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sabato 24 novembre 2018

“Dante. Una vita in esilio” di Chiara Mercuri


DANTE
UNA VITA IN ESILIO
di Chiara Mercuri
EDITORI LATERZA
Non è facile comprendere oggi cosa davvero significasse nell’Italia del Trecento essere mandati in esilio.
Essere cacciati non comportava esclusivamente dover lasciare la propria città, il proprio nido per mai più farvi ritorno, ma voleva dire perdere tutto sia dal punto di vista economico che dal punto di vista morale ed affettivo.
I beni confiscati, la casa distrutta pietra a pietra erano solo gli effetti tangibili dell’esilio, ma ciò che più di ogni altra cosa decretava la rovina dell’esule era dover fare i conti, giorno dopo giorno, con la propria dignità calpestata, con la freddezza e l’imbarazzo degli amici, con la consapevolezza che i propri figli avrebbero pagato duramente per le colpe dei padri.

Il libro di Chiara Mercuri parte proprio da questi aspetti per raccontarci la vita e le opere di Dante Alighieri.

La prima parte del libro si focalizza su Firenze e sugli scontri sempre più accesi che nacquero tra le due opposte fazioni, quella dei Guelfi Bianchi capitanata dalla famiglia Cerchi  e quella dei Guelfi Neri capeggiata dalla famiglia Donati.
La lotta andava ben oltre una mera questione politica che contrapponeva la benevolenza dei Bianchi nei confronti dell’Impero al vigoroso sostegno dei Neri nei confronti del Papato, in verità quello per cui si combatteva davvero era il dominio sulla città di Firenze.

stemma dei Cerchi
I Cerchi erano una famiglia nuova, arrivata dal contado, che in poco tempo, grazie alle ricchezze derivanti dal commercio, era diventata una delle famiglie più ricche d’Europa.
Al contrario i Donati, famiglia di antico lignaggio, ancora legati all’immagine di un tempo per cui la nobiltà si misurava con le armi e non col il dialogo ed il fiorino, mal digerivano l’avanzata di questi parvenu che amavano ostentare il loro ingente patrimonio.

Due furono le grandi passioni di Dante Alighieri: la politica e la poesia.

Così, se la prima parte del libro è dedicata alla sua attività politica, la seconda parte è incentrata sulla sua poetica e sulla genesi delle sue opere letterarie.
stemma dei Donati
L’approccio alle opere di Dante che Chiara Mercuri propone è lontano da quello  scolastico a cui la maggior parte dei lettori è abituato; quello della Mercuri è un approccio più vivo, più intimo che coinvolge il lettore rendendolo partecipe della vita del poeta, tanto che, per la prima volta, riusciamo a provare empatia nei confronti dell’uomo del quale ognuno di noi sui banchi di scuola ha sempre percepito la grandezza, ma anche un certo straniamento.
Chiara Mercuri ci regala un’immagine di un Dante decisamente meno distaccato; facciamo così la conoscenza di un uomo appassionato di politica, un amico fedele, un letterato moderno, un padre in pena per i figli, un cittadino preoccupato per la sua città.

Il Dante di cui leggiamo nelle pagine del libro di Chiara Mercuri è un personaggio scomodo per la Firenze dell’epoca perché, proprio a causa di quell’amore che egli prova per la sua città, non desiste mai dal denunciarne pubblicamente, con le sue epistole e con le sue opere, i mali e vizi  che la affliggono: corruzione, violenza e cupidigia.

Dante condanna pesantemente Vieri de’ Cerchi per non aver reagito con decisione nel momento cruciale; non gli perdona di aver temporeggiato, di aver rimandato lo scontro con Corso Donati, un uomo violento e nemico delle leggi.
Secondo le accuse di Dante Vieri de’ Cerchi si sarebbe fatto rovinare per tirchieria, per paura di sperperare denaro pagando armati che difendessero il suo partito, ma come giustamente  l’autrice ci ricorda, per quanto sia nostro desiderio essere solidali con Dante, non possiamo esimerci dal notare che i Cerchi pagarono  a caro prezzo l’atteggiamento del loro capo poiché la loro famiglia tra le più ricche d’Europa venne di colpo spazzata via.

“Dante. Una vita in esilio” è un libro che, pur presentando diverse inesattezze storiche,  risulta una lettura interessante perché porge notevoli spunti di riflessione sulla vita del poeta e sulla Firenze del suo tempo.

La scrittura scorrevole, lo stile appassionato ed i puntali e numerosi riferimenti alle opere di Dante rendono la lettura del libro piacevole come se si trattasse di un romanzo.

Gli errori riportati nel libro, possiamo citarne ad esempio uno molto evidente ovvero Beatrice sposata a Forese Donati anziché a Simone de’ Bardi, pesano indubbiamente sulla sua veridicità, così da non poterlo ritenere un saggio valido ed affidabile.

A dispetto di tutto però non mi sento di sconsigliarne la lettura perché il libro di Chiara Mercuri ha, nonostante gli evidenti limiti, una grande pregio ossia quello di saper risvegliare in noi l’interesse nei confronti delle opere di Dante, ma soprattutto, servendosi di accostamenti con quella contemporanea, di risvegliare il nostro interesse nei confronti della politica dell’epoca.




martedì 1 maggio 2018

“La fortuna dei Medici” di Tim Parks


LA FORTUNA DEI MEDICI
di Tim Parks
BOMPIANI
Contesa dallo Stato Pontificio e dal Sacro Romano Impero, l’Italia del Quattrocento era frammentata in cinque stati principali: il Regno di Napoli, lo Stato Pontificio, Firenze, Milano e Venezia.
Completavano il quadro una nutrita serie di piccoli stati, i cui Signori si offrivano, come condottieri mercenari a capo del proprio esercito, ai grandi stati, in modo tale da poter rimanere solvibili e indipendenti.

Il libro di Tim Parks si propone di raccontare l’ascesa della famiglia Medici e di come questa abbia influenzato la nostra percezione del rapporto che intercorre tra cultura e sistema finanziario, contribuendo a radicare in noi l’atteggiamento di sospetto che spesso proviamo di fronte all’attività bancaria e alla finanza internazionale.

