Ipazia, astronoma, matematica e filosofa, visse nel IV secolo d.C. ad Alessandria d'Egitto.
Alla morte del padre Teone ereditò da questi la direzione della scuola neo-platonica; quella alessandrina era stata la comunità scientifica più importante della storia, proprio qui infatti avevano studiato importanti scienziati e filosofi quali Archimede, Ipparco, Aristarco di Samo, Tolomeo e molti altri.
A Ipazia si devono importantissime scoperte scientifiche oltre alla realizzazione di preziosi strumenti come l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro.
Le fonti storiche che la riguardano sono molto esigue e quasi nulla è giunto fino a noi delle sue opere se non qualche raro frammento.
Gli anni di Ipazia furono gli anni in cui si assistette allo sciagurato patto tra l’agonizzante Impero Romano, minacciato dalle popolazioni barbare che premevano ai confini, e la Chiesa cattolica che vantava figure di spicco quali Ambrogio, vescovo di Milano, e il padre della Chiesa Agostino.
Il patto prevedeva, oltre alla completa evangelizzazione dell’Impero, la soppressione di templi, biblioteche, centri di studio e con essi l’eliminazione di scienziati, studiosi, filosofi, in poche parole di tutti coloro che potessero minacciare la Chiesa cattolica con la diffusione del libero pensiero e delle scienze.
Ad osteggiare apertamente il vescovo di Alessandria Cirillo troviamo il prefetto romano Oreste.
Ipazia, già invisa a Cirillo in quanto scienziata, filosofa e per di più donna, pagò con la vita probabilmente anche la sua amicizia con Oreste.
Nel 415 d.C. venne barbaramente uccisa e fatta a pezzi dai fondamentalisti che ritenevano che la sua libertà di pensiero influenzasse negativamente il popolo allontanandolo dal vero credo.
Ipazia amava infatti trasmettere il suo sapere recandosi tra la gente e, nello scontro tra ragione e religione, fu lei a pagare il prezzo più alto.
Il libro è diviso in due parti.
Nella prima parte, scritta da Adriano Petta, viene raccontata la vita di Ipazia; un racconto romanzato, ma che segue con rigore storico gli eventi e il contesto culturale in cui si svolsero i fatti narrati.
Nella seconda parte, ad opera della penna di Antonino Colavito, invece è Ipazia in prima persona a parlarci, come in un sogno, delle sue ricerche, delle sue speranze, sei suoi dubbi e del sapere di cui è custode.
Probabilmente molti di voi, come me, avranno già letto questo romanzo anni fa in occasione dell’uscita del film Agora (2009) con la bravissima Rachel Weisz nel ruolo di Ipazia.
“Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV secolo” è uno di quei libri che ti segnano profondamente, ragione per la quale, anche se di solito non amo rileggere i libri già letti in considerazione del fatto che non mi basterà una vita per leggere tutto quello che vorrei, ho voluto fare un’eccezione come raramente mi accade.
Perché rileggere il romanzo?
Iniziamo dalla motivazione più ovvia, anche se per questo non meno valida, ossia per non dimenticare.
Per non dimenticare che secoli fa una donna dotata di una mente straordinaria, tenace e determinata, diede la sua vita per la scienza e per ciò in cui credeva.
Ipazia
morì non solo per difendere il pensiero scientifico, ma anche per affermare il
diritto di tutti al libero pensiero.
In molti paesi la donna è ancora oggi considerata un essere inferiore, ma la verità è che anche nel mondo più civilizzato, o almeno in quella parte di mondo che ci piace definire tale, la donna ha raggiunto una parità solo apparente.
Non possiamo infatti ignorare che gli
stipendi delle donne, a parità di competenze e mansioni, siano ancora troppo spesso
inferiori a quelli dei loro colleghi uomini, che sia ancora necessario
avvalersi delle quote rosa e che ai vertici delle grandi aziende gli uomini siano
numericamente superiori.
Sono
trascorsi ben sedici secoli allorquando Ipazia scelse di dedicare la propria
vita alla scienza rinunciando ad una sua famiglia, altro motivo per cui venne osteggiata.
Eppure, non possiamo fingere di non
sapere che, nonostante si dica che una donna sia libera di scegliere se
diventare madre o meno, colei che rinuncia volontariamente alla maternità per
dedicarsi ad altro o anche solo per una sua risoluzione personale, ancora oggi venga
sottoposta a critiche, spesso neppure troppo velate, e debba sentirsi sempre in
dovere di giustificare le proprie scelte.
Ero inoltre molto curiosa di sapere quali impressioni mi avrebbe suscitato rileggere questo romanzo a distanza di più di dieci anni e dopo aver affrontato nel frattempo tante altre letture.
Le emozioni provate sono state le stesse, la medesima intensità e lo stesso coinvolgimento, se non fosse per una sola piccola nota stonata, ovviamente per il mio personale sentire, laddove si condanna Claudio Claudiano perché incline a sprecare il suo talento dedicandosi esclusivamente alla retorica e alla poesia anziché alla scienza.
Ipazia era una scienziata e una filosofa, faceva della ragione il suo unico scopo, per lei la ragione era la fonte di tutto.
Oggi abbiamo una tecnologia super avanzata, la scienza ha fatto passi da gigante, ma mai come oggi avremmo in verità bisogno di molta più poesia.
All’epoca in cui visse Ipazia la filosofia, la matematica, l’astronomia, la musica erano strettamente collegate tra loro, per cui non so se tale affermazione nasca dal vero pensiero di Ipazia ritrovato tra i frammenti delle sue opere o se sia invece solo finzione letteraria ad opera dell’autore del romanzo, però leggere:
Lascia perdere Shalim testi di religione e di filosofia. Noi sappiamo cosa può veramente mutare il cammino dell’uomo.
Pur comprendendo che si tratta di un romanzo che parla di storia della scienza, trovo comunque piuttosto fastidioso quanto così espresso.
Capisco la necessità da parte di
Ipazia di dover scegliere cosa salvare, ma una tale affermazione traccia un
confine troppo netto tra ciò che è da considerarsi utile e ciò che invece deve
essere considerato superfluo dell’umano sapere.
Premesso che mi risulta impossibile fare una classificazione delle varie discipline, mi rifiuto di credere che poesia, filosofia, ma anche religione e mitologia, nelle quali affondano le nostre radici, si possano ritenere materie superflue per il cammino dell’uomo.
Gli studi umanistici sono sempre più osteggiati perché poco remunerativi e considerati di limitata utilità, non comprendendo che proprio attraverso questi stessi studi si forgia la chiave del pensiero, la possibilità di sviluppare quello spirito critico che manca alla nostra società spianando così la strada a fondamentalisti e populisti.
Non so perché non avessi notato questa stonatura quando lessi il romanzo per la prima volta, forse mi ero troppo persa nella trama del racconto o, più semplicemente, magari dieci anni fa non ero così suscettibile sull’argomento.
La figura di Ipazia, comunque, donna forte e determinata, sicura delle proprie scelte, comunicativa e appassionata, dolce ma allo stesso autorevole e ferma, non può che affascinare e coinvolgere il lettore anche ad una seconda lettura più approfondita.
Spero di essere riuscita ad incuriosirvi abbastanza da spingervi a leggere il libro nel caso non l’aveste mai fatto o, nel caso invece esso sia una vecchia conoscenza, di avervi un poco invogliati a inserirlo nell’elenco dei romanzi da rileggere.