lunedì 11 gennaio 2021

“I lupi di Roma” di Andrea Frediani – Review Party

Anno 1277, dopo un lungo conclave Niccolò III, al secolo Giovanni Gaetano Orsini, ascende al soglio pontificio

Dopo la morte di Giovanni XXI, a seguito della quale la sede è rimasta vacante per ben sei mesi, ora gli Orsini possono finalmente portare a termine i loro piani grazie all’elezione del nuovo papa.

Progetti, quelli della famiglia Orsini, il cui scopo non è solo quello apertamente dichiarato, ovvero arginare la dominazione straniera ed in particolar modo il potere del re francese Carlo d’Angiò, re di Napoli nonché senatore di Roma e podestà di Firenze, ma anche quello ben più ambizioso di rafforzare il potere della propria famiglia.

I lupi di Roma, come vengono definiti gli Orsini, fanno presto incetta di cariche pubbliche e, prendendo possesso di buona parte dei territori circostanti, divengono di fatto i nuovi signori di Roma.

Le faide tra le famiglie romane però non accennano a placarsi e così, se da una parte l’alleanza Orsini – Colonna – Malabranca, frutto della sapiente politica matrimoniale condotta nel corso degli anni, è sempre più solida, dall’altra parte la sete di rivalsa e di vendetta delle famiglie nemiche, capitanata da quella degli Annibaldi, si fa sempre più feroce e  spietata.

Mentre Niccolò III insieme all’ambiguo cugino, il cardinale Matteo Rubeo, danno sfogo alle loro più sfrenate ambizioni, Perna Orsini innamorata del giovane Annibaldo Annibaldi vede sempre più lontana la possibilità di coronare il suo sogno d’amore.

Stessa sorte sembra toccare anche all’altra coppia di amanti, quella formata da Orso Orsini, il podestà di Viterbo, e la bella Beatrice, la figlia del conte di Guastapane Porcari.  

Un evento inaspettato, una morte prematura, sconvolgerà però tutti i disegni così meticolosamente pianificati dall’ambizioso Matteo Rubeo; i lupi di Roma, esposti alla vendetta dei nemici quanto mai prima era accaduto loro, si ritroveranno quindi a dover difendere con i denti quanto conquistato fino a quel momento.

Riusciranno gli Orsini a riconquistare la loro posizione e magari nel contempo pentirsi di quei metodi così poco ortodossi da loro praticati per raggiungere il successo ad ogni costo?

Il romanzo di Andrea Frediani è un buon compromesso tra verità storica e finzione letteraria. I protagonisti sono per la maggior parte personaggi reali che interagiscono tra loro in modo alquanto verosimile anche laddove, per l’economia della trama, è stato necessario da parte dell’autore apportare modifiche sovrapponendo talvolta alcuni eventi.

Sapevo poco delle vicende della famiglia Orsini e questo libro si è rivelato un ottimo punto di partenza per fare la loro conoscenza e per stuzzicare la voglia di approfondirne la storia.

La trama del romanzo è ben bilanciata: ai fatti storici salienti, battaglie sul campo e scontri politici, si alternano le vicende amorose di Perna e Annibaldo e quelle di Orso e Beatrice.

L’amore di Perna Orsini e Annibaldo Annibaldi è la classica storia d’amore contrastato che prima tra tutte richiama la celebre storia di Romeo e Giulietta, due famiglie nemiche e due giovani che sognano attraverso la loro unione di poter porre le fondamenta per quella pace tanto sospirata.

La storia di Orso e Beatrice invece è una storia dove l’amore deve fare i conti con il dovere e l’onore. Orso, per quanto innamorato di Beatrice, non ha la forza di sottrarsi ai doveri verso la propria famiglia e anche quando capisce che per i parenti egli è solo uno strumento, la tessera di un mosaico, non riesce comunque a sottrarsi a quanto impostogli dagli altri Orsini.

Beatrice è comunque molto diversa da Perna, La figlia del conte Guastapane Porcari è una donna tenace e risoluta, non è facile per lei concedere una seconda possibilità e, proprio perché le è costato tanto cercare di giustificare l’amato Orso, il vedersi rifiutare da lui una seconda volta per assecondare le imposizioni della famiglia, farà scattare in lei un desiderio di rivalsa e di vendetta che sfocerà alla fine nell’autolesionismo.

Su tutti i personaggi, sul violento Riccardello Annibaldi, sull’arrogante Cencio, sull’ambizioso e ambiguo cardinale Matteo Rubeo, svetta la figura carismatica di Margherita Colonna, colei che ha saputo tenere testa alla famiglia e, seguendo la propria strada, elevarsi al di sopra delle meschine lotte di potere per dedicare la propria vita al prossimo.

