

Violante di Baviera era profondamente innamorata del marito ed era disposta a perdonagli ogni cosa. Era una donna mite e sensibile, l’unica che cercò persino di avvicinare il cognato Gian Gastone, dipinto dalla Banti come l’emarginato della famiglia, proprio lui che per beffa del destino siederà sul trono granducale come ultimo della sua stirpe.

Gian Gastone sembrava aver ereditato dalla madre il profondo desiderio di essere amato, come Marguerite Louise però non riuscì mai ad essere compreso e accettato, cosa che segnerà inevitabilmente la sua vita. Abbandonato dalla madre all’età di otto anni, lasciato ai margini dal resto della famiglia, al contrario di Marguerite Louise che cercava sempre in ogni modo, da zanzare qual era, di imporsi anche se con modi molto discutibili, Gian Gastone preferì sempre defilarsi dalla scena e dedicarsi ai suoi studi circondato dalle gabbie dei suoi amati uccelli esotici.

Violante, quella ragazza che aveva la facoltà di percepire immagini di persone assenti, una specie di maledizione che aveva dovuto assolutamente mascherare per non essere accusata di stregoneria, rimasta vedova riuscì a dedicarsi finalmente a se stessa e, come Governatrice di Siena, amata dai senesi per la sua buona amministrazione, trovò proprio in quella città il modo di rendere un po’ di giustizia al nome tanto vituperato della suocera grazie al ritrovamento di alcuni documenti lasciati lì dal fratello dallo zio di suo marito, Mattias de’ Medici.   

Il libro di Anna Banti è un romanzo estremamente piacevole e ben orchestrato. L’autrice ci restituisce lo spirito della corte granducale del tempo rendendo vivi davanti ai nostri occhi i suoi personaggi. Il taglio della narrazione è ironico, ma mai irriverente; il racconto disincantato, ma mai grottesco.

La storia è pensata e studiata nei minimi particolari e il realistico affresco dell’epoca che emerge dalle pagine del romanzo è l’evidente frutto di un vasto lavoro di ricerca e consultazione di fonti storiche.

Non ho mai amato particolarmente il personaggio Marguerite Louise e nonostante tutto neppure leggendo il libro della Banti la sposa di Cosimo III, pur con tutte le attenuanti del caso, è salita molto nel mio indice di gradimento. Ammetto invece di aver provato molta simpatia, sebbene mai lo avrei creduto possibile, per Violante di Baviera. Simpatia dovuta al suo interesse nei confronti del cognato Gian Gastone che si conferma ancora una volta uno dei miei personaggi preferiti, ma soprattutto per il suo modo di riuscire ad affrancarsi dal ruolo impostole dalla Corte dopo la morte dell’amato Ferdinando.

Il libro di Anna Banti è purtroppo fuori catalogo e l’unico modo per procurarvelo è come ho fatto io ricorrere al mercato dei libri usati, eppure meriterebbe davvero di essere ristampato.





lunedì 15 novembre 2021

Delle orazioni in morte di S.A.R. Gian Gastone de’ Medici VII Granduca di Toscana e delle lodi in vita di Giuliano Dami e compagni (un manoscritto inedito della meta del XVIII secolo)

Qualche tempo fa vi avevo parlato di un saggio di Alberto Bruschi dal titolo “Giuliano Dami. Aiutante di Camera del Granduca Gian Gastone de’ Medici”. Quasi per caso, nei giorni scorsi, mi sono imbattuta in questo libro dedicato alla trascrizione di un manoscritto che, come viene riportato nell’introduzione ad opera dello stesso Bruschi, è una delle ultime acquisizioni della Biblioteca Moreniana (numero progressivo d’ingresso 22227) o almeno lo era diciamo nel 1996 visto che questo volume è stato pubblicato nel febbraio del 1997.

Nelle pagine introduttive Alberto Bruschi ci ragguaglia su quanto questo fortunato ritrovamento, avvenuto poco prima di dare alle stampe il suo libro sul Dami, abbia fornito interessanti informazioni a completamento del materiale da lui già raccolto. 

In questa notevole seppur breve introduzione Bruschi ci erudisce su quella che risultava essere una vera e propria macchina funebre, tanto da essere definita proprio castrum dolori, accenna alla sua storia e spiega quali apparati scenici venissero approntati e con quali tempistiche avvenissero le celebrazioni. In particolare, per quanto ci riguarda, la morte di Gian Gastone avvenne il 9 luglio del 1737 mentre le esequie furono celebrate il 9 ottobre dello stesso anno.

