domenica 13 settembre 2020

“Il mare senza stelle” di Erin Morgenstern

Il quasi venticinquenne Zachary Ezra Rawlins è uno studente della facoltà di Nuovi media, frequenta il secondo anno di laurea specialistica e la sua materia di studio sono i videogiochi.

È un ragazzo schivo, nella sua vita qualche conoscenza, ma nessun vero amico; l’unica persona che potrebbe essere annoverata come tale è solo la sua compagna di studi Kat Hawkins, laureanda in Nuovi media e in Discipline teatrali.

Zachary ama leggere e perdersi nelle storie; assiduo frequentatore della biblioteca del campus, viene spesso scambiato per uno studente della facoltà di Letteratura.

Un giorno, prima dell’inizio dell’anno accademico, piuttosto casualmente si imbatte in biblioteca in uno strano volume intitolato “Dolci rimpianti”, un libro che racconta strane storie come quella del pirata e la fanciulla e di un mondo fantastico regolato da un ordine segreto di cui fanno parte custodi, adepti e guardiani.

A prima vista potrebbe sembrare una raccolta di storie fantastiche come tante altre se non fosse che, tra le varie storie, Zachary riconosce un episodio della sua infanzia.

Un giorno, quando era ancora un ragazzino, tornando da scuola aveva scorto in un vicolo una porta dipinta su un muro, apparentemente un trompe l’oeil molto ben eseguito, ma così realistico che Zachary si era trattenuto a stento dal tentare di aprire quella porta.

Zachary oggi si chiede cosa sarebbe accaduto se ci avesse provato.

Quale mondo avrebbe scoperto al di là di quella finta porta così perfetta da sembrare vera e che forse vera lo era realmente sebbene tutto sembri così surreale?

Il giovane ormai ossessionato dal libro verso il quale ha sviluppato un insolito e smisurato istinto di possesso, tanto da portarlo con sé in ogni suo spostamento, decide di indagare sulla provenienza del volume.

Seguendo il solo indizio a sua disposizione, i simboli impressi sulla copertina del libro (un’ape, una chiave e una spada), si reca a Manhattan per partecipare ad una festa in maschera, organizzata da una anonima società di beneficenza, dove Zachary crede di avere buone possibilità di conoscere qualcuno in grado di illuminarlo sul mistero del contenuto del libro e sulla sua provenienza.

Proprio alla festa gli eventi precipitano, Zachary entra in contato con personaggi singolari come l’affascinante Dorian, la pericolosa Allegra e l’originale Mirabel.

Sarà proprio Mirabel a condurlo nel mondo fantastico delle storie, un mondo sotterraneo popolato da strane creature, dove i personaggi non sono mai quello che sembrano, dove si trovano innumerevoli porte che si aprono su altrettante innumerevoli storie, storie di amori impossibili, persi e ritrovati, storie di bambole e case di bambole, di feste e di  luoghi fantastici.

Questa è a grandi tratti la trama del romanzo, a grandi tratti perché “Il mare senza stelle” in realtà contiene in sé infinite storie.

Dalla trama principale, che vede appunto il giovane Zachary protagonista della sua avventura, si dipanano tutti gli altri racconti sia quelli presenti nei libri con i quali Zachary entra direttamente in contatto, sia quelli che egli incontra lungo il suo cammino, sia quelli che si celano dietro le porte che Zachary e gli altri protagonisti del racconto principale aprono o avevano aperto nel passato.

Un mondo fatto di storie e di racconti, stanze piene di libri che arrivano fino al soffitto sfidando ogni legge gravitazionale, ricordano un po’ il cimitero dei libri dimenticati del compianto Carlos Ruiz Zafón, ma quello dello scrittore spagnolo era un’immensa biblioteca, mentre il mondo nato dalla penna di Erin Morgenstern è un mondo dove le storie non restano sulle pagine, ma prendono vita e i personaggi che le popolano interagiscono tra di loro e con i protagonisti della storia principale che, in alcuni casi, sono essi stessi personaggi di quelle stesse storie svoltesi in un altro tempo e in un altro luogo.

Tantissimi sono i riferimenti alla letteratura alcuni più espliciti quando vengono menzionati autori quali Fitzgerald o Chandler, altre volte solo sottintesi come quando ci si riferisce ad esempio all’armadio delle Cronache di Narnia di Lewis o a un luogo come Gran Burrone tratto dal Signore degli Anelli di Tolkien.

Innumerevoli sono i riferimenti ad “Alice nel paese delle meraviglie” di Lewis Carroll che ritroviamo nella storia della bambina che cade nel mondo sotterraneo per non parlare dei richiami al Bianconiglio e così via.

“Il mare senza stelle” è un inno a tutta la letteratura, ad esempio non si può non pensare al racconto “Davanti alla legge” di Kafka quando si legge

Altri, di fronte alla porta, la lasciano indisturbata, anche se la loro curiosità è stimolata. Pensano che gli serva un permesso. Credono che la porta aspetti qualcun’altro, anche se, in realtà, sta aspettando loro.

Non sono solo i riferimenti alla letteratura a colpire il lettore, ma ci sono anche citazioni come la scritta incisa sulla fiancata della nave che solca il mare senza stelle Cercare e Trovare di vasariana memoria o il cartello sopra una porta che recita conosci te stesso e impara a soffrire, richiamo al “conosci te stesso” del tempio di Apollo di Delfi.

Numerosi sono inoltre i riferimenti alla mitologia classica come la Luna che si innamora di un uomo, un locandiere, così come la Luna si innamorò di Endimione; ma più di tutte al mito classico si rifà la storia di Tempo e Fato, lo smembramento di Fato il cui solo cuore viene salvato dal topolino coraggioso, richiama alla mente il mito di Dionisio Zagreo fatto a pezzi dai Titati e il cui cuore viene salvato da Atena e da questa riportato a Zeus.