“I lupi di Roma è un romanzo scorrevole che, grazie ad una trama avvincente e a un racconto serrato degli avvenimenti, riesce a mantenere sempre alta l’attenzione del lettore favorendo lo sviluppo di un legame empatico tra questi e alcuni suoi protagonisti.

Nel corso del suo papato Niccolò III favorì in ogni modo i propri parenti e nipoti assegnando loro cariche e proprietà, tanto che leggendo queste pagine non si può non richiamare alla mente un altro papa che salì al soglio pontificio due secoli più tardi e il cui nepotismo e accumulo di ricchezze fanno ancora oggi discutere e indignare. Il suo nome? Alessandro VI, ovviamente, al secolo Rodrigo Borgia.

In quanto a dissolutezza, baldanza, arroganza alcuni personaggi di I lupi di Roma non hanno davvero nulla da invidiare né al papa Borgia né al suo temutissimo figlio Cesare, il duca Valentino.

Se il più grande sogno di Cesare Borgia, condottiero spregiudicato e politico ambizioso, fu quello di unire l’Italia con lui come unico principe a dominarla; gli Orsini duecento anni prima furono senza dubbio la famiglia che più di tutte provò a costruire un regno e una dinastia autoctoni.

Il libro di Andrea Frediani è il racconto della feroce lotta che una delle dinastie più ambiziose di Roma, gli Orsini appunto, condusse per il proprio prestigio e non solo.


 



 

 

 

 

 

sabato 9 gennaio 2021

“The Witcher - Il sangue degli Elfi" di Andrzej Sapkowski

Primo capitolo della saga di The Witcher, in realtà terzo libro in ordine di lettura, “Il Sangue degli Elfi” racconta quanto accaduto dopo il massacro di Cintra e la successiva vittoriosa battaglia di Sodden contro gli invasori nilfgaardiani.

I due volumi precedenti (“Il guardiano degli innocenti” e “La spada del destino”) sono infatti una raccolta di racconti dedicati agli avvenimenti occorsi fino alla battaglia di Sodden e al trattato firmato dai regni settentrionali con Nilfgaard, una tregua fragile che costringe, almeno per il momento, i nilfgaardiani a non oltrepassare il confine dello Jaruga.

Geralt di Rivia, il Lupo Bianco, ha finalmente incontrato il suo destino, la sua bambina sorpresa, Cirilla la principessa di Cintra.

Ciri, dopo la morte della nonna, la regina Calanthe, avvenuta durante il massacro di Cintra, è riuscita miracolosamente a mettersi in salvo e a sfuggire al terrificartene nero cavaliere di Nilfgaard che le dava la caccia.

Ora la bambina è con Geralt, lo strigo a cui era destinata fin da prima della sua nascita.

Geralt ha tutte le intenzione di difendere la sua protetta e per questo la conduce a Kaer Morhen, la dimora degli strighi, il luogo dove questi vengono addestrati.

Ciri vorrebbe ella stessa diventare uno strigo, il primo strigo donna, ma quando una sera si manifestano i primi segni delle sue forti capacità psichiche, Geralt deve necessariamente affidarsi all’aiuto di qualcuno più esperto.

La principessa Cirilla è la bambina dal Sangue Antico, lei è la Fiamma di Cintra e la profezia di’Itlina sta per compiersi.

Sapevo, dopo aver letto i racconti, che sarei andata avanti nella lettura perché ero rimasta piacevolmente sorpresa dalla storia nata dalla penna di Andrzej Sapkowski che, a parer mio, merita pienamente il successo raggiunto con la sua saga.

Avevo sentito invece pareri contrastanti sulla serie tv tratta dai suoi libri così, prima di affrontare la  lettura dei romanzi, ho pensato fosse giusto vederla per farmi un’idea.

La serie tv di Netflix non mi è affatto dispiaciuta anche perché non era per niente facile riuscire a rendere uniforme il materiale piuttosto frammentario fornito dai primi due volumi. Direi anche più che indovinata la scelta di Henry Cavill nel ruolo di Geralt di Rivia e quella di Anya Chalotra per interpretare Yennefer di Vengerberg.

Indubbiamente però mi sento in dovere di consigliare la lettura dei racconti prima della visione della serie Tv per comprendere al meglio non tanto la storia quanto la psicologia dei personaggi.

Consiglio che, a mio avviso, dovrebbe essere messo in pratica prima di vedere qualunque trasposizione cinematografica o televisiva relativa a qualsivoglia romanzo.

Veniamo adesso a “Il sangue degli Elfi”, il primo dei cinque romanzi, nato dalla penna di colui che è definito oggi uno degli scrittori fantasy più letti d’Europa.