La datazione del manoscritto dovrebbe quindi essere compresa tra la data delle esequie e la data di composizione del più famoso Manoscritto Moreniano n. 352 da alcuni attribuito a Luca Ombrosi e da altri a Luigi Gualtieri, datato 1741.

Le traduzioni dal latino sono opera di Gino Corti con il contributo di Candida Bruschi, Wanda e Cecilia Filippini, la trascrizione di Anita Valentini e le note sono state curate da Alberto Bruschi.

Il manoscritto non recava alcuna intestazione indice questo che molto probabilmente si trattava di appunti personali e non di un’opera che il suo autore intendeva rendere pubblica. Il titolo indicato quindi dai curatori della trascrizione è stato scelto tenendo conto del carattere vivace e ironico con cui l’autore ha composto i versi.

Nella prima parte del manoscritto troviamo sette iscrizioni in latino (Gian Gastone era il VII Granduca di Toscana), forse neppure opera dello scrittore, ma piuttosto una semplice trascrizione di quella sorta di iscrizioni lapidee che facevano parte del summenzionato apparato funebre. Da queste iscrizioni si evince che l’autore era legato agli Scolopi, legame confermato anche dal motteggio nei confronti dei rivali Gesuiti quando nell’ultimo componimento del manoscritto si finge essere uno di loro nelle vesti di confessore degli scellerati.

Le iscrizioni fanno riferimento alle virtù legate al defunto (costanza, generosità, giustizia, clemenza, sapienza, prudenza) ovviamente si tratta di iscrizioni commemorative e tali doti non potevano appartenere in sommo grado al defunto Granduca come la storiografia, fin troppo inclemente con Gian Gastone, ci ha tramandato.

Da questi scritti però si evince il desiderio dell’autore di lodare oltremodo il Granduca con l’intento di mettere tanto più in cattiva luce Giuliano Dami e i suoi collaboratori contro i quali colui che scrive sembra avere un forte risentimento.

Non per questo tutto ciò che viene scritto su Gian Gastone può però essere liquidato come una mera forma di celebrazione priva di fondamento. È infatti indubbio che l’ultimo Granduca fosse stato un sovrano clemente tanto da essere contrario alla pena di morte, attento a non gravare di troppe tasse la popolazione, concentrato a tenere i conflitti al di fuori dei confini del Granducato in un tempo dove le guerre imperversavano in tutta Europa, un sovrano illuminato e colto ma anche solo, ingenuo e troppo poco diffidente.

I nomi dei degli scellerati che ricorrono in queste pagine sono oltre a quello del famigerato Giuliano Dami, quelli del Dolci, di un certo Fumanti (di non facile identificazione) e dello speziale Branchi.

Proprio su quest’ultimo il nostro anonimo autore pone l’accento come colui che avrebbe somministrato il veleno al Granduca, insomma questi personaggi avrebbero congiurato per assassinare Gian Gastone.

Una nuova ipotesi originale e terribile emerge quindi da questo manoscritto che per quanto sorprendete potrebbe essere interessante approfondire.   

Queste ricerche mi stanno coinvolgendo parecchio anche se per me, almeno per ora, si tratta solo di spulciare nelle librerie e sul web. Chissà quanto materiale giace ancora sepolto negli archivi utile ad indagini come questa o che ci potrebbe porre tanti altri inattesi interrogativi.

 

domenica 7 novembre 2021

Anna Maria Luisa de’ Medici Elettrice Palatina - Atti delle celebrazioni 2002-2004 – Palazzo Vecchio, Firenze

Il volume a cura di Anita Valentini è il primo dei due volumi dedicati agli atti delle celebrazioni tenutesi a Palazzo Vecchio. Questo primo libro si riferisce agli anni 2002-2004 ed è stato pubblicato nel 2005, un anno prima di un altro volume sempre edito da Edizioni Polistampa di cui vi ho parlato qualche tempo fa intitolato “Il testamento di Anna Maria Luisa de’ Medici”.

Non mi dilungherò ulteriormente sulla biografia dell’ultima Medici di cui vi ho già più volte raccontato anche se, vista l’importanza del ruolo da lei svolto nell’evitare la dispersione delle collezioni medicee vincolandole alla città di Firenze e alla Stato, all’epoca Granducato di Toscana, non credo sia mai abbastanza ritornare sull’argomento per ringraziarla della lungimiranza e della sensibilità da lei dimostrate.

Il libro si apre con la presentazione di Eugenio Giani e un’introduzione di Anita Valentini che in realtà non si differenzia molto da quella riproposta poi l’anno seguente nel volume dedicato al testamento dell’Elettrice Palatina.