Il Quattrocento fiorentino vide all’opera cinque generazioni della famiglia Medici; la loro banca rimase aperta poco meno di cent’anni.

Nel 1397 Giovanni di Bicci fonda la banca insieme ad alcuni soci, a lui si deve non solo lo sviluppo iniziale del banco, ma anche l’inaugurazione dello stile Medici.
Sul letto di morte lascia un monito ai figli “Non vi fate segno al popolo, se non il meno che voi potete”, ovvero esponetevi il meno possibile. Ciò non significa assolutamente che essi debbano rinunciare al potere politico, ma piuttosto che, proprio nell’intento di acquistarne, sarebbe meglio per loro mantenere un profilo basso.

Cosimo de’ Medici, contravviene fin da subito al consiglio paterno, ma sotto di lui la banca raggiungerà la sua massima espansione.
Si muove deciso verso la politica e di fatto governa la repubblica fiorentina fino alla sua morte; il governo della città omaggerà il defunto Cosimo conferendogli il titolo di Pater Patriae.

Quando Piero de’ Medici, conosciuto anche come Piero il Gottoso, assume però il controllo della banca, che manterrà per solo cinque anni (1464 – 1469), questa ha già iniziato il suo declino.

Cosimo de' Medici
Piero riesce comunque a consegnare un patrimonio più o meno intatto nelle mani del figlio, Lorenzo de’ Medici, meglio conosciuto come Lorenzo il Magnifico.
Lorenzo, per cui il padre aveva scelto come moglie una Orsini, aspira all’aristocrazia e questa mentalità è destinata a cambiare radicalmente lo stile che aveva contraddistinto fino ad allora la famiglia Medici.

Cosimo de’ Medici amava collezionare libri, reliquie, oggetti d’arte; amava circondarsi di filosofi, pittori, architetti, ma era anche un mecenate che commissionava opere d’arte figurative e architettoniche, opere anche di interesse pubblico.
Lorenzo de’ Medici ama anch’egli circondarsi di letterati, filosofi e poeti, egli stesso si dedica alla poesia con ottimi risultati, ma il suo mecenatismo è espresso per lo più sotto forma di collezionismo privato.

L’ultimo Medici del Quattrocento, Piero di Lorenzo, diviene subito noto come Piero il Fatuo, dimostrandosi fin da subito un incompetente, sancisce il definitivo crollo della banca nel 1494, dandosi alla fuga durante l’assedio di Firenze da parte delle truppe francesi.
                                                              
I nuovi Medici del Cinquecento e del Seicento faranno di tutto per crearsi un’aura di legittimità e, per riuscirci, sarà necessario che la gente dimentichi prima possibile l’immagine dei loro antenati seduti dietro quel tavolo, coperto da un panno verde, in via Porta Rossa, intenti a stilare ambigue operazioni di cambio.

Sulla famiglia Medici del Quattrocento sono stati scritti numerosissimi volumi, il libro di Tim Parks si distingue da questi proprio per non essere né un noioso saggio troppo specializzato su uno specifico ambito (politica, arte, finanza) né una banale biografia romanzata dei personaggi dell’epoca.

Tim Parks attraverso la storia della banca dei Medici ci racconta la storia dell’Italia del Quattrocento e di come Firenze, proprio grazie alla banca dei Medici, abbia saputo giocare un ruolo fondamentale all’interno del quadro politico della nostra penisola e dell’Europa; non si può infatti dimenticare che dai prestiti erogati dal loro banco dipendevano i sovrani delle più importanti corti europee.

L’argomento trattato, soprattutto per quanto riguarda l’attività bancaria, è piuttosto ostico, ma Tim Parks è davvero bravo a rendere ogni cosa comprensibile e chiara per il lettore che viene introdotto in questo strano mondo dove l’usura era per la Chiesa il peccato più grave di cui ci si potesse macchiare, salvo poi non farsi scrupolo a ricorrervi lei stessa, facendo uso di sotterfugi ed espedienti astutamente studiati dai banchieri.

“La fortuna dei Medici” ci porta alla scoperta dell’arte del cambio e della sua storia, delle diverse monete (il fiorino, il picciolo, la lira a fiorino, il quattrino bianco), del complesso sistema della holding creata dai Medici, dell’attività svolta dai banchi di pegno, ci spiega la differenza tra la “banca a minuto” e le “banca grossa”, ci illustra cosa fossero i “doni” riconosciuti agli investitori e cosa si intendesse con l’espressione “deposito a discrezione”.

La città di Firenze nel Quattrocento aveva un’organizzazione repubblicana o comunque era retta da un governo di tipo semi-democratico, ciò aveva indubbiamente facilitato l’ascesa della famiglia Medici.
Cosimo, grazie alla propria disponibilità finanziaria, era stato in grado di sostenere la propria carriera politica consolidando la propria immagine e il proprio potere anche grazie all’investimento di denaro nell’arte e nella cultura.

Cappella dei Magi - Benozzo Gozzoli
Arte, finanza e teologia erano le basi su cui si fondavano il prestigio e il potere raggiunti dalla famiglia Medici nel Quattrocento, un secolo di rinnovamento culturale, artistico e filosofico nel quale vennero gettate le basi del pensiero moderno.

Tim Parks nel suo saggio passa in rassegna cinque generazioni, i cui membri, ci fa simpaticamente notare, avevano in comune tra loro tre caratteristiche: erano tutti molto brutti, afflitti dalla gotta e avidi collezionisti.

Lorenzo il Magnifico è senza dubbio l’esponente di spicco della famiglia, quello che ha goduto di maggiore fama nel corso dei secoli, venendo oggi ricordato come il signore più famoso di Firenze.
Eppure, il vero artefice della fortuna di questa famiglia fu Cosimo de’ Medici, perspicace, intelligente, abile manipolatore, senza le sue indiscusse qualità di abile politico e capace banchiere, nulla sarebbe stato possibile.