Diciamo subito che rispetto ai libri di racconti, trattandosi di un romanzo, nonostante qualche salto temporale e alcuni flashback, la trama è ovviamente più omogenea.

Le linee narrative tendono a semplificarsi e quindi è più facile seguire la storia e con essa il succedersi degli avvenimenti.

In questo romanzo la dimensione avventurosa è forse meno preponderante rispetto a quella presente nei racconti, viene dato più spazio all’introspezione psicologica dei protagonisti e all’approfondimento delle dinamiche che legano tra loro i vari personaggi; la trama però resta sempre avvincente e il ritmo serrato e incalzante regala numerosi momenti di suspense che permettono di mantenere sempre altissima l’attenzione del lettore.

Gli intrighi e i tradimenti la fanno da padrone, nessuno è mai ciò che sembra e soprattutto nessuno può mai essere sicuro di aver accordato la  propria fiducia alla persona giusta.

Ciri è molto legata a Geralt e lui a lei, ma Ciri ora è molto legata anche a Yennefer e la maga, si sa, è sempre stata una donna imperscrutabile e pericolosa. Inoltre ciò che lega Geralt e Yennefer è qualcosa di forte e indissolubile anche se loro stessi per primi sembrano non crederci fino in fondo.

Con i suoi numerosi colpi di scena e la sua prosa coinvolgente, “Il Sangue degli Elfi” non ha tradito le mie aspettative, sebbene fossero molto alte. Non mi resta quindi che continuare la mia avventura e dedicarmi quanto prima alla lettura del prossimo romanzo intitolato “Il tempo della guerra”.


 



sabato 26 dicembre 2020

“Viking – Il regno del lupo” di Linnea Hartsuyker

I figli di Ragnavald e di Harald, così come la figlia di Svanhild, sono ormai cresciuti e pronti a conquistarsi il loro spazio sulla scena di questo terzo e conclusivo romanzo della saga nata dalla penna di Linnea Hartsuyker e liberamente ispirata alle storie narrate nell’Heimstringla, opera del XIII secolo di Snorri Sturluson.

L’autrice per quest’ultimo capitolo ha tratto inoltre informazioni anche dalla Orkneyinga, una storia degli jarl delle Orcadi scritta anch’essa nel XIII secolo.

Freydis, la figlia di Svanhild e di Solvi, ha appena quattordici anni quando viene rapita da Hallbjorn Olafsson, il figlio di Vigdis e Olaf, il patrigno di Ragnavald.

Hallbjorn vede nell’unione con Freydis una valida possibilità di ritagliarsi un ruolo di primo piano alla corte di re Harald. La figlia di Svanhild, infatti, non è solo la nipote di Ragnavald il Possente, amico e consigliere del re, ma anche figliastra dello stesso Harald.

Con l’astuzia Freydis riesce a convincere il suo rapitore a condurla in Islanda da Solvi, il padre che non ha mai conosciuto, dove riesce a trovare un porto sicuro almeno momentaneamente dalle mire di Hallbjorn.

Svanhild, venuta a conoscenza del rapimento della figlia, si precipita in suo soccorso e, seguendo le sue tracce, giunge fino in Islanda dove dopo più dieci anni si trova faccia a faccia con Solvi, l’unico uomo che abbia mai veramente amato.

Svanhild è ora una donna libera; Harald, infatti, per questioni di trono e per liberare alcuni dei suoi figli catturati dai predoni e tenuti da questi in ostaggio, è stato costretto a divorziare da tutte le sue mogli e sposare Ranka, la figlia di Erik, re dello Jutland.

Mentre i numerosissimi figli di Harald si fanno la guerra tra loro e uno di questi, Halfdan, arriva addirittura ad ordire congiure per assassinare il suo stesso padre, Ragnavald è costretto a guardarsi le spalle dai nemici che fanno di tutto per metterlo in cattiva luce dinnanzi al suo re.

Ragnavald è preoccupato inoltre per i propri figli; il giovane Rolli è stato infatti dichiarato fuorilegge per aver assassinato il figlio di Aldi, un assassinio avvenuto per errore, ma Aldi si è dimostrato irremovibile nel pretendere giustizia.

A impensierire Ragnavald c’è poi il diritto di successione di Ivar ed Einar, nonostante Einar sia il maggiore, spetterà ad Ivar ereditare il titolo in quanto figlio della legittima moglie Hilda. I fratelli sono molto legati e non sembra esserci alcun malanimo tra i due, ma Ragnavald non riesce a restare tranquillo, troppe volte nella vita ha visto dei fratelli scagliarsi l’uno contro l’altro per conquistarsi il diritto a governare sulle terre dei padri.