Possiamo infine parlare delle corrispondenze tra i culti iniziatici e le prove a cui vengono sottoposti gli adepti del mondo del mare senza stelle o dello scorrere del tempo diverso tra il mondo in superficie e quello sotterraneo che molto ricorda la differenza tra Chrònos e Aiòn.

“Il mare senza stelle” è un libro piuttosto complesso e senza dubbio di non semplicissima interpretazione, tanto che al termine rimangono aperti alcuni interrogativi, ma è pur vero che come è scritto nel romanzo stesso forse le storie migliori sono

quelle che danno la sensazione di proseguire, da qualche parte, fuori dallo spazio della storia

La lettura non è agevole e a tratti è piuttosto impegnativa, non tanto per le storie che si sovrappongono le une alle altre, quanto piuttosto per la lentezza di alcuni passaggi e per le lunghe descrizioni che, per quanto utili a tratteggiare un luogo totalmente sconosciuto, tendono a rallentare e a spezzare un po’ troppo il ritmo della narrazione.

Per quanto mi sia appassionata alla trama del racconto e alle varie storie correlate, in particolare ho trovato davvero emozionanti quelle della Luna e del locandiere e quella di Tempo e Fato, non sono rimasta altrettanto affascinata dal mondo sotterraneo che personalmente ho trovato un po’ troppo claustrofobico; preferendo per natura gli spazi aperti, l’idea di questo mondo sotterraneo mi ha inquietata parecchio.

Al di là però di quelli che possono essere chiamiamoli i miei “stati di ansia”, ho trovato “Il mare senza stelle” un romanzo molto particolare e di difficile definizione.

Credo sia uno di quei romanzi che o li si ama o li si odia, ma difficilmente possono lasciare indifferente il lettore.

Il mio consiglio, quindi, può essere solo quello di non fidarvi delle opinioni espresse da altri perché mai come in questo caso il giudizio su un libro è davvero molto, molto soggettivo e solo voi, leggendolo, sarete in grado di capire se schieravi tra i suoi sostenitori o tra i suoi detrattori.

                                 

 

sabato 5 settembre 2020

“La forma del silenzio” di Stefano Corbetta

Leo ha poco più di un anno quando gli viene diagnosticata una sordità bilaterale.

Siamo alla fine degli anni Cinquanta, il padre di Leo, Vittorio, fa il tassista e non guadagna abbastanza per poter pagare un docente privato che insegni al figlio la Lingua dei Segni.

Grazie all’amore dei genitori e soprattutto alla dedizione di Anna, la sorella maggiore, Leo impara però a comunicare e interagire con gli altri attraverso le mani, le braccia e le espressioni del viso.

All’età di sei Leo viene iscritto all’Istituto Tarra di Milano, una scuola per bambini speciali come lui, un collegio dal quale Leo torna a casa ogni fine settimana per trascorrerlo in famiglia.

Leo però non riesce ad ambientarsi, in istituto tutto è diverso, sente la mancanza dei genitori e della sorella, gli insegnanti sono severi e gli vietano di usare le mani per comunicare; il bambino si sente ancora più isolato e intrappolato.

Leo prova più volte ad esternare il suo malessere, specialmente con Anna, ma la sua sofferenza resta inascoltata.

Un giorno, poco prima delle vacanze di Natale, la scuola chiama i genitori nel cuore della notte, Leo è scomparso, è il 18 dicembre 1964.

La famiglia si sgretola inesorabilmente, quattro vite che avevano cominciato ad allontanarsi e poi smarrirsi come pianeti di una galassia priva di stelle.

Vittorio, già debole e depresso, non regge a questo ulteriore colpo ed Elsa questa volta, nonostante la resilienza che la contraddistingue, non riesce a salvare il marito da se stesso come tante volte aveva fatto in passato.

Sono trascorsi diciannove anni da quel giorno, Vittorio non c’è più, Elsa ha aperto un negozio di fiori e Anna che all’epoca della scomparsa di Leo aveva quattordici anni, è oggi una trentatreenne insegnante di sostegno alle scuole elementari oltre che una psicologa con un proprio studio privato.

Elsa, Anna e tutti coloro che furono toccati dalla vicenda hanno provato ad andare avanti con le loro vite, ma certe ferite non si possono mai davvero rimarginare.

Qualcuno all’improvviso riemergerà dal passato costringendo Anna ad indagare e a cercare di fare chiarezza su quanto accaduto quella maledetta notte di neve del 1964.

Sarà possibile risolvere un  mistero dopo diciannove lunghi anni di silenzi e di verità taciute?

Diversamente da quanto mi succede solitamente, questa volta non mi ero fatta un’idea precisa su quale tipo di romanzo potesse essere “La forma del silenzio”. Cosa aspettarsi? Un thriller, un giallo oppure un romanzo psicologico?

Il romanzo di Stefano Corbetta è in verità un po’ una combinazione di tutti e tre questi generi; abbiamo la suspense del thriller, l’indagine del romanzo giallo, ma l’elemento preponderante è senza dubbio l’introspezione psicologica dei personaggi.

L’autore indaga la personalità di ognuno di loro analizzando minuziosamente quali ripercussioni il tragico evento abbia avuto sulla loro vita, sul loro spirito e sui loro rapporti interpersonali.

La storia di Anna è senza dubbio il filo conduttore della narrazione, da qui il racconto si sposta poi sulle vite degli altri personaggi che popolano le pagine del romanzo.

La figura di Leo invece riemerge per la maggior parte attraverso i numerosi flashback dei ricordi della sorella; Anna aveva un rapporto speciale con il fratello, un rapporto fatto di amore, complicità e dedizione.

Stefano Corbetta è particolarmente bravo a rendere sulla carta il linguaggio dei segni, cosa per nulla facile, eppure sembra davvero di vederli quei dialoghi fatti di gesti e di espressioni.

Nessuno può capire appieno quali difficoltà debba affrontare quotidianamente un non udente a meno che non si soffermi seriamente a pensarci, ma anche così si è molto distanti dal comprendere cosa davvero significhi non aver modo di comunicare in assenza di luce o non poter usare un normale telefono, quanta forza di volontà ci voglia per compiere quei piccoli gesti che a tutti noi sembrano così semplici e scontati.