Più interessanti per noi quindi i successivi interventi suddivisi in ordine cronologico per le tre annualità delle celebrazioni.

Facendo riferimento alla Convenzione, nota oggi a tutti come Patto di Famiglia, sottoscritta da da Anna Maria Luisa de’ Medici e Francesco Stefano di Lorena il 31 ottobre 1737 ed in particolare all’articolo terzo dove sono contenute le tanto famose quanto fondamentali espressioni per ornamento dello Stato, per utilità del pubblico e per attirare la curiosità dei Forestieri, ogni relatore, secondo le proprie competenze, non solo approfondisce la figura dell’Elettrice Palatina, ma analizza anche quali effetti siano stati prodotti da quel suo gesto tanto anticipatore dei tempi futuri.

Cristina Acidini Luchinat (2002) pone proprio l’attenzione sulla missione dei musei e si interroga su quale possa essere oggi la modalità ottimale della loro gestione. Pone, inoltre, l’accento sulla condizione privilegiata dell’Italia dove basta uscire in strada o entrare in una chiesa per incontrare testimonianze d’arte straordinarie. Questa peculiare differenza con la maggior parte degli altri Paesi fa sì che sia corretto sostenere che i nostri musei dovrebbero avere un’accezione e uno scopo diversi da quelli di altre nazioni meno favorite dalla sorte sotto questo aspetto. Anche in questo senso Anna Maria Luisa fu una anticipatrice dei tempi, comprendendo l’importanza che la fruizione delle opere d’arte fosse strettamente legata al loro territorio di creazione e di committenza.

Dell’importanza della contestualizzazione delle opere parlano anche due esponenti dell’Arma dei Carabinieri nel 2004, il Comandante Costantini e il suo vice Bertinelli, che nel loro intervento molto interessante ci espongono le criticità che ogni giorno incontrano sul campo nel difficile compito di recupero di oggetti rubati e di tutela del patrimonio artistico e paesaggistico.

Altri interventi sono più specificatamente connessi alla biografia dell’Elettrice in particolare quello di Stefano Casciu, grande conoscitore dei temi a lei collegati, e quello di Mario Augusto Lolli Ghetti che pone in particolare l’accento sulle parentele francesi degli ultimi Medici.

Cosimo III aveva sposato la cugina del Re Sole, Marguerite Louise d’Orleans, matrimonio come sappiamo molto infelice tanto che la Granduchessa abbandonò i figli ancora piccoli per tornare in Francia. Lolli Ghetti passa in rassegna i personaggi della corte francese ricordando che la madrina dell’Elettrice fu niente meno che la famosa mademoiselle d’Orleans, sorellastra di Marguerite Louise.

In questo intervento si rivela anche che, sebbene in Francia i personaggi dell’epoca amassero scrivere e raccontare dettagliatamente della vita di corte, pochissime citazioni vennero fatte della madre dell’Elettrice. Un riferimento lo troviamo fatto da Maria Mancini Colonna, una delle famose mazzarinette, primo amore di Luigi XIV, la quale nomina Marguerite Louise esclusivamente per fare un paragone con la propria triste situazione matrimoniale chiedendo al re il permesso di poter tornare in Francia ospite dello stesso convento di Montmartre nel quale si era ritirata proprio la Granduchessa. Se siete interessati al personaggio di Maria Mancini Colonna vi consiglio il romanzo di Gerty Colin intitolato “La passione del Re Sole”, edito da Meridiano Zero.

Di particolare interesse l’intervento della storica dell’arte Marilena Mosco che ci racconta della passione di Anna Maria Luisa per le cosiddette “galanterie gioiellate” molte delle quali esposte al Museo degli Argenti a Palazzo Pitti.

Non mancano poi gli interventi in cui ci interroga sull’esistenza in vita di eventuali discendenti della famiglia e sul comportamento tenuto dagli agnati beneficiati dal testamento di Anna Maria Luisa, a porsi tali domande sono Alberto Bruschi (Firenze, 1944 – Grassina, 2021) e Ottaviano de’ Medici di Toscana di Ottajano.