La trama di questo ultimo capitolo della saga è decisamente quella più articolata e complessa dell’intera trilogia, i personaggi sono numerosissimi e le vicende davvero molto intricate.

La lettura delle prime pagine risulta piuttosto difficile proprio per la quantità di nomi riportati sulla scena; fortunatamente in fondo al volume si trova un’appendice dedicata ai luoghi e ai personaggi.

Bisogna però precisare che il secondo volume è stato pubblicato due orsono e quindi il lettore ha bisogno di qualche minuto in più per riuscire nuovamente a calarsi appieno  nella storia.

Il consiglio è quindi di leggere, se possibile, l’intera saga in tempi il più ravvicinati possibile così da poterla apprezzare al meglio.

Ragnavald, Harald e Svanhild restano fedeli a se stessi, il lettore non avverte mutamenti nella loro psicologia rispetto al secondo volume “La regina del mare”.

Colui che più di tutti è cambiato invece è Solvi, da tutti ricordato come il predone del mare, il terribile nemico di Ragnavald, ferito nel corpo e nell’orgoglio si è richiuso in se stesso, ha abbandonato il mare e ora pensa solo a mandare avanti la fattoria in Islanda, l’eredità di Svanhild.

Eppure, anche in questo sua nuova versione ridimensionate e decisamente più umana, Solvi resta il mio personaggio preferito, dimostrando una forza di carattere non comune anche nella sconfitta e nell’accettazione di un sé diverso.

Freydis è molto differente dalla madre ma non per questo è una donna meno forte e determinata, per certi versi nel suo sentire è molto più vicina al padre Solvi.

Sulla scena fanno poi il loro ingresso i figli di Ragnavald ognuno con le proprie caratteristiche; Rolli mi ha ricordato un po’ il Samwell Tarly de “Il trono di spade”, come lui impacciato all’inizio ma alla fine sa trovare coraggio e forza sufficienti per dimostrare a tutti il suo valore e trovare la propria strada.

Il rapporto fatto di complicità, affetto e devozione che lega Ivar ed Einar credo possa trovare corrispondenza solo tra gli eroi omerici dell’Iliade, la loro storia non può che commuovere profondamente il lettore.

Il terzo volume della saga di Viking conferma e forse addirittura supera le aspettative del lettore.

Viking è una saga dalla storia coinvolgente e appassionante; intrighi, passione, tradimenti, sete di vendetta, romanticismo, avventura, violenza, amicizia, sono tantissimi gli elementi che la contraddistinguono.

Sulla copertina di quest’ultimo volume è scritto: "Per gli appassionati di Game of Thrones”. Non sono completamente d’accordo con questa affermazione, vero che chi ha amato “Il trono di spade” apprezzerà senza dubbio questa trilogia, ma Viking è davvero molto, molto di più.

Viking è una saga antica, un racconto epico dove fantasia e verità storica si compenetrano alla perfezione.

Grazie alla penna di Linnea Hartsuyker l’epopea delle saghe scandinave è tornata in vita e ha potuto raggiungere tutti noi.

Trilogia assolutamente consigliata.

 

Qui di seguito vi lascio i link dei post dedicati ai primi due capitoli

Le ossa di Ardal

Laregina del mare

 


venerdì 18 dicembre 2020

“Almanacco Zen. 365 giorni in armonia” a cura di Marina Panatero e Tea Pecunia

Che cos’è lo Zen? Iniziamo subito col dire che lo Zen non è né una filosofia né tanto meno una religione, ma piuttosto un insegnamento il cui scopo è portare all’illuminazione, al risveglio.

La parola cinese ch’an, derivante dalla trascrizione fonetica del vocabolo che significa “meditazione” in sanscrito e in pali, diventa Zen in giapponese.

Il buddhismo infatti nacque in India; lo Zen, come scuola buddhista, nacque invece in Cina per poi in seguito svilupparsi in Giappone.

Lo Zen è quindi un modus vivendi attraverso il quale entrare in contatto con noi stessi, con la natura e con l’universo.

La meditazione può diventare per noi, sottoposti ogni giorno a ritmi frenetici e a forte stress, un valido aiuto per superare la tensione quotidiana e un invito a cercare di prendere le cose con più leggerezza.

Attenzione, però, “Lasciare andare” e “vivere qui e ora” non devono essere intesi come un incitamento a divenire menefreghisti e insensibili, ma piuttosto un’esortazione ad accettare l’idea che ci sono cose che non possono essere cambiate e pertanto è inutile rimanere aggrappati a situazioni nocive o rimuginare costantemente su di esse.

La sofferenza nasce infatti dallo scarto esistente tra la realtà delle cose e il modo in cui noi le vediamo e viviamo; la meditazione si propone come un valido aiuto a superare e colmare questo scarto che ci provoca afflizione.