C’è una frase all’inizio del romanzo che mi ha colpito moltissimo e credo possa rendere perfettamente l'idea dello stato di solitudine con cui debba convivere costantemente chi non può sentire

Viveva dietro una parete di cristallo che lo teneva lontano dagli altri e teneva gli altri lontano da lui

Valerio, il padre di Leo, è un uomo debole e in preda a continue crisi depressive, non sa come relazionarsi con il figlio e questo non fa che acuire i suoi sensi di colpa; quando il figlio scompare egli non ha dubbi sul fatto che questo sia accaduto per le sue mancanze come genitore.

Elsa, la madre, è una donna pragmatica che tende a lasciarsi plasmare dagli eventi, cerca di tenere unita la famiglia, ma la famiglia ha iniziato sgretolarsi molto tempo prima della scomparsa di Leo; l’evento in sé non farà che costringerla a prendere atto di quanto sapeva ormai già da parecchio tempo e arrendersi all'inevitabile fallimento.

Anna è solo un’adolescente quando il fratello scompare e per quanto nel corso degli anni provi ad elaborare il lutto non ci riuscirà mai veramente.

Sembra quasi si sia imposta proprio di non riuscirci perché, anche solo provare a farlo seriamente, significherebbe rinunciare a Leo per sempre.

La scelta di studiare psicologia e la LIS (Lingua dei Segni) è in fin dei conti un modo come un altro per costringersi a ricordare e continuare ad avvertire la presenza del fratello mantenendone vivo il ricordo.

Anna si lascia vivere, trascina la sua esistenza chiudendo tutti fuori dal suo mondo, ma alla fine pure lei dovrà fare i conti non solo con il passato, ma anche con la donna che è diventata.

“La forma del silenzio” non è solo la storia di un mistero e di un segreto inconfessabile, ma è anche il racconto di tanti tipi di solitudini diverse.

Ci racconta della solitudine dovuta alla sordità, ma ci parla anche di quelle solitudini autoimposte dettate dall’incapacità di accettare se stessi o dalla difficoltà di aprirsi al mondo esterno a causa delle paure, dei pregiudizi e dell’insicurezza.

Sembra che la gente riesca a rendersi infelice con molta facilità, forse è la cosa che ci riesce meglio

Così afferma Anna parlando con l’amica Stella, ma questo forse perché, come dice sempre lei qualche riga più avanti

Non esiste una verità (…) esiste solo quello che manca. Il resto non lo vediamo.

 

 

domenica 30 agosto 2020

“Iliade” di Omero (traduzione di Dora Marinari)

Questo poema non ha ovviamente bisogno di alcuna presentazione né è mia intenzione in questa sede riproporvi l’annosa questione omerica, in realtà lo scopo di questo post è invece quello di parlarvi di una recente traduzione dell’Iliade (2010) edita da La Lepre Edizioni, traduzione di Dora Marinari (1930-2013) con il commento di Giulia Capo.

Le traduzioni dei poemi omerici sono state innumerevoli nel corso dei secoli, ma quella più conosciuta, sebbene forse non la più fedele al testo, è senza dubbio quella di Vincenzo Monti.

Ricordo ancora il mio primo incontro con il poema, ero alle medie e l’antologia si intitolava “Armi Eroi Popoli” a cura di Salvatore Guglielmino, fu subito amore.

Qualche anno dopo mia nonna mi regalò le edizioni integrali di entrambi i poemi in sei volumi: l’Iliade nella classica traduzione del Monti e l’Odissea, traduzione di Ippolito Pindemonte.

Avevo sempre ritenuto impossibile, quasi fosse un sacrilegio, leggere una traduzione dell’Iliade diversa da quella del Monti, fino a quando, la settimana scorsa, mi sono decisa ad avvicinarmi alla traduzione di Dora Marinari e, grazie a lei, ho scoperto che esiste un altro modo di approcciarsi al poema omerico, altrettanto piacevole e fruttuoso seppur differente.

Senza nulla togliere all’espressività poetica della traduzione del Monti, un’espressività che per me resterà sempre di una forza e di una bellezza ineguagliabili, avvicinandomi ad una nuova traduzione ho riscontrato che il rischio di finire per identificare il poema omerico con la traduzione montiana è effettivamente molto alto, quasi che il vero testo dell’Iliade fosse quello scritto da Monti.

Grazie alla traduzione di Dora Marinari la lettura dell’Iliade diviene scorrevole, pur rispettando tanto la narrazione in versi quanto il linguaggio poetico originale.

La fluidità del testo così come l’eleganza che contraddistinguono questa moderna traduzione, attenta e fedele allo spirito omerico, ci permettono di apprezzare meglio sia quanto ci viene narrato da Omero sia la bellezza di quel mondo popolato da eroi, dei e semidei senza l’incessante sforzo di cercare di interpretare quella che, in verità, è una traduzione che, seppur di grande intensità poetica e forse proprio per questa sua stessa caratteristica, tende a mettere in ombra il testo omerico.

Per fare un esempio concreto: nel proemio nella traduzione di Monti si fa riferimento agli inferi traducendo quello che nel testo è Ἂïδi (Ἂïδης) con Orco (dal latino Orcus,i).

Tradurre con il termine più letterale Ade nulla toglie alla poeticità del testo, ma facilita invece molto la comprensione da parte del lettore che nel caso della traduzione del Monti necessita di una nota a piè pagina, mentre nel caso della traduzione della Marinari comprende immediatamente ed è pertanto più libero di concentrasi sulla narrazione dei fatti.

Orco era definizione presente anche nei Sepolcri del Foscolo però ciò che all’epoca del Monti, contemporaneo del Foscolo, era un termine forse di facile identificazione non è detto debba esserlo per noi oggi tanto più se digiuni di studi classici.