“La fortuna dei Medici” è un saggio affascinante, scritto in modo semplice e coinvolgente, che invoglia il lettore ad approfondire ulteriormente gli argomenti trattati e lo spinge a visitare Firenze per passeggiare in quei luoghi che gli hanno tenuto compagnia durante la lettura e che, seppur magari già visitati, verrebbero ora visti con occhi diversi.







martedì 20 febbraio 2018

“Niccolò Paganini” (Genova, 27 ottobre 1782 – Nizza, 27 maggio 1840)


Niccolò (o Nicolò) Paganini nacque a Genova nel 1782. Violinista, compositore, chitarrista, Paganini fu un personaggio decisamente originale e fuori dagli schemi.

Che tipo fosse lo si percepisce già analizzando le problematiche legate alla sua data di nascita che spesso viene erroneamente indicata come il 18 febbraio 1784. Il motivo? Paganini avrebbe voluto ringiovanirsi a scopi matrimoniali come si evince da una lettera che egli stesso scrisse all’amico Luigi Germi, suo consigliere e confidente.

Niccolò Paganini aveva un carattere particolare, eccentrico e stravagante, tendeva ad assumere un atteggiamento cauto e diffidente persino nei rapporti con i famigliari.

Era un uomo particolare, spesso tacciato di tirchieria, ma capace allo stesso tempo di stupire tutti con grandi slanci di generosità accettando spesso di suonare per beneficenza.

Questo suo apparire come un tipo inquietante e misterioso insieme alle sue indiscusse e straordinarie capacità esecutive, di cui molti erano invidiosi, furono le ragioni principali per le quali, nel corso della sua esistenza, si diffusero sul suo conto infinite dicerie su un qualche patto da lui stretto con il diavolo in persona.

Qualche anno fa è uscito nelle sale cinematografiche un film intitolato Il violinista del diavolo(Germania 2013) dove Niccolò Paganini veniva interpretato dal violinista David Garrett.
Il film racconta del periodo in cui Niccolò Paganini era all’apice della carriera, impegnato in una lunga serie di concerti in tutta Europa che lo portarono fino a Londra.
Il film a livello biografico non è proprio riuscitissimo, ma riesce a rendere perfettamente l’idea di cosa rappresentasse Niccolò Pagani per i suoi contemporanei.

Egli può essere davvero definito la prima rock star della storia in senso moderno.

Niccolò Paganini arrivò a tenere oltre 150 concerti in un solo anno in località diverse, viaggiando in carrozza e con difficoltà che al giorno d’oggi non possiamo neppure immaginare.
Poteva permettersi di raddoppiare i prezzi dei biglietti dei suoi concerti, tanto la folla vi sarebbe accorsa sempre e comunque.
Ovunque egli suonasse il pubblico era in delirio e per dare meglio l’idea vi riporto quanto scritto su “Allegemeine Theaterzeitung” del 5 aprile 1828:

(…) nelle sue mani il suo violino suona più efficace della voce umana. La sua anima ardente penetra ogni cuore, e ogni cantante potrebbe imparare moltissimo da lui. Ma queste affermazioni sono del tutto insufficienti ad esprimere l’impressione che si prova quando egli suona. Bisogna ascoltarlo ripetutamente per credere.

Leggendo la critica così entusiasta a noi oggi resta il rammarico che non esistano registrazioni dell’epoca; cosa non si darebbe per poter assistere ad un concerto di Paganini o almeno potere ascoltare la sua musica!

A Vienna il pubblico fu talmente colpito dalla figura di Paganini che persino la moda venne influenzata dal suo personaggio: furono lanciati sul mercato scialli, fazzoletti, cappelli e scarpe “alla Paganini” e non solo, ma addirittura bistecche e frittate! La moneta austriaca di maggior valore fu addirittura chiamata “Paganinerl” (Paganinetto), con chiara allusione ai prezzi non proprio economici dei biglietti per poter assistere alle sue accademie.

Pagani terminò la sua vita terrena senza neppure immaginare quali traversie avrebbe dovuto subire prima di riuscire a trovare un meritato e definitivo riposo nel cimitero della Villetta di Parma.

Paganini infatti non ebbe né funerali né sepoltura in terra consacrata. Subito dopo il decesso il suo corpo fu imbalsamato e restò quasi due mesi nella cantina della casa in cui morì fino a quando le autorità sanitarie non diedero in nullaosta per il trasferimento del corpo a Genova, dove fu sepolto nella proprietà di famiglia in Val Polcevera.
Solo nel 1876, 36 anni dopo la sua morte, fu finalmente annullato il decreto di empietà emesso dal Vescovo di Nizza e la salma di Paganini poté finalmente essere sepolta in terra consacrata nel cimitero di Gaione prima ed in seguito nel cimitero della Villetta.

Un ultimo accenno deve essere fatto al famoso violino di Paganini, costruito da Giuseppe Guarnieri del Gesù e datato 1743, detto “Il Cannone”.
Niccolò Paganini fu cittadino del mondo, ma rimase sempre molto legato alla sua Genova. Per questo decise di lasciare in eredità il suo violino alla sua città natale come si legge nel suo stesso testamento:

Lego il mio violino alla Città di Genova onde sia perpetuamente conservato.

E proprio qui, a Genova, il Cannone è ancora oggi esposto nella cosiddetta Sala Paganiniana di Palazzo Tursi (Musei di Strada Nuova), sede del Comune di Genova, insieme alla sua copia appartenuta all’allievo Camillo Sivori da cui questo secondo violino prende il nome e ad altri cimeli paganiniani.