In attesa di parlavi del secondo volume degli atti delle celebrazioni relative agli anni 2005-2008, vi saluto con una frase tratta da una lettera datata 6 novembre 1691 che l’Elettrice Palatina scrisse dalla corte di Düsseldorf riferendo di un viaggio:

Sono stata a Colonia ma a volere che queste città paressero belle non bisognerebbe esser nata a Firenze. 



lunedì 1 novembre 2021

“Alchimia, magia e astrologia nella Firenze dei Medici. Giardini e dimore simboliche” di Paola Maresca

La famiglia Medici diede un grande impulso alla riscoperta delle antiche dottrine e del paganesimo. Cosimo il Vecchio nella villa di Cafaggiolo era solito circondarsi di uomini di lettere per studiare e discutere di filosofia, arte e scienze arcane. Grande impulso fu dato alla riscoperta di testi antichi molti dei quali vennero tradotti proprio per volere di Cosimo; primo fra tutti ricordiamo il Corpus Hermeticum, l’insieme dei testi attribuiti al mago Ermete Trismegisto, che ritrovato in Macedonia proprio in quegli anni e donato al Medici da un monaco, venne tradotto da Marsilio Ficino.

L’eredità di Cosimo fu raccolta soprattutto dal nipote Lorenzo il Magnifico sotto la cui guida Firenze conobbe il massimo splendore affermandosi come uno dei più importanti centri della cultura ermetica.

Se Umanesimo e Rinascimento furono contraddistinti da due figure in particolare, quali quelle di Cosimo e di Lorenzo de’ Medici, la cultura ermetico-platonica non si esaurì con la morte del Magnifico, ma si snodò nei i secoli declinata in varie arti e scienze fino ad arrivare al tempo degli ultimi due esponenti della famiglia Medici appassionati di questo complesso patrimonio di simboli e allegorie, il Granduca Ferdinando II e suo fratello il Cardinale Leopoldo al quale si deve la fondazione dell’Accademia del Cimento.

È ovviamente impossibile riassumere in un post la vastità del materiale che questo saggio di Paola Maresca analizza vista anche la complessità dell’argomento, per cui credo sia più razionale limitarmi ad esporre il piano dell’opera per dare un’idea su come vengano affrontate le varie tematiche.

I capitoli seguono un percorso cronologico, quindi partendo dai primi capitoli dedicati più genericamente alla filosofia neoplatonica e all’arte nel Rinascimento, si passa a capitoli più specificatamente dedicati ai singoli protagonisti della famiglia Medici iniziando con quello dedicato al primo Granduca di Toscana Cosimo I fino al capitolo finale che, come già anticipato, vede protagonista la figura di Leopoldo de’ Medici.

Ogni capitolo è a sua volta suddiviso in diversi paragrafi dedicati ad una particolare scienza a cui era appassionato il personaggio di riferimento o più specificatamente ad opere da lui commissionate nelle quali è evidente la simbologia ermetica degli elementi decorativi.

La simbologia ermetica trova la sua maggiore espressione oltre che nell’arte pittorica nell’architettura dei giardini. L’esempio più famoso è forse quello dei giardini di Boboli, ma il luogo che più di ogni altro si distinse per essere un vero compendio di scienza ermetica fu senza dubbio il parco della villa di Pratolino con le sue grotte animate da automi, giochi d’acqua e intricati labirinti.

La villa di Pratolino nacque dalla mente di Francesco I coadiuvato dall’architetto Bernardo Buontalenti; lo stesso granduca a Palazzo Vecchio si fece approntare un piccolo studiolo collocato presso il Salone dei Cinquecento dedicato a conservare le meraviglie della natura e dell’arte, splendidamente decorato da raffigurazioni allusive all’opus alchemico.  

Francesco I fu senza dubbio il granduca più appassionato di scienza alchemica, ancora più del padre Cosimo I per il quale lo studio era in fin dei conti qualcosa di subordinato agli affari di stato.

I successori e gli altri personaggi della famiglia, a partire dallo stesso Don Antonio, figlio naturale di Francesco I e Bianca Cappello, si appassionarono molto di più alla ricerca medico-sparigirica che all’alchimia vera e propria, da qui lo sviluppo dei famosi giardini o orti dei semplici, così chiamati proprio perché vi venivano coltivate erbe semplici, comuni. Ovviamente anche per coltivare queste piante si seguivano però regole ben precise affinché si potesse beneficiare degli influssi astrali.

Molto similmente la stessa scienza venne perseguita nella scelta delle pietre per il rivestimento delle Cappelle Medicee in modo da poter sfruttare al massimo i benefici influssi astrali e le proprietà delle singole pietre per la trasumanazione dei corpi così da poterne facilitarne la rinascita spirituale.

Moltissimi e davvero interessanti sono inoltre i vari riferimenti alle imprese e ai motti propri di ciascun personaggio della famiglia Medici, vedi ad esempio tutte le interpretazioni sul perché della scelta del simbolo del capricorno da parte di Cosimo I.