Non dimentichiamo infatti che i poemi omerici nacquero con un intento comunicativo cioè con lo scopo di trasmettere storie e concetti di tipo sociale e politico.

Una traduzione fluida permette di raggiungere ai giorni nostri lo stesso scopo e di rendere accessibili a tutti quei concetti che sono alla base nella nostra cultura e che si svilupparono proprio su suolo greco.

Questa nuova traduzione così scorrevole ci permette inoltre di leggere il poema quasi fosse un romanzo in versi, dandoci la possibilità di apprezzarne anche la trama e quei personaggi che con tanta armonia mantengono i loro epiteti (Era dalle bianca braccia, Achille dal passo veloce, Atena la dea dagli occhi azzurri).

Al termine di ogni libro è presente il relativo commento a cura di Giulia Capo; il fatto di porlo alla fine anziché all'inizio del libro come si è soliti fare, è una soluzione che ho apprezzato davvero molto perché questo permette di leggere il testo omerico in maniera libera apprezzando lo svolgimento del  racconto senza subire influenze di sorta.

I commenti, tutti molto articolati ed esaustivi, sono una via di mezzo tra una parafrasi del testo e quelle che erano le note a piè di pagina delle edizioni tradizionali.

I commenti agevolano il lettore nel fare il punto su quanto appena letto e lo aiutano a focalizzare i concetti principali espressi nel libro senza tralasciare, dove necessario, di dare una spiegazione sulla scelta di tradurre una particolare parola con un dato termine piuttosto che un altro.

Al posto delle note a piè di pagina si trova invece il testo originale in greco, altra soluzione molto gradita perché facilita un riscontro immediato con la traduzione.

Questa nuova edizione ci dà inoltre la possibilità di rileggere il poema secondo diversi registri.

Indubbiamente l’Iliade è un poema dagli intenti celebrativi siano essi morali, politici o sociali, è il poema in cui Apollo ci inviata ad indagare su noi stessi  γνῶθι σαυτόν (conosci te stesso) e ancora di più ci inviata alla moderazione, a rispettare il limite invalicabile  μηδὲν ἄγαν (niente di troppo), ma l’Iliade più prosaicamente è anche il poema alle origini di tutta una letteratura che nei secoli si è ispirata all’ideale di perfezione del καλὸς καὶ ἀγαθός, dai romanzi cavallereschi ai miti romantici fino ad arrivare ai nostri giorni con la letteratura fantasy.

Quanto sono simili a quelli che leggiamo nei romanzi moderni i discorsi di incitamento ai compagni prima della battaglia che troviamo nell’Iliade? Quanto sono affini le cruente descrizioni delle ferite inferte ai nemici in quelle stesse battaglie?

Mi sono ritrovata anche a sorridere quando leggendo di Ettore sterminatore di uomini mi è sopraggiunto alla mente la definizione di sterminatore di re che George R.R. Martin attribuisce a Jaime Lannister nella sua saga del “Trono di spade”.

Ebbene sì, lo riconosco, sono partita dal ritenere quasi blasfemo leggere una traduzione dell’Iliade diversa da quella universalmente riconosciuta di Vincenzo Monti a ritrovare addirittura analogie con la più ordinaria letteratura contemporanea.

L’elemento distintivo della traduzione di Dora Marinari è proprio questo, averci restituito in tutto il suo splendore un poema che, sebbene millenario, è ancora vivo e attuale, un poema che non ci si stancherà mai di leggere anzi di ascoltare.   

Era da tanto tempo che non leggevo ad alta voce eppure con questo libro mi sono ritrovata a farlo perché se si vuole davvero apprezzare a pieno la natura di questo poema bisogna rispettarne il ritmo, l'Iliade va ascoltata anche se solo dalla propria voce.

 



 

mercoledì 26 agosto 2020

“Io che ho amato il Magnifico” di Annalisa Iadevaia

Lucrezia Donati conosce Lorenzo de’ Medici durante un ricevimento a Palazzo Medici.

I Donati, una tra le famiglie più nobili di Firenze, erano stati molto ricchi un tempo, ma sopraggiunta la decadenza economica, avevano cercato di farvi fronte ripiegando sul mercato della lana.  

Da anni intrattenevano quindi rapporti con la famiglia Medici per via della loro banca.

Fin da subito tra Lucrezia e l’erede di casa Medici nasce un’intesa profonda che va ben al di là della semplice attrazione fisica.

I loro incontri si svolgono sempre di nascosto e spesso nella bottega di Sandro Botticelli, l’artista amico fraterno di Lorenzo.

La situazione precipita quando Lucrezia scopre che Lorenzo, che credeva a lei completamente devoto, ha accettato di sposare Clarice Orsini, la nobildonna romana scelta per lui dalla madre.

Un matrimonio prestigioso quello fortemente voluto da Lucrezia Tornabuoni per l’erede di casa Medici il quale a malincuore e pur sapendo di infliggere un grande dolore alla donna amata, non può che inchinarsi dinnanzi alla ragion di stato.

Lucrezia sconvolta da quello che giustamente considera un tradimento da parte dell’uomo che le aveva giurato eterno amore, accetterà di sposare un mercante di nome Nicolò Ardinghelli.

Lorenzo non riuscirà a dimenticare Lucrezia e, nonostante lei abbia scelto di trasferirsi a Roma con il marito per mettere più distanza possibile tra loro, neppure lei riuscirà a scordarsi di lui.

Le loro strade inevitabilmente si incroceranno di nuovo e tante saranno le prove che dovranno affrontare per non perdersi un'altra volta, molti i pericoli che incontreranno sulla loro strada.

Tradimenti, colpi di scena e antiche profezie fanno da sfondo a questo romanzo molto particolare dove la verità storica risulta parecchio rielaborata ai fini del’intreccio narrativo.

Analizzando i personaggi del romanzo non possiamo che rimanere conquistati dalla forte, determinata e orgogliosa Lucrezia Donati e allo stesso tempo, seppur talvolta assuma degli atteggiamenti un po’ indisponenti, non si può neppure restare indifferenti dinnanzi alla figura carismatica e seducente di Lorenzo de’ Medici.