Due sono infine i libri che vi voglio segnalare:

“Nicolò Paganini – il cavaliere Filarmonico” di Edward Neill (De Ferrari Editore)

Il volume di Edward Neill è una biografia che cerca di restare il più possibile attinente ai fatti legati alla vita artistica di Paganini.
Spesso infatti la tendenza scrivendo di questo personaggio è di ricamare sulla sua vita facendo congetture spesso fantasiose che tendono a trasformare Niccolò Paganini in un protagonista da romanzo da appendice.
Edward Neill raccoglie informazioni attraverso le lettere stesse di Paganini, ma soprattutto attraverso la critica contemporanea e le recensioni dei concerti, cercando di portare alla luce l’opera dell’artista.
Neill cerca infatti di raccontare i concerti oltre alle emozioni suscitate dalla musica di Paganini nel pubblico e negli addetti ai lavori; il suo intento è proprio quello di renderci partecipi della musica eseguita da Paganini nelle accademie da lui tenute.
Il volume è molto esaustivo, ma risulta spesso di non facile interpretazione per chi non è esperto conoscitore di musica.


“Niccolò Paganini – Espitolario (Volume I, 1810 – 1831)” a cura di Roberto Griesley (SKIRA)
                                     
Il piano editoriale prevedeva un secondo volume di lettere, ma ad oggi non ci sono notizie in merito ad un’uscita a breve dello stesso.
“L’epistolario” è un libro intrigante ed affascinante che ci aiuta a conoscere meglio “l’uomo Paganini”.
Se per certi aspetti è uno degli epistolari meno interessanti che siano stati scritti da un musicista, per altri aspetti infatti è un’opera fondamentale per esempio perché al di là dei contenuti, costituisce una preziosa testimonianza per la storia della lingua italiana parlata nei primi dell’Ottocento oltre che per il dialetto genovese.
Le sue non sono lettere scritte per i postumi, ma sono conversazioni di vita quotidiana.
La corrispondenza di Paganini comprende lettere ai famigliari, lettere d’affari, lettere ai giornali ecc.
Attraverso l’epistolario riusciamo a conoscere i tratti più salienti del carattere di Niccolò Paganini, veniamo a conoscenza delle sue idee sulla musica, delle sue storie sentimentali, del rapporto con la madre, dei viaggi da lui compiuti...

Due volumi molto diversi tra loro, ma complementari, entrambi utilissimi per riuscire a farsi un’idea a 360° di questo genio del violino in grado di affascinare ancora il pubblico oggi come ieri.

Ma Paganini è un’altra cosa, è l’incarnazione del desiderio, dello sdegno, della pazzia e del dolore. Il violino è semplicemente lo strumento attraverso il quale egli esprime se stesso.
(Heinrich F.L. Rellstab 1799-1860)





domenica 14 gennaio 2018

“25 grammi di felicità” di Massimo Vacchetta con Antonella Tomaselli

25 GRAMMI DI FELICITA’
di Massimo Vacchetta
con Antonella Tomaselli
SPERLING & KUPFER
25 grammi sono il peso di un cucciolo di riccio, un esserino piccolo piccolo, la cui fragile esistenza per la maggior parte delle persone potrebbe forse non contare nulla, ma che per un uomo sensibile ed altruista come Massimo Vacchetta acquistano un enorme significato.

Il libro è nato dalla collaborazione tra il veterinario Massimo Vacchetta, protagonista della storia, e la scrittrice Antonella Tomaselli.

La storia racconta di come Massimo Vacchetta, grazie all’incontro con Ninna, la piccola riccetta incontrata per caso nello studio veterinario di un collega, sia riuscito ad uscire da un periodo buio della sua vita, un periodo in cui, assalito da dubbi e disorientato, si dibatteva per cercare qualcosa che riuscisse nuovamente ad entusiasmarlo.

Il rapporto con Ninna, la lotta giornaliera per riuscire ad alimentarla nel modo corretto, la gioia nel vederla crescere sono riusciti a ridargli quell’entusiasmo perso negli anni.

Proprio dall’amore per questa cucciolina nascerà l’idea di aprire un centro per soccorrere e curare i ricci in difficoltà: il Centro di Recupero Ricci “La Ninna”.

Attraverso le pagine di questo bellissimo romanzo farete la conoscenza di altri piccoli ospiti del centro come Trilly, Ninno, Selina…e anche di diversi umani, persone speciali nella vita del protagonista come i suoi famigliari ed i suoi amici, ma anche tante persone incontrate sulla via della realizzazione del suo sogno.

Nel racconto Massimo Vacchetta si apre al lettore raccontando tutto se stesso e l’amore che egli prova non solo per questi splendidi esemplari, ma per tutti gli animali e per la natura in genere.

“25 grammi di felicità” è uno di quei libri che riaccende la speranza in tutti noi che un mondo migliore sia possibile, un mondo in cui anche il più piccolo abitante della terra ottenga il rispetto e l’amore che gli spettano.

Nel libro vengono raccontate particolarità e curiose caratteristiche proprie di questi piccoli animali, minacciati continuamente dalla disattenzione dell’uomo.

Ci sono molte cose che potrei  anticiparvi come ad esempio l’alimentazione o l’aspetto dei riccetti di poche settimane, le difficoltà per aprire un centro che collabori con il CRAS ovvero il Centro di Recupero per Animali Selvatici, ma credo che sia meglio lasciarvi scoprire ogni cosa attraverso la lettura.

Pensavo sarebbe stato facile parlarvi di questo libro perché è stata una lettura appassionante e coinvolgente, ma mi sbagliavo. Dovrei ormai sapere che scrivere di un libro che ti commuove è tutt’altro che semplice.

“25 grammi di felicità” è un libro appassionante e toccante; le emozioni non sono mai facili da descrivere, bisogna provarle ed è per questo che consiglio la lettura di questo splendido libro.

Nel libro viene riportata una frase che Massimo Vacchetta ricorda di aver letto in un sito internet di appassionati di ricci, un pensiero che egli sente di condividere pienamente:

“Ogni tuo giorno non sarà vissuto pienamente se non farai qualcosa per qualcuno che non potrà mai ripagarti”.

Condivido anch’io questo bellissimo pensiero, ma credo anche che alla fine la nostra ricompensa stia proprio nel sapere di aver fatto qualcosa di importante per qualcun altro che sia un animaletto in difficoltà, un albero o una persona.