Il volume è corredato da un’ampia documentazione fotografica indispensabile per comprendere al meglio la materia trattata e di un vasta bibliografia.

Questo saggio è un ottimo compendio sia per coloro che per la prima volta si accostino all’argomento sia per chi desideri invece fare un po’ di ordine in tutta quella serie di frammentarie informazioni accumulate in merito nel corso degli anni.

Una cosa è certa: dopo aver letto questo saggio tutte le opere frutto della committenza medicea  che vi troverete a osservare assumeranno per voi un nuovo significato.



 

domenica 24 ottobre 2021

“Testimonianze Medicee a confronto” a cura di Giovanna Lazzi

“Testimonianze Medicee a confronto” è il catalogo della mostra tenutasi alla Biblioteca Riccardiana di Firenze nel 1997 (5 Maggio – 5 Luglio 1997).

Dopo una breve prefazione e una breve presentazione, due scritti fanno da introduzione vera a propria al catalogo che è corredato da trentotto tavole a colori su carta patinata che riproducono parte dei più significativi oggetti.

Giovanni Cipriani con “Il Principato mediceo” riassume in modo sintetico ma efficace gli anni che caratterizzarono il dominio mediceo con particolare riguardo alla storia da Leone X, figlio del Magnifico, fino all’ultimo Granduca della dinastia Gian Gastone de’ Medici.

Segue “Libri e oggetti medicei: per una rilettura comparata” ad opera di Giovanna Lazzi, all’epoca direttrice della Biblioteca Riccardiana, che illustra il percorso della mostra e l’importanza, quale testimonianza storica, degli oggetti appartenuti ai membri della famiglia Medici.

I documenti d’archivio vengono spesso considerati come semplici e freddi resoconti ma, se letti nel modo giusto, si rivelano essere anche fonti estremamente preziose per conoscere i protagonisti della storia a 360 gradi e non solo per la mera acquisizione di nozioni che li riguardano come compravendite, nascite, matrimoni e similari.

Ecco quindi che anche oggetti come codici, medaglie, gioie, utensili e gli stessi ritratti, possono trasformarsi in testimonianze assai utili alla ricostruzione della storia. Leggendo questo libro ci si sorprende di quante cose questi oggetti, se osservati nel  modo corretto, abbiano da raccontarci.

Attraverso quanto esposto ed in particolare grazie alle incisioni entriamo nel mondo lussuoso delle rappresentazioni di feste e spettacoli, manifestazioni che erano, è vero, il trionfo dell’effimero, ma allo stesso tempo pure un modo di esibire il proprio potere.

L’etichetta seguiva regole rigide e le manifestazioni fastose non erano dedicate solo a eventi gioiosi quali i matrimoni (vedi La descrizione delle feste… per le nozze di Ferdinando II e Vittoria Della Rovere nell’incisione di Stefano Della Bella per la festa a cavallo notturna del 15 luglio 1637) o le cerimonie di investitura per l’Ordine di Santo Stefano fondato da Cosimo I (una tavola è dedicata proprio ad una Patente di conferimento dell’Ordine di Santo Stefano da parte di Gian Gastone ad Averardo Giuseppe Serristori), ma anche gli apparati funebri, per quanto lugubri, rispecchiavano la sontuosità dei tempi. Un esempio è riportato dall’incisione di Giovan Battista Falda per gli apparati funebri in occasione delle esequie di Ferdinando II.

Nel libro si parla anche della reticenza di Gian Gastone a farsi ritrarre ragion per cui, facendo particolare riferimento ad una medaglia opera di un giovane scultore pratese di nome Giovanni Francesco Pieri, si spiega perché i ritratti dell’ultimo Granduca mediceo, a differenza di quelli dei suoi famigliari, non fossero caratterizzati né da uno schietto naturalismo né idealizzati secondo la norma regolarizzatrice e nobilitante del filtro classico.

Al contrario del figlio, Cosimo III de’ Medici amava invece farsi ritrarre e in mostra si trovava esposto un suo ritratto con la veste di Canonico del Laterano; nell’Anno Santo del 1700 infatti Cosimo III si recò a Roma per il Giubileo dove fu nominato da papa Innocenzo XII canonico lateranense.

L’ossessione di Cosimo per tutto ciò che riguardava la Chiesa era evidenziata anche con l’esposizione di un altro particolare oggetto, ossia una medaglia coniata con la data 1678, che ci racconta l’interesse del Granduca per i francescani riformati da San Pietro d’Alcantara, interesse che lo portò ad ospitare alcuni alcantarini facendogli costruire appositamente un convento nei pressi della Villa Medicea dell’Ambrogiana.