Nello Zen gli insegnamenti non avvengono attraverso la comunicazione scritta o verbale, ma piuttosto attraverso una fusione tra maestro e discepolo, una trasmissione da cuore a cuore.

Il discepolo deve usare la propria intuizione per raggiungere l’illuminazione che può avvenire in ogni momento o purtroppo potrebbe anche non avvenire mai; dall’altra parte i maestri hanno ognuno una propria tecnica per stimolare i discepoli che, in alcuni casi, come ad esempio nel caso del maestro Huang-Po Hsi-Yüan, prevedeva addirittura le bastonate.

Ai giorni nostri è giunto comunque un corpus di opere piuttosto consistente dei Maestri e “Almanacco Zen. 365 giorni in armonia” vuole appunto riproporci, una al giorno per 365 giorni, una perla della loro saggezza.

Il libro si presenta come una raccolta di parole dei Maestri e di detti popolari tratti per la maggior parte dalla Zenrin Segoshu, Antologia dei detti popolari Zen, usata nei monasteri della scuola Rinzai.

Il volume, a cura di Marina Panatero e Tea Pecunia, presenta un’approfondita introduzione nella quale viene spiegato, raccontandone anche a brevi linee lo sviluppo, cosa sia l’insegnamento Zen. Viene inoltre presentata una brevissima storia del buddhismo e del Buddha, colui che ha preso coscienza.

Al termine del volume invece ritroviamo alcune pagine dedicate ai più noti Maestri con interessanti aneddoti sulle loro vite oltre all’esposizione di una breve ma esauriente sintesi dei loro insegnamenti.

La meditazione non è semplice, ci vuole pazienza è non è affatto facile riuscire a non scoraggiarsi quando inevitabilmente ai primi tentativi risulta impossibile focalizzare immagini, profumi, colori e così via spegnendo i propri pensieri.

La meditazione però può essere di diversi tipi non necessariamente quella a cui tutti noi siamo portati a pensare ossia quella che si esegue assumendo la classica posizione del fiore di loto.

Accanto alla meditazione formale, infatti, ne esiste anche un’altra, la cosiddetta meditazione informale che può essere praticata nei modi e nei  tempi più diversi, in mezzo alla folla così come nel silenzio più totale, per un minuto così come per un’ora intera.

Ecco, “Almanacco Zen. 365 giorni in armonia” può essere un ottimo spunto per avvicinarsi alla meditazione senza ulteriore ansia e senza stress, leggendo solo qualche riga al giorno, poche parole illuminanti in grado però di regalarci attimi di gioia e serenità.

 

Il tuo respiro è il vento,

la tua mente è il cielo aperto,

i tuoi occhi il sole,

oceani e monti

sono il tuo intero corpo

Detto Zen

(1° gennaio)





lunedì 14 dicembre 2020

“Un anno con Mozart” di Clemency Burton-Hill

Il titolo originale dell’opera è in realtà Year of wonder, classical music for every day, non si comprende molto la ragione per cui nell’edizione italiana tale titolo sia diventato Un anno con Mozart.

In effetti questa scelta è piuttosto fuorviante dal momento che il libro propone sì 365 brani, o meglio 366 perché è contemplato anche un brano per il 29 febbraio, per l’ascolto di un brano al giorno per un ogni giorno dell’anno, ma i pezzi presi in esame non sono assolutamente tutti di Mozart bensì di numerosi autori, più di 240, anche molto diversi tra loro per epoca, nazione e stile.

I brani proposti da Clemency Burton-Hill in questo suo volume, che non vuole essere assolutamente una storia della musica tout court, spaziano in un arco temporale amplissimo abbracciando un percorso lungo più di mille anni, dalla musica medievale di Ildegarda di Birgen si arriva fino a Alissa Firsova musicista contemporanea nata nel 1986.

Il libro di Clemency Burton-Hill si propone come un invito all’ascolto rivolto a tutti coloro che non conosco la musica classica ma ne sono in qualche modo attratti, a tutti i neofiti che la apprezzano ma non hanno conoscenze specifiche e a tutti coloro che semplicemente, seguendo la scaletta del libro, vogliono ritagliarsi uno spazio giornaliero da dedicare all’ascolto di un brano musicale per rinfrancare lo spirito e staccare la spina per qualche minuto.

Nell’introduzione l’autrice scrive infatti chiaramente che ai nostri giorni è scientificamente provato che ritagliarsi giornalmente un momento per “la cura di sé” abbia benefici incalcolabili a livello psico-fisico, c’è chi fa meditazione, chi yoga e allora perché non ascoltare un brano musicale? Anche la musica può agire come un potente tonico mentale.