Ognuno di noi ha la possibilità di essere utile alla causa, magari non con una presenza costante a causa degli impegni o della distanza dal luogo nel quale si vorrebbe portare il proprio aiuto, ma come Massimo Vacchetta ci insegna ci sono mille modi per fare sentire la nostra presenza: ad esempio attraverso un’attività a distanza svolta in rete o anche più semplicemente attraverso delle donazioni.
Non ci sono scuse plausibili quando si è davvero motivati e Massimo Vacchetta ne è davvero un valido esempio.

“25 grammi di felicità” non è una storia malinconica anche se è vero che ci sono alcune pagine un po' più tristi, ma anche le cose negative, gli insuccessi fanno parte della vita e bisogna saperli accettare per crescere e per migliorarsi.

I ricci sono animali selvatici e come tali devono vivere liberi nel loro habitat. Come tutti gli animali soccorsi dal CRAS, anche loro, una volta guariti, devono essere rimessi in libertà, è giusto che tornino alla loro vita.
Liberarli non è mai semplice per chi si è occupato di loro, li ha cresciuti, nutriti, curati, ma nella malinconia di doversi separare da loro, c’è sempre la gioia di sapere che è per il loro bene perché “amore è anche comprendere, accettare e rispettare la natura di un altro essere. (…) Il vero amore non chiede nulla in cambio”.

Se amate gli animali e la natura che vi circonda, "25 grammi di felicità" è il vostro libro e con l’acquisto del volume inoltre contribuirete a sostenere il Centro di Recupero Ricci “La Ninna” di Massimo Vacchetta.


Se volete saperne di più sul centro:





domenica 3 settembre 2017

“Un uomo” di Oriana Fallaci (1929 - 2006)

UN UOMO
di Oriana Fallaci
BUR Rizzoli
“Un uomo” è la storia della vita di Alekos Panagulis, eroe della Resistenza greca.

Il 13 agosto 1968 Panagulis collocò delle bombe sotto ad un ponticello sul quale sarebbe dovuta passare l’auto del militare a capo del regime, Georgios Papadopulos.
L’attentato fallì, Alekos fu catturato, interrogato e condannato a morte. La pena fu poi commutata in prigionia a vita.
Fu segregato in una cella dall’aspetto di una tomba e per cinque anni egli subì atroci torture, torture che la Fallaci descrive minuziosamente nel libro.
Nel 1973, grazie ad una amnistia, Panagulis venne graziato.
Inviata in Grecia da “L’Espresso” per un’intervista, Oriana Fallaci conobbe Alekos il 23 agosto, proprio lo stesso giorno della sua liberazione.
I due si innamorarono immediatamente dando così inizio a una tormentata relazione sentimentale che durerà fino alla morte di Panagulis.
Non senza difficoltà Alekos ottenne il permesso di lasciare la Grecia per recarsi in esilio volontario.
Dopo la fine della dittatura rientrò in patria e, eletto in Parlamento, si adoperò in ogni modo per dimostrare che il potere era ancora in mano a quegli stessi uomini che appartenevano alla deposta Giunta.
Costantemente sorvegliato, utilizzando ogni tipo di sotterfugio e spesso a rischio della sua stessa vita, Panagulis riuscì a mettere le mani sui documenti compromettenti dell’Esa.
Fu proprio per impedirgli di rendere pubblici tali documenti che, il primo maggio 1976 all’una e 58 del mattino, Alekos Panagulis venne assassinato inscenando un incidente automobilistico. Il colpevole se la cavò in appello con una multa di cinquemila dracme per omissione di soccorso.

“Un uomo” è il libro di denuncia che Panagulis avrebbe scritto se non fosse stato assassinato.
Oriana Fallaci, quella compagna che egli definì “una buona compagna. L’unica compagna possibile” accolse la sua eredità, come lei stessa dichiarò, più per un dovere morale che per un dovere sentimentale.
Lo scopo del libro era accusare quel Potere che aveva ucciso l’uomo che amava, potere che proprio nel libro viene denunciato e condannato.

“Un uomo” di Oriana Fallaci è un racconto di avventure drammatiche che, sebbene scritto sotto forma di romanzo, narra fatti realmente accaduti e ogni elemento è esposto con una ricchezza di particolari precisa e minuziosa.

Alekos Panagulis era un uomo solo, un po’ folle e ossessionato dalle proprie idee. 
Un uomo, se vogliamo, anche egoista ed egocentrico, spesso troppo schiavo della superstizione.
Ma egli credeva nella lotta per la libertà ed era, sopra ogni cosa, un uomo assetato di giustizia.
Come egli stesso ripeteva la tragedia era nata in Grecia e si “basa su tre elementi: l’amore, il dolore e la morte”. Tre elementi che tormentarono Panagulis per tutta la vita facendone proprio un eroe tragico.

Il romanzo è però anche il racconto della storia d’amore tra la scrittrice e giornalista italiana e l'eroe .
Un amore totalizzante, passionale e tormentato che Oriana Fallaci descrive in modo attento e preciso, riuscendo a trasmettere al lettore tutta l’intensità e il dolore insiti in questo sentimento che la legava a Panagulis.

Lei che non si era ma riconosciuta in una Penolope che attende il ritorno dell’eroe, ma era lei stessa abituata a essere Ulisse e come tale a comportarsi, improvvisamente si era ritrovata per quest’uomo a tradire la sua stessa natura.

Nel libro leggiamo “Ti amavo a tal punto di non poter sopportare l’idea di ferirti pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate”.

L’amore della Fallaci per Panagulis era un amore “più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile” da non poter più nemmeno concepire la vita senza di lui.

Era il loro “un amore del genere più pericoloso che esista: l’amore che mischia le scelte ideali, gli impegni morali, con l’attrazione e coi sentimenti”.

Domenico Procacci nella prefazione al romanzo scrive “in fondo ce lo meritiamo tutti di avere qualcuno che amiamo così tanto da non preoccuparci mai che il nostro sia un amore ricambiato, qualcuno che ci possa fare accelerare il cuore e fermare il respiro chiamandoci magari da lontano, e dicendo – Sono io, sono me”.