Grande attenzione è prestata poi a tutto ciò che riguarda la lettura araldica di imprese, stemmi ed emblemi. Scopriamo tra le altre cose che col tempo gli emblemi dei primi Medici venivano riproposti talvolta anche dai loro successori insieme ai propri emblemi e imprese.  

Come avrete capito questo catalogo è una fonte inesauribile di interessanti spunti e argomenti che meritano di essere approfonditi divertendosi a ricercare i vari collegamenti.

Resta purtroppo il rimpianto per non aver visitato la mostra, ma anche la gioia per aver scovato questa preziosa pubblicazione.

 


 


sabato 18 settembre 2021

“Giuliano Dami. Aiutante di Camera del Granduca Gian Gastone de’ Medici” di Alberto Bruschi

La figura di Giuliano Dami è una figura enigmatica e della quale è difficile riuscire a capire quanto ci sia di vero nelle cronache del tempo che ne hanno tramandato l’immagine di un uomo gretto e malvagio.

Tutto ciò che è stato scritto si riallaccia alle infamanti storie tratte da un manoscritto di dubbia attribuzione, l’avvocato Luca di Bartolomeo, secondo Sir Harold Acton, o il dispensiere di Cosimo III Luigi di Lorenzo Gualtieri secondo Giuseppe Conti (Firenze dai Medici ai Lorena).

Alberto Bruschi con quest’opera si propone l’arduo compito di rileggere il manoscritto affiancando tale lettura allo studio dei documenti d’archivio nel tentativo di cercare di comprendere quanto ci sia di vero nel manoscritto e quanto invece sia frutto, se non proprio di pura fantasia, quantomeno di una volontà atta a distruggere la figura di Giuliano Dami.

Unico punto non soggetto a controversie è il fatto che il personaggio in questione fosse di una bellezza disarmante e che senza dubbio proprio il suo aspetto fisico lo favorì nella sua incredibile ascesa sociale.

Alberto Bruschi inizia le sue ricerche proprio da Mercatale in Val di Pesa, luogo di nascita del bel Giuliano. L’autore del manoscritto liquida alla stregua di due pezzenti i genitori del nostro protagonista, ma dai registri parrocchiali si evince che questi non erano assolutamente tali. La madre, in particolare, Caterina Ambrogi portava un cognome piuttosto importante. Gli Ambrogi, per quanto popolani, erano dei possidenti terrieri. Vero è che della famiglia si contavano più rami, ma Caterina pur non appartenendo al ramo più facoltoso non poteva comunque essere annoverata come una miserabile stracciona.

Morto il padre di Giuliano, ad occuparsi della famiglia fu uno zio paterno che, visto il numero delle bocche da sfamare, non poteva essere neppure lui particolarmente povero.

Giuliano fin dalla giovane età dimostrò di avere un carattere vivace e ribelle che mal sottostava ai soprusi e all’autorità.

La sua carriera partì dal gradino più basso, iniziò addirittura come votapozzi, ebbene sì, fu proprio uno di quei ragazzini che si occupavano di svuotare i pozzi neri, solo il boia e il becchino potevano essere annoverati come mestieri peggiori.

L’importante per Giuliano fu l'arrivo a Firenze perché lì, grazie al suo aspetto e alla sua scaltrezza, ebbe comunque la possibilità di cogliere la giusta occasione per migliore pian piano la propria condizione.

Infatti, dopo diversi lavori, prese servizio come lacchè presso il Marchese Ferdinando di Roberto Capponi. 

Giuliano smise quindi per sempre i vestiti cenciosi per indossare una scintillante livrea di velluto rosso dai galloni dorati, la livrea “all’Ussara”.

Durante una visita del Capponi a Palazzo Pitti, Giuliano fu probabilmente notato da Gian Gastone e da lì il passo fu breve, il giovane cambiò padrone sebbene ben presto fu lui stesso a diventare il padrone del suo signore. Non mi dilungherò su questa storia che ormai tutti conosciamo benissimo.

Contrariamente a quanto riportato nel manoscritto Gian Gastone conobbe Giuliano dopo il matrimonio e lo portò poi con sé a Reichstadt dopo un suo soggiorno a Firenze.