L’autrice ha illustrato in modo magistrale i caratteri dei due protagonisti indagandone la psicologia così accuratamente che il lettore riesce a percepire l’intensità dei loro sentimenti e il mutare delle loro emozioni che si modificano a seconda dell’evolversi degli eventi.

Ma non sono solo i due protagonisti ad essere così ben caratterizzati, infatti, ogni singolo personaggio è tratteggiato in modo molto dettagliato: la scaltra e ambiziosa Lucrezia Tornabuoni, la vivace Simonetta, il gentile Sandro Botticelli, l’astioso frate, la materna e fidata Gemma e Clarice, la donna che dietro ad un pio temperamento, nasconde invece un’indole tenace, fiera e severa.

La verità storica nel romanzo è senza dubbio molto rimaneggiata.

Potrebbe passare sotto silenzio che Sandro Botticelli venga descritto come innamorato segretamente di Lucrezia Donati, quando per la maggior parte della storiografia egli riconosceva in Simonetta Cattaneo Vespucci la sua musa ispiratrice, ma a tutti gli effetti questa è una questione ancora aperta per gli studiosi.

Potrebbe passare inosservato anche il fatto che Lorenzo abbia avuto una figlia illegittima, quando in realtà  il Magnifico, forse unico della sua famiglia, non ebbe figli fuori dal matrimonio o almeno non ne ebbe di cui ci sia giunta ad oggi notizia.

Altre cose, invece, potrebbero risultare davvero un po' troppo forzate, sebbene dettate dall’economia del romanzo, per coloro i quali desiderano che la trama dei romanzi storici si conformi quanto più possibile alla verità storica.

Mi riferisco ad esempio alle parentele sia quella che lega Frate Savonarola a Nicolò Ardinghelli, descritti come zio e nipote, sia quella che lega Simonetta Vespucci a Lucrezia Donati, considerate cugine, per non parlare poi dello stato di vedovanza di Simonetta e del fatto che lei porti in grembo il figlio di Giuliano, figlio illegittimo che a tutti gli effetti il Medici ebbe, ma non da Simonetta, e che venne allevato dalla famiglia paterna ed eletto al soglio pontificio col nome di Papa Clemente VII.

Detto ciò, per quanto risulti pericoloso allontanarsi così tanto dalla verità storica, è pur vero che un romanzo in quanto tale è pur sempre un’opera di fantasia e che nulla vieta ad un autore di inventare qualsiasi storia egli desideri o rielaborare fatti storici a suo piacimento.

Su quali siano i limiti concessi, se sia giusto farlo o meno, credo che ognuno sia libero di pensarla a modo suo e la ritengo una cosa prettamente soggettiva.

È innegabile che la storia nata dalla penna di Annalisa Iadevaia sia una storia dal solido intreccio narrativo, ma anche molto fantasiosa; una ventata di novità nel panorama della letteratura che vede la famiglia Medici ormai protagonista di romanzi di ogni tipo storici, rosa, gialli, thriller…

Ho letto molti saggi sulla famiglia Medici e numerosi romanzi caratterizzati da un’attinenza storica più o meno marcata; quello di Annalisa Iadevaia è quello più fantasioso di tutti, l’autrice ha dimostrato una immaginazione vivace e brillante, per nulla comune.

Mi sarei però aspettata a conclusione del libro di trovare una “nota dell’autore”, come è consuetudine in questi casi, in cui l’autrice segnala quali siano le verità storiche e quali invece i fatti di pura finzione letteraria.

Personalmente ho trovato questo romanzo davvero interessante, la scrittura è fluida e scorrevole, i dialoghi sono ben scritti, i personaggi ben caratterizzati, la trama ben organizzata e l’intreccio coinvolgente e appassionante.

Da ogni pagina del romanzo in generale, ma soprattutto in quelle righe nelle quali Lucrezia si solleva a difesa della sua città, si percepisce quanto sia grande l’amore che l’autrice stessa nutre per Firenze e per la sua storia.

Sarò sincera, ho faticato a interrompere la lettura del romanzo e per non leggerlo tutto d’un fiato in un solo giorno mi c’è voluta tanta, tanta forza di volontà, alla fine sono riuscita a tenermi una cinquantina di pagine per il giorno successivo.

 



sabato 22 agosto 2020

“Il Granduca innamorato” di Stefano Corazzini

Figlio del Granduca di Toscana Cosimo I de’ Medici e di Eleonora di Toledo, Francesco I de’ Medici (1541 – 1587) viene spesso ricordato per le sue due più grandi passioni: l’alchimia e Bianca Cappello.

Francesco aveva una personalità completamente diversa da quella di suo padre.

Cosimo era autoritario e senza scrupoli, tanto che non aveva nessuna remora, se necessario, a governare anche con la paura, Francesco era ben lungi dall’avere lo stesso carattere freddo e determinato.

Considerato fin da giovane di indole riservata e malinconica, egli amava rifugiarsi nei suoi studi e crescendo, nonostante cercasse in ogni modo di conciliare la propria passione per la scienza con gli impegni istituzionali, questa sua passione gli procurò continui rimproveri da parte della famiglia.

Sebbene durante il suo governo avesse investito molto nello sviluppo scientifico e culturale e avesse tentato anche di perfezionare il sistema di riscossione delle tasse, con l’intenzione di diminuire la pressione fiscale, il suo governo ancor oggi viene associato ad un'amministrazione corrotta e a un sensibile aumento della criminalità; alla sua persona, poi, è attribuito ogni tipo di misfatto tra cui non è escluso neppure l’omicidio.

Alla sua morte, proprio per l’avversione che il popolo di Firenze aveva da sempre nutrito nei suoi confronti, non ci fu nessuna difficoltà per il fratello Ferdinando di prendere il suo posto sul trono granducale.