Se ero rimasta piacevolmente colpita dalle parole di Procacci, dopo la lettura del romanzo la mia sicurezza in merito è vacillata non poco.
Non dovrebbe essere l’amore qualcosa che ci fa stare bene? Come può definirsi amore qualcosa che snatura noi stessi? Che ci fa soffrire? Si può davvero augurare a qualcuno di provare un sentimento del genere che annichilisce e stordisce, che diviene “una fatica agonizzante”?
Eppure anche una donna come la Fallaci, una donna forte e indipendente, non è riuscita a sottrarsi a questo amore malato, un amore che lei stessa ha definito “più di una malattia, un cancro”, “un problema insolubile” a cui neppure la fuga avrebbe potuto porre rimedio.

La relazione tra la Fallaci e Panagulis durò solo tre anni, ma viene naturale interrogarsi su cosa sarebbe accaduto se Alekos fosse sopravvissuto.
Forse come lui stesso disse alla sua compagna poco prima di essere assassinato, la morte è un’alleata dell’amore perché in verità “nessun amore al mondo resiste se non interviene la morte. Se vivessi a lungo, finiresti col detestarmi. Poiché morirò presto, invece, mi amerai per sempre”.






domenica 2 luglio 2017

“Lorenzo de’ Medici” di Giulio Busi

LORENZO DE’ MEDICI
di Giulio Busi
MONDADORI
Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico (1449 - 1492) è uno dei personaggi più rappresentativi della storia italiana e del XV secolo.

Il Quattrocento fu un’epoca in cui a tanto fasto corrispose altrettanto pericolo, un’epoca in cui i banchieri giocarono un ruolo fondamentale, un secolo nel quale in Italia si ebbero cinquant’anni di guerra senza esclusione di colpi e cinquant’anni di pace e stabilità.

Il Lorenzo de’ Medici con cui facciamo conoscenza nell’interessante libro di Guido Busi, è un personaggio intrigante e affascinante, un intellettuale che ebbe tra le mani un enorme potere politico, ma anche una piena consapevolezza della propria ricca e vasta cultura .

Buon politico e mediocre banchiere, ottimo poeta e scadente stratega il Magnifico è destinato a dominare la scena fin dalla nascita o meglio dal suo battesimo avvenuto il giorno dell’Epifania del 1449 alla presenza di padrini di tutto rispetto.
Erano infatti presenti tra gli altri l’arcivescovo di Firenze, gli ufficiali del reggimento cittadino e persino il superbo signore d’Urbino, Federico da Montefeltro, aveva inviato un proprio uomo a rappresentarlo.

L’epoca del Magnifico era un mare periglioso, un mondo fatto di sorrisi e pugnalate alle spalle, in cui vinceva chi meglio sapeva dissimulare e Lorenzo de’ Medici, buttato nella mischia ancora giovanissimo, imparò fin da subito a cavalcare le onde dell’infida distesa marina della politica.

Con queste parole egli descrisse nel suo diario personale, verso la fine dei suoi giorni, l’incontro con i notabili di Firenze che vennero ad offrirgli il potere sulla città:

Il secondo dì dopo la morte di mio padre, quantunque io Lorenzo fussi molto giovane, vennono a noi a casa i principali della città e dello stato a dolersi del caso e confortarmi ché pigliassi la cura della città e dello stato come avevano fatto l’avolo e il padre mio, le quali cose, per essere contro la mia età e di grave carico e pericolo, malvolentieri accettai e solo per la conservazione degli amici e sostanze nostre, perché a Firenze si può mal vivere senza lo stato.

Lorenzo de’ Medici viene ricordato non solo per la sua politica e per il potere che esercitò su Firenze, potere che detenne saldamente senza mai mostrarlo apertamente, ma anche per il suo gusto raffinato per l’arte e la letteratura, per i suoi versi e per il cenacolo di intellettuali ed artisti che era solito riunirsi nel palazzo di via Larga o nelle ville di proprietà della famiglia.

Lorenzo de’ Medici è uno dei personaggi più noti della storia e proprio per questo nel corso dei secoli sono stati versati fiumi di inchiostro su di lui.
Perché allora scegliere di leggere proprio il libro di Giulio Busi?

Perché la biografia scritta dal professor Busi è arguta e divertente, ma allo stesso tempo rigorosa e precisa nelle fonti, tanto che alla bibliografia è dedicato un intero capitolo del volume, intitolato “Libri, molti, per Lorenzo”, che conta ben 80 pagine!

La peculiarità di questo saggio è proprio la magistrale capacità del suo autore di essere riuscito a raccontare la storia del Magnifico e del Quattrocento rendendole attuali, avvalendosi di un linguaggio moderno e graffiante grazie anche ad uno stile di scrittura incalzante, diretto e ironico.

Scorrevole come un romanzo, caustico e corrosivo come la contemporanea satira politica, rigoroso come un saggio storico preciso e documentassimo, “Lorenzo de’Medici, una vita da Magnifico” è uno di quei libri che affascinano il lettore fin dalla prima pagina

Un volume imprescindibile per chiunque voglia conoscere a fondo la storia, gli amori, la politica e i fasti di quell’uomo ricco, elegante e colto che fu Lorenzo il Magnifico, un uomo dal sangue freddo e calcolatore che apprese sin da subito che nel codice del potere, mostrarsi deboli e pavidi è il miglior modo per soccombere.



domenica 25 giugno 2017

“La musica in testa” di Giovanni Allevi

LA MUSICA IN TESTA
di Giovanni Allevi
RIZZOLI
Mi sono imbattuta in questo volume per caso in un giorno d’estate. Mentre passeggiavo sul lungomare con un’amica ho scorto una bancarella che vendeva libri e come potevo resistere? Mi sono avvicinata e tra tanti volumi ecco “La musica in testa” di Giovanni Allevi.
Sulla copertina una frase tratta dal libro Non bisogna mai avere paura di rompere le regole, se è il nostro cuore a chiederlo”.
Credo sia stato amore a prima vista anche se allora forse non lo sapevo ancora.