Alberto Bruschi si interroga su quali fossero i reali sentimenti che legarono Giuliano Dami a Gian Gastone de’ Medici, forse all’inizio Giuliano provò anche affetto per il suo signore, impossibile avere una risposta certa, ma senza dubbio guardando ai suoi testamenti e al codicillo al secondo testamento quello che emerge è la figura di un uomo avaro e meschino che neppure in quel momento, pensando alla propria morte, ebbe un pensiero per onorare la memoria di chi per lui aveva fatto e sacrificato tanto.

Il libro racconta non solo le malversazioni del Dami alla Corte medicea, ma anche tutte le furfanterie e le appropriazioni indebite di cui si macchiò, di come fosse entrato in possesso del suo prestigioso palazzo in via Maggio, delle ville e dei terreni nonché di quelle sue operazioni che oggi non esiteremmo a definire di alta finanza.

Il libro indaga ogni aspetto della vita di Giuliano Dami: il matrimonio con Maria Vittoria Selcini, probabilmente contratto per cercare di mascherare la natura dei suoi rapporti con Gian Gastone, sospetti impossibili ovviamente da allontanare; le sue committenze artistiche, i suoi rapporti a Corte e i rapporti con gli altri esponenti della famiglia granducale, i rapporti con i propri famigliari e quelle donazioni fatte in particolare modo al Monastero delle Mantellate, le cui suore da lui beneficiate lo ricordarono sempre come il nostro Giulianino.

Il racconto non tralascia di delineare un ampio affresco della Corte e della Firenze dell’epoca.

Il libro non si interrompe con la morte di Gian Gastone, ma guarda anche alla vita di Dami dopo la dipartita del suo benefattore, colui che anche sul letto di morte nonostante tutto chiese ancora pietà per l’amico alla sorella Anna Maria Luisa.

Gli ultimi anni di Dami furono anni in cui si dovette principalmente preoccupare di non perdere la vita e le sostanze accumulate nel corso di tanti anni di prevaricazioni. Il delitto di sodomia, infatti, non venne cancellato con l’avvento dei Lorena e la pena prevista per una tale reato rimase la condanna a morte, senza contare che era sufficiente solo una denuncia perché, anche dopo la morte, a colui che fosse stato giudicato colpevole sarebbero stati alienati tutti i beni cosicché questi sarebbero stati incamerati dallo Sato a discapito degli eredi.

Il libro di Alberto Bruschi è un’opera davvero importante ed esaustiva, corredata di un’appendice molto ricca di documentazione fotografica e documentazione d’archivio.

Una prosa forbita ed elegante, fluida e scorrevole, fanno di questo libro una lettura oltremodo piacevole nonostante l’argomento sia piuttosto specifico ed esclusivo.

Non è mai facile parlare di un libro che ci ha coinvolto particolarmente, si ha sempre paura di non riuscire a dire tutto oppure farlo in modo sbagliato; sensazione ancora più strana se poi certe emozioni ci sono state suscitate non da un romanzo, ma piuttosto da un saggio.

L’immagine mefistofelica di Giuliano Dami non ne esce molto diversa da quella descritta dal manoscritto; le fonti fredde degli archivi confermano in buona parte l’anima meschina ed egoista dell’aiutante di camera di Gian Gastone de’ Medici e anzi, se possibile, la rendono ancora più enigmatica.

Colui che sarebbe potuto divenire il più importante ministro della Corte medicea, il rappresentante di un Granduca colto, raffinato, sensibile e illuminato, dal quale avrebbe potuto attingere quella cultura e quell’educazione che per nascita gli erano mancate, preferì invece servirsene per i propri scopi miserabili e gretti, passando alla storia come un uomo abbietto che non conobbe mai il significato delle parole carità e onore, un uomo che condannò all’eterno biasimo se stesso e colui la cui più grande colpa fu quella di averlo, nella sua immensa solitudine, accolto come un sincero amico a cui affidarsi.




lunedì 13 settembre 2021

Colle Val d’Elsa - San Miniato

Siamo arrivati all’ultimo post dedicato alla mia vacanza in Toscana.

Famosa per la produzione di cristallo Colle Val d’Elsa è arroccata su un alto poggio e presenta tutte le caratteristiche degli antichi borghi. 



Sono sinceramente rimasta un po’ stupita dal fatto che nonostante le sue evidenti potenzialità questo paese non sia molto visitato. 



Non saprei dirvi se a dissuadere i turisti sia la parte bassa del paese ossia Colle Bassa così chiamata per differenziarla dalla parte più antica appunto denominata Colle Alta. In effetti la distesa disordinata di edifici che caratterizza la parte moderna della città ha dissuaso anche me per anni dal visitare l’antico borgo.