Il libro vuole anche sfatare la falsa credenza che la musica classica sia musica di nicchia, snob, per pochi eletti; la musica di qualunque genere è di per sé universale e non può quindi, né deve, essere ingabbiata da definizioni ed etichette. La musica trasmette emozioni e non conosce frontiere, supera ogni barriera e non richiede alcuna traduzione, è un bene di tutti ed ognuno ne può liberamente fruire.

L’autrice ci tiene a puntualizzare che non esiste un momento giusto per ascoltarla, ogni momento è propizio, la si può ascoltare mentre si studia per concentrarsi meglio, mentre si svolgono le faccende di casa, in palestra, passeggiando o comodamente sprofondati in poltrona.

Un anno con Mozart non è guida musicologica, non ci sono spiegazioni tecniche né partiture da leggere e studiare.

Ad ogni brano è dedicata una pagina nella quale vengono indicate alcune curiosità sull’autore, sul tipo di strumento per cui il pezzo era stato scritto, aneddoti relativi alla prima esecuzione del brano e così via.

Tantissimi brani magari li abbiamo già ascoltati in trasmissioni televisive, film o pubblicità senza conoscerne l’autore, di altri brani forse crediamo erroneamente di sapere già tutto, magari li abbiamo ascoltati suonati da diversi strumenti, ma ignoriamo ancora per quale specifico strumento quella musica sia stata scritta in origine.

Personalmente amo la musica classica e la ascolto da sempre, però non sono assolutamente un’esperta e soprattutto non conosco nulla degli autori più moderni, ragion per cui questo percorso mi incuriosisce e mi intriga moltissimo.

Non vedo l’ora quindi di iniziare questo splendido viaggio musicale che si preannuncia davvero coinvolgente e appassionante.

Le playlist del libro possono essere ascoltate e condivise su Spotify, ma sono comunque tutte facilmente reperibili online anche su YouTube. La tecnologia ha reso ogni cosa disponibile per tutti, ora non ci sono più scuse.

E voi siete pronti a viaggiare nei secoli attraverso le note di Bach, Gershwin, Puccini, Albinoni, Lully e tanti altri?

Vi aspetto il primo gennaio con la Messa in si minore di Johann Sebastian Bach, un brano liturgico, lo so, ma il 2 gennaio ci aspetta Fryderyk Chopin e…

 

 

domenica 13 dicembre 2020

“Il viaggio dolce” di Marina Plasmati

Aprile 1836, una carrozza si ferma davanti a villa Ferrigni.

La villa, posta su una collinetta a metà strada tra Torre del Greco e Torre Annunziata, è una costruzione seicentesca ad un solo piano, in stile pompeiano.

Ad accogliere i visitatori sul portico ci sono il fattore Giuseppe e la moglie Angiola Rosa. Ma chi sono gli occupanti della carrozza che sono giunti alle pendici del Vesuvio per beneficiare del suo salubre clima?

Si tratta del cognato del proprietario, il signor cognato, la sorella di questi, la cognata più giovane, ossia la signorina Paolina e infine lui, l’ospite di riguardo.

L’ospite appare immediatamente come una persona malata che ha bisogno di aiuto anche per scendere dalla carrozza, aiuto che l’amico, il signor cognato, si appresta a fornirgli premurosamente.

Fin da subito si intuisce che l’ospite è una persona gentile e schiva, attenta a non dare fastidio al prossimo così come a riceverne a sua volta il meno possibile.

Pagina dopo pagina si conoscerà sempre meglio la personalità di quest’uomo dall’ingegno straordinario condannato a vivere in un corpo malato e deforme, quasi che la potenza della sua mente avesse assorbito come un vampiro famelico tutto il resto delle sue energie vitali.

L’ospite di riguardo non è una persona priva di difetti, goloso di dolci, a volte capriccioso e indubbiamente eccentrico, sa però come farsi amare per la sua dolcezza e per la sua grande capacità di ascoltare.

Le persone più umili restano affascinate dai suoi modi gentili e ne sono conquistate perché lui non è un “signore” come tutti gli altri; lui, al contrario degli altri, ama ascoltare le loro storie semplici e i loro racconti di vita contadina.

Il fattore Giuseppe e il figlio maggiore di questi, Cosimo, trascorrono molto tempo in compagnia dell’ospite tanto da provocare quasi la gelosia del signor cognato nel vedere l’amico così coinvolto nelle conversazioni con qualcun altro che non sia lui e per giunta di così bassa estrazione sociale.

Come avrete già capito l’ospite di riguardo, benché nel libro non venga mai fatto il suo nome, altri non è che il poeta Giacomo Leopardi e il cognato del padrone della villa è il suo amico Antonio Ranieri.