Il libro si è rivelato essere non una semplice autobiografia ma un vero e proprio atto d’amore di Giovanni Allevi verso quella che lui definisce la Strega capricciosa che ha monopolizzato la sua vita, Lei con la “L” maiuscola: la Musica.

L’autore come musicista non ha bisogno di presentazioni.
Giovanni Allevi è uno dei maggiori artisti del panorama internazionale: compositore, direttore d’orchestra e pianista. Ha inciso diversi album di proprie composizioni originali. I suoi dischi hanno venduto numerosissime copie nel mondo e i suoi concerti registrano il tutto esaurito da New York a Pechino.

Ma non è stato facile raggiungere il successo. Da quel primo concerto a Napoli eseguito davanti ad un pubblico di appena cinque persone alle esibizioni davanti a platee immense, la strada è stata lunga e difficile.
È proprio di questo faticoso percorso fatto di sacrifici, rinunce, forza di volontà, passione, dedizione che egli parla in questo bellissimo libro.

Giovanni Allevi si racconta in prima persona ma soprattutto racconta il suo amore per la musica. Lo fa in modo semplice e diretto, in un modo che arriva dritto al cuore del lettore.
La sensibilità e l’intensità che ritroviamo in queste pagine sono le stesse che contraddistinguono la sua musica.

Il racconto non si sviluppa necessariamente seguendo un rigido ordine cronologico, ma sembra piuttosto assecondare il flusso dei ricordi dell’autore.
Così leggiamo di quel primo concerto a Napoli in un’atmosfera surreale e subito dopo scorrono sotto i nostri occhi le immagini del bimbo di cinque anni che, lasciato solo a casa, trova il coraggio di trasgredire all’ordine paterno e si avvicina per la prima volta al pianoforte.
Nel corso dei mesi e degli anni quella tastiera lo accompagnerà nei suoi solitari pomeriggi e proprio su quella tastiera, di nascosto dai genitori, imparerà a suonare, da autodidatta, ascoltando le note e lasciandosi attraversare da esse; seduto con le gambe incrociate trascorrerà le giornate ad ascoltare i dischi e a immagazzinare musica, fino al giorno in cui deciderà, durante uno spettacolo scolastico in quinta elementare, di rivelare il suo grande segreto. Inizierà proprio in quel momento il suo percorso con un’insegnante in una scuola di musica.

Allevi ci racconta gli anni del conservatorio, dei suoi giorni bui e di quelli felici, del suo sogno americano e del suo primo viaggio a New York alla ricerca di un ingaggio, di quella volta in cui per riuscire ad avvicinare il maestro Muti accettò di improvvisarsi cameriere per una notte all’evento mondano dell’anno, della paura di suonare, delle sue lezioni come supplente di musica…

“La musica in testa” è un libro che intreccia vita e filosofia. Giovanni Allevi è una persona timida e introversa eppure è riuscito a superare ogni ostacolo, ogni difficoltà in nome della smisurata passione che nutre per la musica.
Lui, il ragazzino che non invitavano alle feste, il giovane che si sentiva estraneo ai suoi coetanei perché aveva il cuore immerso in un mondo che a loro non interessava, ha trovato il coraggio di superare i propri limiti e le proprie insicurezze per seguire la sua Strega capricciosa.

In un passo del libro Allevi scrive “Leopardi fa tenerezza. È il simbolo di tutti i timidi del mondo, dei solitari, di chi con l’arte ha sperato di superarsi. E c’è riuscito.”
Ecco, dinnanzi a queste righe, il lettore non può che estendere questa definizione anche all’autore di questo volume.
Una persona che nonostante il riscontro planetario di un grande successo riesce ancora ad emozionarsi, a stupirsi e continua a entrare in punta di piedi nell’anima delle persone, sorpreso da tanto calore del suo pubblico.

Potrei parlarvi per ore di “La musica in testa” ma vorrei davvero che lo leggeste e che scopriste da soli la bellezza, la semplicità e la delicatezza di questo meraviglioso libro.

I passi significativi da sottolineare in questo scritto sono davvero tanti, tantissimi; ho scelto di riportare questo perché credo che sia quello che più di ogni altro possa trovare riscontro nella quotidianità di ciascuno di noi:

Molte volte mi è stato detto: “Ma chi te lo fa fare?”. Imbarcarmi in un sogno più grande di me, sfidare le mie paure, espormi e affrontare il giudizio altrui. Le persone spesso ti scoraggiano per un eccesso di protezione, o peggio ancora perché riversano su di te le proprie paure e insicurezze.

E con l’augurio che ognuno di voi non smetta mai di credere nei propri sogni e nelle proprie capacità, vi saluto lasciandovi il link della pagina ufficiale di Giovanni Allevi:


Buona lettura e… buon ascolto!




domenica 1 maggio 2016

“Quel diavolo di un trillo” di Uto Ughi

QUEL DIAVOLO DI UN TRILLO
Note della mia vita
di Uto Ughi
    EINAUDI     
Nato a Busto Arsizio il 21 gennaio del 1944, primo di quattro figli, fiero delle origini istriane della sua famiglia, gente tenace dignitosa, abituata alla vita dura, Uto Ughi è uno dei maggiori violinisti al mondo.
Il padre, di professione avvocato, era un umanista molto sensibile, quasi un filosofo e proprio nella casa paterna

Si creò un buon giro di amici, strumentisti dilettanti che erano soliti riunirsi con il maestro Coggi (…) per fare musica insieme.

All’epoca Uto Ughi aveva appena tre anni, ma era già evidente la sua smisurata passione per la musica quando si infilava sotto il pianoforte e, affascinato dalle note, rimaneva lì ad ascoltare.
Il maestro Coggi gli regalò allora un piccolo violino che dovette legargli con una cordicella al collo per evitare che lo strumento gli cadesse.