Cosimo I scelse e ottenne per il figlio una moglie che avrebbe portato lustro alla casata, Giovanna d’Austria, ultimogenita dell’Imperatore Ferdinando I d’Asburgo.

Francesco responsabilmente si inchinò alla ragion di stato, ma la pia Giovanna che fin da subito conquistò l’approvazione dei fiorentini, non riuscì mai a conquistare l’affetto del suo sposo nonostante questi non mancasse di ottemperare a tutti i suoi obblighi di marito.

Ma chi era Bianca Cappello la donna di cui si innamorò follemente il Granduca?

L’avvenente veneziana aveva 24 anni quando, incinta, decise di fuggire dalla città lagunare per rifugiarsi a Firenze con il suo amante Piero, un fiorentino bello ed elegante secondo alcuna storiografia, un uomo rozzo e incline alla vita mondana secondo altre fonti.

Mentre i nobili veneziani chiedevano giustizia e un intervento forte e deciso da parte di  Cosimo I questi, contro ogni aspettativa, permise ai due giovani di sposarsi e vivere a Firenze.

La conquista di Bianca da parte di Francesco non fu un’impresa facile, ma la perseveranza del futuro Granduca venne premiata tanto che il loro amore durò per tutta la vita.

Alla morte di Giovanna, infatti, Francesco sposò in seconde nozze Bianca, rimasta vedova anch’ella, e, noncurante dell’avversione che i fiorentini da sempre provavano per lei, ne fece la nuova Granduchessa di Toscana.

Se Bianca fosse veramente innamorata di Francesco o fosse invece solo una donna avida che vide in lui la possibilità di realizzare i suoi ambiziosi progetti non è dato sapere, così come non è dato sapere se la loro morte, sopraggiunta a distanza di poche ore l'uno dal'altra, fosse da attribuirsi a cause naturali o fosse avvenuta su ordine del fratello di Francesco, quel Ferdinando de’ Medici che gli succedette come Granduca di Toscana.

A questo ultimo interrogativo neppure la scienza moderna è ancora riuscita a dare una risposta definitiva e forse mai lo farà.

Il titolo “Il Granduca innamorato” è piuttosto fuorviante perché suggerisce l’idea che si tratti di un saggio incentrato esclusivamente sulla storia d’amore tra Francesco I de’ Medici e Bianca Cappello.

In realtà il libro di Stefano Corazzini non solo ci narra tutta la vita del Granduca Francesco I, tratteggiandone minuziosamente anche la psicologia, ma inserisce questo racconto all’interno di un quadro più ampio parlandoci della storia della famiglia Medici, piutosto brevemente del ramo primogenito e più diffusamente del ramo secondogenito a cui lo stesso Granduca apparteneva.

Il volume inoltre è corredato di una vasta bibliografia, da numerose illustrazioni, una sorta di galleria dei protagonisti, e da una serie di interessanti note che, oltre a integrare e arricchire quanto riportato nel libro, offrono validi spunti per il lettore che desiderasse approfondire gli argomenti trattati.

L’intricata e passionale storia d’amore di Francesco e Bianca è solo una delle tante che coinvolsero la famiglia Medici specie quella di seconda generazione.

Cosimo stesso fu accusato di aver fatto assassinare la figlia Maria perché colpevole di una relazione con un paggio di corte, sebbene probabilmente la giovane fosse morta per febbre malariche, e lo stesso Francesco si dice fosse stato coinvolto nell’omicidio della sorella Isabella fatta uccidere, secondo alcune fonti, dal marito Paolo Orsini, ma anche questo è tutto da dimostrare (vedi “L’onore perduto di Isabella de’ Medici” di Elisabetta Mori, edito da Garzanti).

Con Francesco I inizia il declino di quella famiglia, i Medici, che dominarono Firenze per più di trecento anni.

Stefano Corazzini attraverso le pagine di questo saggio vuole rendere giustizia alla figura dell’erede di Cosimo I, la cui immagine è solitamente legata solo a termini negativi quali corruzione e decadenza, dimenticando quanto di buono egli avesse comunque fatto per Firenze e la Toscana.

Del suo governo restano le grandi opere del Buontalenti, il quale fu per il Granduca quello che era stato il Vasari per il padre Cosimo I, l’istituzione dell’Accademia della Crusca, l’impulso e lo sviluppo delle scienze e infine due progetti, due stanze di Palazzo Vecchio: lo Scrittoio di Bianca e lo Studiolo privato di Francesco I, un ambiente raffinato  e intimo nel quale sono sintetizzate le sue passioni, un luogo privato dove potersi rifugiare lontano da sguardi indiscreti e coltivare i propri studi.

Essere un Medici non doveva essere stato facile per nessuno dei suoi predecessori, ognuno di essi, chi più chi meno nel corso dei secoli aveva dovuto scontrarsi con obblighi e compromessi legati ad un nome tanto potente quanto ingombrante, Francesco più di altri soffrì per questa pesante eredità e dovette impegnarsi più di altri per non rimanerne completamente sopraffatto.

 

 

giovedì 20 agosto 2020

“Genius familiaris, Genius loci, Eggregori e Forme Pensiero” di Alessandro Orlandi

Il libro, dedicato al culto degli antenati nel mondo antico e alla trasmissione iniziatica, è suddiviso in due parti.

Nella prima parte Alessandro Orlandi si propone di illustrare al lettore quali siano le analogie esistenti tra il Genius Loci, il culto degli antenati nell’antica Roma, le Forme-Pensiero e gli Eggregori.

Nella seconda parte invece l’autore analizza il ruolo della tradizione nel mondo antico ed esamina quanto venisse trasmesso attraverso l’iniziazione. 

Si chiede inoltre se si possa parlare ancora oggi di tradizione e iniziazione e, in caso affermativo, quale sia l’aspetto da esse assunto nel mondo moderno.