Il romanzo racconta di quei giorni che, dall’aprile al luglio del 1836, Giacomo Leopardi trascorse a villa Ferrigni in compagnia dell’amico fraterno.

Ne “Il viaggio dolce” Marina Plasmati cerca di immaginare come il poeta avesse passato quelle sue giornate vesuviane.

Ci racconta di un Leopardi che trascorreva ore dalla finestra della sua camera ad osservare la vita degli altri scorrere là fuori, come era solito fare dalla finestra della biblioteca della casa paterna a Recanati, a visitare gli scavi di Pompei e, quando la salute malferma glielo permetteva, anche a fare escursioni a dorso di mulo lungo le pendici del vulcano.

Traendo ispirazione da uno dei Canti che il poeta scrisse proprio in quei giorni, “La ginestra o il fiore del deserto”, il romanzo Marina Plasmati narra una storia forse non completamente reale, ma senza dubbio alquanto verosimile.

I dialoghi stessi che si svolgono tra Giuseppe, Cosimo e l’ospite di riguardo prendono spunto proprio dal Canto leopardiano; ne sono un esempio Giuseppe che parla al poeta del pozzo dove il ribollire dell’acqua è segnale dell’avvicinarsi della lava, Cosimo che gli racconta dei fiori della ginestra durante la loro prima escursione e la stessa descrizione degli scavi di Pompei.

Marina Plasmati resta sempre fedele nel suo racconto al pensiero leopardiano, non tradisce mai la sua poetica; quello che incontriamo nelle pagine del romanzo è proprio il Giacomo Leopardi degli ultimi anni, il poeta polemico nei confronti della poesia idealistica romantica, l’uomo che ormai non teme più la morte e che sa di non avere più dalla sua parte l’entusiasmo, l’ardore e la forza che contraddistinguono invece la gioventù.

Nonostante la disillusione però Leopardi crede ancora nel valore della poesia che, tenace come la ginestra che resiste nel deserto, è un miracolo in mezzo allo squallore dell’esistenza umana; la poesia incarna per lui quel desiderio di vita che, seppur destinato a rimanere inappagato, resiste perché inestirpabile.

“Il viaggio dolce” è un racconto che sa toccare il cuore del lettore, un racconto commovente e profondo le cui pagine spesso sono vera poesia in prosa.

Delicato e intenso, il libro di Marina Plasmati è un romanzo in grado di emozionare tutti, non solo gli appassionati della poesia leopardiana, talmente coinvolgente da provare spesso lo strano desiderio di leggerlo ad alta voce.

“Il viaggio dolce” è uno di quei libri che se siete soliti sottolineare i passi più significati o che più vi commuovono, vi ritroverete presto con pochissime righe intonse.

Nel consigliarvene quindi la lettura, vi saluto con le bellissime parole con le quali Cosimo, il figlio del fattore, descrive uno dei poeti da me più amati:

Non lo capiva, era vero, ma lo sentiva, però, che quel signore non era un signore come gli altri, un padrone come gli altri: e non solo perché era tanto gentile, come diceva suo padre, o tanto malato. Il suo sguardo, per esempio, non era uno sguardo qualunque, era come se avesse il mondo dentro il cuore, non davanti agli occhi, come se le cose, anche le più piccole, le più insignificanti, prendessero posto dentro di lui e ci rimanessero.



 

domenica 6 dicembre 2020

“Il libro dei cinque anelli” di Miyamoto Musashi

Gorin no sho (Il libro dei cinque anelli) può essere considerato il testamento di Miyamoto Musashi, l’opera che spiega la sua lunga esperienza nella Via.

Ma chi era Miyamoto Musashi? E quando è stato scritto questo libro?

Miyamoto Musashi, il cui vero nome era Bennosuke, nacque a Miyamoto nel 1584 e fu il più grande uomo di spada della storia dei samurai. In più di trent’anni di attività affrontò ben sessanta combattimenti e non fu mai sconfitto; il suo primo incontro avvenne quando, appena tredicenne, combatté e vinse contro il famoso spadaccino Arima Kihei.

La sua fu un’esistenza molto movimentata durante la quale condusse una vita raminga e solitaria, per un certo periodo fu anche un ronin ovvero un samurai senza padrone, un outsider diremmo oggi, ma in seguito ottenne anche incarichi prestigiosi come quello di alto consigliere e maestro di strategia del signore Hosokawa e, infine, fondò un suo proprio dojo.

Nel 1643, sentendo che la sua fine si stava avvicinando, si ritirò per scrivere “Il libro dei cinque anelli”, opera che termino due anni più tardi nel 1645.