Coggi fu il primo insegnate al quale ne fecero seguito altri; all’età di nove anni Uto Ughi divenne l’allievo di George Enesco, per seguire le lezioni del quale era costretto a trasferirsi periodicamente a Parigi dove il maestro viveva. Dopo la morte di questi, le lezioni proseguirono con la sua assistente Yvonne Astruc.
A Siena frequentò per una decina d’anni, ogni estate, le lezioni all’Accademia Chigiana, prestigiosa scuola di alta formazione musicale che annoverava all’epoca allievi famosi quali Zubin Metha e Daniel Barenboim.

Un giorno Uto Ughi stesso verrà chiamato a svolgere funzione di docente all’Accademia Chigiana, mettendo a disposizione dei suoi allievi, non solo la sua virtuosa capacità di violista, ma anche quelle due doti che il Maestro ritiene ancor oggi indispensabili per essere un buon insegnante ovvero la pazienza e la perseveranza.
E' fondamentale inoltre che il docente non si imponga mai sull’allievo, ma cerchi piuttosto di convincerlo rispettando sempre la sua personalità.

Il libro è suddiviso in quattro parti.

Nella prima parte, intitolata “La vita e la musica”, Uto Ughi ci racconta della famiglia, dei primi approcci con le note, dei suoi docenti, del suo modo di intendere la musica, dei propri gusti musicali, dei primi concerti e della sua produzione discografica.

Nella seconda parte “La galleria dei ritratti” ci vengono presentate invece le figure dei musicisti che il violinista ha incontrato nella sua carriera e che lo hanno in qualche modo influenzato o con i quali ha condiviso parte della sua vita.

Con “I viaggi” Uto Ughi ripercorre le sue tournée in giro per il mondo: Giappone, Birmania, Messico, India, Israele, Africa per citarne alcuni fino alla sua amata Isola del Giglio ed alla Val di Fiemme, là dove Antonio Stradivari sceglieva gli abeti rossi adatti alla costruzione dei suoi violini.
In questa parte comprendiamo come il violista, lontano dai riflettori, sia in realtà un uomo che ama profondamente i viaggi, la natura, il silenzio, la riflessione e la letteratura.

Proprio a “Riflessioni e letture” è dedicata la quarta parte del volume. Dedicare quotidianamente una parte della giornata alla lettura è basilare per l’artista che ritiene che:

un giorno trascorso senza leggere è un giorno perduto

Uto Ughi in quest’ultima parte  riflette su svariati argomenti come politica, cultura, il tema della morte nella musica, le competizioni musicali, la funzione sociale della musica e ovviamente la letteratura parlando di autori a lui cari tra cui Jorge Luis Borges e Pablo Neruda, Dino Buzzati e Giovanni Papini.

Chiude il volume un bellissimo dialogo.


E’ una vita ricca di passioni quella che viene descritta in questo breve volume di appena poco più di 180 pagine. Poche pagine è vero, ma di un’intensità tale che se si volesse sottolineare i concetti importanti si finirebbe per sottolineare ogni singola riga.

Proprio per questo motivo è anche difficile riuscire a tirare le somme di questa interessante autobiografia dove ognuno troverà senza dubbio spunti di riflessione personali e al contempo potrà formarsi una propria idea dell’uomo e dell’astista Uto Ughi.

La mia impressione leggendo queste pagine è quella di un artista sempre attento ai dettagli, un perfezionista sempre alla ricerca del piccolo particolare che possa fare la differenza.
Un uomo di una cultura vastissima, attratto dal paranormale, un uomo curioso, aperto al mondo, ma allo stesso tempo molto concentrato su se stesso.

Ho apprezzato il modo in cui parla dei grandi artisti del passato, mi sarebbe piaciuto però leggere qualcosa anche sui giovani artisti. Leggendo queste pagine infatti  ho avuto l’impressione che l’autore abbia scelto volutamente di non esprimere opinioni sui contemporanei, quasi pensasse che nessuno di questi possa essere citato in quanto non all’altezza dei suoi predecessori e comunque dei violinisti appartenenti alla sua generazione.

Appassionante è l’amore con cui Ughi parla dei violini, strumenti dotati di un’anima.
Ogni grande artista ha un rapporto unico con il suo strumento e gli strumenti antichi hanno tutti una storia da raccontare.

E’ emozionante leggere di quanto a dieci anni il Maestro fece per la prima volta conoscenza con il suo Stradivari Kreutzer (famoso violinista al quale era appartenuto  e  dal quale prese poi il nome) costruito nel 1701 da Antonio Stradivari, strumento che incrociò nuovamente il suo cammino quando aveva sedici anni e che divenne da quel momento suo compagno di viaggio

Il violino ha un’anima parlava al mio cuore con una qualità di voce meravigliosa, comunicandomi la sua storia

Anni dopo un altro violino entrò a far parte della vita di Uto Ughi, uno dei più bei Guarnieri del Gesù “Rose”, costruito nel 1744, di cui l’ultimo proprietario fu il celebre violinista Arthur Grumiaux.

Lo Stradivari è perfetto, come un dipinto di Raffaello o di Tiziano: perfetto nel disegno, nel colore, nell’armonia delle forme. Il suo suono luminoso è congeniale per determinati autori, ma meno per altri.
(…) i Guarnieri. I loro violini hanno un suono dal timbro scuro, drammatico, struggente, che ricorda i colori caravaggeschi o i dipinti di Rembrandt.

Ascoltai Uto Ughi in concerto la prima volta quando avevo 11 anni, fu la mia prima volta ad un concerto sinfonico e grazie a lui mi innamorai immediatamente del suono del violino.
Questo è stato il motivo principale per cui ho deciso di dedicarmi alla lettura del libro e ancora una volta non sono stata delusa.

“Quel diavolo di un trillo” è consigliato non solo a coloro che amano il suono di questo magico strumento, ma anche a tutti coloro che come il Maestro pensano che

La musica è una via di amore, di libertà, di umanità. La musica va al di là della parola, delle barriere ideologiche che limitano la comprensione fra gli esseri umani: spalanca le finestre dell’anima lasciando intravedere una realtà più grande.