Senza entrare nel merito specifico della materia esposta, poiché ritengo che la lettura di queste pagine sia un percorso ricco e interessante che ogni lettore debba affrontare assolutamente senza interferenze di sorta e libero da ogni tipo di sollecitazione esterna, mi concedo di darvi solo alcune informazioni propedeutiche agli argomenti trattati.

Cosa si intende per Genius familiaris, Genius loci, eggregori, forme-pensiero?

Per prima cosa dobbiamo ricordare che, secondo la visione cristiana, l’uomo ha tre componenti fondamentali: corpo - spirito - anima, ma gli antichi avevano una ben diversa concezione, per gli Egizi ad esempio le componenti del corpo umano erano addirittura nove.

Secondo i Greci alla nascita ogni uomo veniva affidato dalle tre Moire o Parche (Cloto, colei che filava il destino degli uomini, Lachesi, colei che distribuiva le sorti e Atropo, colei che recideva il filo al momento della morte) ad un daimon che non lo avrebbe mai abbandonato per tutto il corso della sua vita.

Il daimon era anche fonte di ispirazione delle creazioni e delle intuizioni per poeti, indovini, scienziati e artisti.

Seppur con alcune differenze, il daimon era quanto di più simile al Genius latino; proprio nel mondo romano, infatti, il demone individuale veniva spesso chiamato Genio.

A grandi linee si potrebbe dire che mentre il Genius loci esprimeva il carattere e la natura profonda dei luoghi, il Genius familiaris (o Genio della stirpe) era connesso alla casa, alla natura della famiglia e agli spiriti degli antenati.

Nelle case dell’antica Roma di solito c’era poi un luogo dedicato al culto dei diversi dèi domestici: Lari, Penati, Genius Familiaris e dèi Mani.

I Penati erano di solito dèi del pantheon greco o romano, i Lari erano gli spiriti degli antenati virtuosi e che si erano distinti in vita e infine gli dèi Mani erano gli spiriti di tutti gli antenati defunti.

Le forme-pensiero sono entità emanate all’esterno dall’uomo alimentate dai suoi pensieri, dalle sue paure, dalle sue speranze e dalle sue energie; quando queste forme-pensiero scaturiscono dall’attività immaginativa di un gruppo che condivide un intento comune vengono definite eggregori.  

Abbiamo detto che nella seconda parte del libro si parla di tradizione e iniziazione. Che cosa si intende con tali termini?

Per tradizione (in greco paràdosis – trasmissione; in latino tradere – trasmettere) si intende la trasmissione non solo di contenuti e insegnamenti, ma anche dell’energia che il maestro trasmette al discepolo, energia che permette al discepolo di ampliare la propria percezione del mondo.

L’iniziazione nasce e si propaga attraverso il passaggio e lo scambio di energie che avviene attraverso uno specifico rituale.

Nell’antichità nelle iniziazioni ai culti misterici gli iniziati erano tenuti al segreto e pertanto poco o nulla è trapelato e giunto fino a noi sui riti che venivano celebrati.

Ogni cultura nel corso dei secoli ha sviluppato le proprie tradizioni spirituali e ancora oggi esistono organizzazioni iniziatiche, la Massoneria e il Neotemplarismo ad esempio sono alcune di esse.

Nella seconda parte del libro si indaga sul cambiamento verificatori nel corso dei secoli nelle tradizioni iniziatiche che col tempo, perdendo di vista il loro scopo primario, ossia quello di cercare di armonizzare il microcosmo (Uomo) con il macrocosmo (Universo), si sono indirizzate invece verso il raggiungimento di un sempre maggiore potere personale, polarizzando così l’attenzione dell’iniziato verso il mondo esterno invece che verso la propria interiorità.

Possiamo ancora parlare di realtà della Tradizione e dell’Iniziazione nel XXI secolo?

Su questo e su altri numerosi interrogativi relativi alla spiritualità nel mondo antico e in quello moderno Alessandro Orlandi cerca di gettare luce attraverso le pagine di questo saggio che, partendo dall’analisi dei culti iniziatici, quali ad esempio i Misteri Eleusini, quelli di Cibele, di Dionisio, passando poi per la sacralità attribuita alla commedia e alla tragedia dagli antichi greci, esaminando l’importanza della tradizione alchemica, arriva infine, senza tralasciare quelle tendenze legate allo spiritismo, all’occultismo, alla veggenza, al mesmerismo, ad analizzare la più moderna spiritualità, la cosiddetta “New Age” che, senza riferirsi ad una particolare tradizione, mescola vari elementi.

Quello di Alessandro Orlandi è un saggio breve, sono appena un centinaio di pagine, ma davvero molto articolato e approfondito.

Da sottolineare inoltre la grande capacità dello scrittore di saper esporre un argomento tanto complesso in modo semplice e chiaro così che possa essere accessibile anche ai neofiti della materia.   

Dello stesso autore vi ricordo “Dionisio nei frammenti dello specchio”.




martedì 18 agosto 2020

“La passione del Re Sole” di Gerty Colin

Corre l’anno 1656, la  Fronda è solo  uno sbiadito ricordo e il cardinale Mazzarino gode ormai del pieno appoggio della Regina Anna, del giovane Re Luigi XIV e di tutta la Francia.

In questo clima di distensione il primo ministro ha fatto giungere sul suolo francese molti membri della sua famiglia e tra questi ci sono le bellissime nipoti Mancini e le loro cugine Martinozzi.

Le mazarinettes, come sono soprannominate le giovani, sono destinate ad essere delle graziose ed utili pedine nell’abile gioco della politica matrimoniale che lo zio ama condurre per il bene della Francia, ma soprattutto per la propria gloria.

Maria è la terza delle cinque sorelle Mancini, ha appena 17 anni, è forse meno bella della sorella Olimpia e senza dubbio la piccola Ortensia, una volta cresciuta, le surclasserà entrambe, ma Maria, seppur ancora acerba nell’aspetto, è una ragazza intelligente, colta e vivace.

Mentre la sorella maggiore Laura è già stata maritata e Olimpia gode dei favori del re, Maria è condannata a condurre una vita ritirata nei suoi appartamenti in quanto destinata dalla madre al convento.