Colle Val d’Elsa diede i natali ad Arnolfo di Cambio. La torre di Arnolfo, una delle varie case torri presenti, è così chiamata proprio perché vi nacque il celebre scultore e architetto.



Poco più avanti della torre di Arnolfo troviamo la piccola chiesa romanica di Santa Maria in Canonica costruita nei XII-XIII secolo, ma le cui origini si ritengono ancora più antiche. All’interno di notevole pregio la pala d’altare opera di Pier Francesco Fiorentino raffigurante la Madonna con bambino e santi.



Non sono riuscita purtroppo a visitare il Museo civico e d’arte sacra. Un buon motivo per tornare a Colle Alta, voi che ne dite?



Ultima tappa, prima di ripartire sulla via di Pisa, mi sono fermata a San Minato che si trova più o meno a metà strada tra Pisa e Firenze.  



Raggiungere il suo centro storico richiede una buona dose di fiato perché è situato in cima ad una collina a circa 4 km dall’abitato di San Miniato Basso. La fatica però è ben ripagata perché raggiunta la rocca si gode di una stupenda vista della campagna circostante.



La torre di Federico II si deve alle modifiche federiciane della fortificazione che già Ottone I aveva voluto come sede dei vicari imperiali. 

La rocca costituiva il nucleo interno di un ampio circuito difensivo del quale facevano parte la torre di Matilde, l’attuale campanile della Cattedrale, e la torre delle cornacchie, abbattute del XVIII secolo.  

La torre fu distrutta nel 1944 e ricostruita secondo le forme originali.



Nel XIII canto dell’Inferno nella selva dei suicidi Dante incontra il personaggio di Pier Delle Vigne, tesoriere e segretario di Federico II, che accusato di tradimento e corruzione venne imprigionato e accecato. Si narra che Pier delle Vigne venne imprigionato proprio nella rocca di San Miniato.


Ai piedi della rocca un masso riporta incise le parole di Dante a lui dedicate:


“Io son colui che tenni ambo le chiavi del Cor di Federigo, e che le volsi, serrando e disserrando, sì soavi che dal secreto suo quasi ogn'uom tolsi: fede portai al glorioso offizio, tanto ch'i ne perde' li sonni e' polsi."






domenica 12 settembre 2021

L’Albergaccio (Casa di Machiavelli)

Quest’estate sono riuscita a realizzare un sogno: visitare l’Albergaccio! Sì, lo so che Niccolò Machiavelli è un personaggio che ai più non è molto simpatico, ma io sin da ragazzina ho sempre nutrito per lui una vera passione.

Ringrazio soprattutto Villa Machiavelli che, nonostante fossero occupatissimi nell’allestimento per un matrimonio, mi hanno permesso lo stesso di visitare la casa museo di cui loro sono custodi e proprietari.






Non ci provo neppure a descrivervi l’emozione di poter camminare per quelle stanze e visitare lo studio dove venne scritta la sua opera più famosa: Il Principe. 







Da Sant’Andrea in Percussina si scorge in lontananza Firenze con la sua meravigliosa cupola. Chissà cosa avrà provato Niccolò ogni volta che guardava in quella direzione, lui esiliato in campagna, lontano dalla sua amata attività politica… Sto diventando troppo sentimentale, vero?



Al rientro dei Medici a Firenze nel 1512, Niccolò Machiavelli dopo essere stato incarcerato e torturato, perché accusato di aver preso parte alla congiura antimedicea, venne esiliato a San Casciano Val di Pesa. San’Andrea in Percussina dove si trova l’Albergaccio, è appunto una frazione di San Casciano.


Di come trascorresse i suoi giorni è rimasta traccia soprattutto in una lettera che Machiavelli scrisse all’amico Vettori, datata 10 dicembre 1513, nella quale egli racconta di come passasse il tempo del giorno ad occuparsi dei suoi poderi, a giocare a tric-trac all’osteria e di come alla sera invece “rivestito condecentemente” entrasse “nelle antique corti degli antiqui uomini” per discorrere e ragionar con loro.





La famiglia Machiavelli era suddivisa in più rami. Il ramo in cui nacque Niccolò si estinse nel XVII secolo e i suoi successori furono i Conti Serristori di Firenze che detennero il possesso di queste terre fino al passaggio all’attuale proprietà che ha provveduto a restaurare Casa Machiavelli in modo accurato facendone un museo molto suggestivo.




Un consiglio: fate una sosta e fermatevi a mangiare a Villa Machiavelli non ve ne pentirete! La coppa Machiavelli, una variante di tiramisù con cantucci e vin santo, è qualcosa di divino…