Musashi morì quello stesso anno all’età di sessantadue anni. Egli fu molto più di un maestro di spada, fu anche pittore, calligrafo, metallurgista, esperto di poesia, di opere del teatro No e di cerimonia del tè, di falegnameria e progettazione di giardini.

Come lui stesso scrisse nel prologo del suo libro tutte le sue capacità in così tante arti e differenti mestieri sono però da ascriversi alla sola virtù dell’Arte Marziale.

“Il libro dei cinque anelli” si compone di cinque capitoli, ognuno dei quali è dedicato ad un elemento: Terra, Acqua, Fuoco, Vento e Vuoto.

Il libro della Terra è dedicato alla Via dell’Arte Marziale in generale, all’arte della spada e all’addestramento. In questo primo libro viene inoltre presentato il piano dell’opera e si fa cenno alle quattro classi in cui è divisa la società giapponese (contadini, mercanti, guerrieri e artigiani). L’addestramento, precisa in questo capitolo Musashi, non è utile solo al guerriero, ma a ciascuno di noi. Inoltre, egli ci insegna che non si deve mai prediligere un’arma ad un’altra perché una cosa grande vale quanto una piccola, l’arma deve essere sempre adeguata alle proprie capacità.

Il libro dell’Acqua è un libro più filosofico. Come l’acqua si adatta al suo contenitore così si deve adattare la nostra mente. È necessario mantenere sempre l’equilibrio in ogni situazione, mai farsi sopraffare dalla rabbia, mai perdere l’attenzione e la lucidità. Bisogna fare attenzione che la mente non trascini il corpo, ma neppure il corpo deve mai trascinare la mente.

Nel libro del Fuoco vengono trascritti gli argomenti che riguardano la vittoria e la sconfitta. Miyamoto Musashi in questo terzo capitolo evidenzia l’importanza di saper scegliere sempre la posizione più vantaggiosa in un combattimento oltre a quella di riuscire ad intuire i punti deboli dell’avversario così come la sua personalità in modo da poter approfittare di tali conoscenze durante lo scontro. Se la situazione ristagna è importante inoltre sapersi rinnovare, abbandonare la tattica precedente per adottarne una nuova che possa sorprendere l’avversario.

Il libro del Vento parla delle altre scuole perché è importante conoscere le altre tradizioni per comprendere l’essenza di Niten Ichi-ryu (letteralmente “due cieli in uno”) ovvero l’uso di due spade contemporaneamente, insegnamento della scuola di Musashi. Il maestro mette inoltre in evidenza come le altre scuole, al contrario della sua, abbiano una visione limitata. Nella sua scuola, infatti, non esiste né esteriore né interno, ma vi è una ricerca dell’insieme.

Il libro del Vuoto è brevissimo, poco più di una pagina, ed è un capitolo prettamente filosofico. Il Vuoto non deve essere inteso come ciò che non si comprende. Il Vuoto è ciò che non c’è, il nulla; il Vuoto è ciò che non si può conoscere.  Bisogna fare molta attenzione a non confondere il Vuoto con la confusione ed essere abili a non lasciarsi allontanare dalla vera Via dai pregiudizi e dalla distorsione della visione.

La traduzione de “Il libro dei cinque anelli” in questa nuova edizione Feltrinelli (2020) è opera di Yoko Dozaki, ma il volume presenta anche un’ampia introduzione ad opera di Marina Panatero e Tea Pecunia.

In questa prefazione potete trovare una biografia completa di Miyamoto Musashi, oltre ad un’esaustiva introduzione alla sua opera e un breve ma approfondito compendio sulla storia della spada giapponese e sulla storia dei samurai.

La figura di Miyamoto Musashi è una figura affascinante i cui insegnamenti sono giunti a noi attraverso i secoli mantenendo intatte la loro verità ed attualità.

Tra questi troviamo l’importanza di non lasciarsi sopraffare dalla paura che non vuol dire non provare alcuna paura, ma piuttosto imparare a governarla.

Tra le varie paure da superare il timore più grande di tutti resta senza dubbio quello della morte e per superarlo, secondo Musashi, è necessario passare attraverso una costante speculazione della fine.

Le pagine di Gorin no sho ci insegnano ad essere resilienti facendo nostre la resistenza, l’autodisciplina, la perseveranza e la determinazione necessarie nell’arte della spada così come nella vita di tutti i giorni.

Al termine del volume è riportato il Dokkodo, la via da seguire da soli, un brevissimo manoscritto che Miyamoto Musashi terminò pochi giorni prima di morire e che racchiude in ventun precetti la sua eredità spirituale.

Un’ultima parola vorrei sperderla per ringraziare la mia amica Tea senza la quale, devo ammettere, non mi sarei mai avvicinata a questo tipo di letteratura perdendomi così tanti insegnamenti validi e preziosi.