La madre però muore all’improvviso e Maria trova inaspettatamente un prezioso alleato nello zio che, in disaccordo con i desideri della defunta sorella, decide di dare alla giovane un’opportunità assecondandola nel suo sogno di conquistare il cuore del re, chissà forse addirittura vagheggiando per lui stesso la fama di poter essere un giorno zio del Delfino di Francia.

La passione tra l’intrepida Maria e il riservato Luigi XIV scoppia inevitabilmente, il loro è un amore che nulla ha a che fare con i giochi della politica e la ragion di stato, il loro è un amore fatto di amicizia e complicità, ma Luigi non è solo Luigi egli è anche e soprattutto il Re di Francia e il suo destino deve compiersi.

Luigi sacrificherà il suo amore giovanile per divenire quel grande sovrano che noi oggi conosciamo come il Re Sole, colui che costruì splendidi palazzi, vinse guerre e collezionò numerose amanti.

Maria sposerà il connestabile Lorenzo Colonna e si trasferirà a Roma dove, con grande scandalo della nobiltà romana non avvezza a certi costumi, aprirà le porte del suo palazzo nel quale si potrà respirare aria di Francia sul suolo romano e dove gli ospiti francesi saranno sempre i benvenuti.

Potrà però Maria essere felice accanto a Lorenzo? Riuscirà a dimenticare quel suo primo giovanile amore o quella fiamma continuerà a bruciare? Il re di Francia riuscirà davvero a cancellare il ricordo di quella giovane che gli aveva illustrato con tanto entusiasmo quali fossero oneri e onori di un grande sovrano? Maria riuscirà a tornare a Parigi dal “suo” Luigi o non lo rivedrà mai più?

Incontrai per la prima volta il personaggio di Maria Mancini Colonna durante una visita guidata proprio a Palazzo Colonna a Roma, una dimora meravigliosa, e rimasi affascinata dalla sua storia ripromettendomi in futuro di cercare qualche romanzo che parlasse di lei.

Il libro di Gerty Colin è un romanzo ben scritto e dettagliato; la scrittrice descrive minuziosamente la galleria dei numerosi personaggi, nomi noti della storia di Francia, e quella Corte dissoluta, maldicente, corrotta e meschina nella quale tali personaggi facevano bella mostra di sé imparando fin da subito l’arte della dissimulazione per non soccombere sotto i colpi delle calunnie.

Un luogo dove non ci si poteva fidare neppure dei fratelli e delle sorelle anzi talvolta era proprio da quelli più che dagli altri che ci si doveva guardare le spalle.

A fare da contraltare troviamo una Roma dove il vizio dilaga in egual misura che alla Corte francese, dove non esiste alcun rispetto per l’abito talare neppure da parte di chi lo indossa e dove procurarsi un veleno è più facile che comprare delle caramelle.

La caratterizzazione dei personaggi è ben articolata e il quadro che ne viene fuori è affascinante seppur popolato da figure per la maggior parte abbiette, subdole e lascive: Ortensia vivace e corrotta, Olimpia acida e vendicativa, Lorenzo traditore e violento... difficile salvarne qualcuno.

Maria è l’unica in tutta questo carrozzone di degenerate sanguisughe che resta fedele a se stessa e alla sua idea di amore puro.

Per lei, sempre devota al ricordo del suo primo amore, è impossibile comprendere il comportamento delle sorelle che con tanta facilità si lasciano corrompere dalla lussuria, è impossibile perdonare i tradimenti di Lorenzo così come le è oltremodo gravoso riuscire ad accettare il tradimento di coloro che credeva amici sinceri.

Luigi è il Re Sole, a lui tutto è concesso, ha sacrificato l’amore di Maria per il bene della Francia, ma resta il dubbio che l’abbia fatto perché troppo debole per opporsi al volere congiunto della madre e del suo primo ministro che desideravano sul trono al suo fianco l’infanta di Spagna Maria Teresa d’Austria.

Mentre Maria conserva la sua ingenuità quasi fino alla fine dei suoi giorni, il Grande Re è cambiato, forse a farlo mutare è stato il dolore per la perdita della sua più cara e tenera amica, forse le cattive compagnie, forse il potere, qualunque cosa sia stato però di quel giovane timido, insicuro e gentile, seppur altezzoso, nulla sembra essere rimasto, al suo posto c’è solo un sovrano presuntuoso e arrogante.

“La passione del Re Sole” è un libro coinvolgente e la figura di Maria riesce a creare un forte rapporto empatico con il lettore fin dalle prime pagine.

Il romanzo di Gerty Colin mi ha stupito notevolmente, mi attendevo, narrando la storia di una grande passione nata nella fastosa e modaiola Corte di Francia, un romanzo allegro e  vivace, invece “La passione del Re Sole” si è rivelato essere anche un romanzo malinconico, nostalgico e riflessivo come la sua protagonista Maria Mancini Colonna, colei che avrebbe potuto essere regina di Francia, ma per la quale il destino ha disposto poi diversamente.

Per tutta la lettura del romanzo ho sofferto con la protagonista per le sue pene d’amore, ho sperato che qualcosa potesse cambiare, ma una volta terminata la lettura mi sono ritrovata a chiedermi se Maria sarebbe stata davvero felice al fianco del suo amato Luigi. Davvero il Re Sole sarebbe stato diverso se avesse avuto il coraggio di seguire il proprio cuore invece di inchinarsi alla ragion di stato e ai desideri materni e del cardinale?

Purtroppo, non avrò mai la mia risposta, mi resta solo l’eco di una struggente storia d’amore che si fa strada fino a noi attraverso le nebbie del passato e per la quale mi tornano alla mente alcuni versi di Dante Gabriel Rossetti (A Superscription, sonetto 97 di The house of Life):

Guardami in volto, il mio nome è Sarebbe-potuto-essere;

e sono anche chiamato: Mai-più, Troppo-tardi, Addio.