domenica 1 gennaio 2023

“Ritratto di un matrimonio” di Maggie O’Farrell

La storia non può essere riscritta, ciò che è accaduto non può mutare, ma la letteratura può ridisegnare il passato, addirittura modificarne il finale.

La storia di Lucrezia de’ Medici, la minore delle figlie di Cosimo I ed Eleonora di Toledo, andata in sposa ad Alfonso II d’Este è una di quelle storie poco conosciute che, forse proprio per questo motivo, più di altre si prestano ad essere reinterpretate dalla letteratura. 

Maggie O’Farrell ci racconta la storia di una donna del Rinascimento la cui esistenza è avvolta nel mistero. Lucrezia morì di tisi a neppure un anno dal suo ingresso a Ferrara come duchessa consorte. Sulla sua morte circolarono all’epoca molte voci di un possibile avvelenamento. Proprio da queste dicerie l’autrice trae spunto per il suo romanzo.

Corre l’anno 1561, Lucrezia è stata condotta dal marito nella fortezza vicino a Bondeno. La giovane sa con certezza che il marito ha intenzione di assassinarla. Non si spiegherebbe diversamente la scelta di portarla lì, senza la compagnia delle sue cameriere, scortati solo da alcune guardie.

In un rincorrersi di continui flashback, Maggie O’Farrell tratteggia la figura di Lucrezia a partire dal suo concepimento avvenuto in una delle stanze di Palazzo Vecchio, la Sala delle Carte geografiche.

Lucrè, come veniva chiamata dai familiari, era una bambina particolare, una ribelle fin dalla nascita. Intelligente e appassionata, minuta per la sua età, veniva trascurata da tutti i famigliari, ignorata e sbeffeggiata dai fratelli, spesso derisa dalle sorelle maggiori Isabella e Maria.

Insofferente al cerimoniale spagnolo che vigeva alla corte fiorentina, lo sarà altrettanto nei confronti di quello della corte ferrarese. La giovane Medici mal sopportava dover posare per farsi ritrarre, ma amava in modo viscerale dipingere. La pittura e il disegno le donavano quella pace e quell’equilibrio interiore di cui aveva bisogno; attraverso l’arte riusciva ad esorcizzare le sue paure e a ritrovare se stessa.

Per un perverso gioco del destino Lucrezia dovette prendere il posto della sorella. Doveva essere, infatti, la primogenita di Cosimo ed Eleonora a diventare un giorno duchessa consorte a fianco del futuro Alfonso II d’Este. Purtroppo, però, Maria sì ammalò gravemente e morì durante il fidanzamento. Lucrezia dovette accettare il suo destino e piegarsi alla fredda ragion di stato.

Quando neppure sedicenne venne consegnata al marito, per un momento volle credere che il suo matrimonio potesse rivelarsi un’unione felice come quella dei suoi genitori. Ben presto, però, dovette ricredersi poiché Alfonso era un uomo spietato che governava con il pungo di ferro. Lei, figlia della fecondissima Eleonora di Toledo, non era altro che un mero strumento per dare un erede al ducato, nulla di più.

Il ritmo del romanzo è piuttosto lento e una sensazione di angoscia pervade tutta la narrazione. L'atmosfera è pervasa fin dalla prima pagina da un senso di incombente ed ineluttabile tragedia. Le figure che ruotano attorno a Lucrezia sono caratterizzate nei minimi dettagli e si stagliano vivide nel racconto delle corti rinascimentali descritte magistralmente dalla penna di Maggie O’Farrell. In particolare, il personaggio della sorella di Alfonso Nunciata, che sembra quasi uscita da un quadro di Botero, riesce a suscitare un sentimento di antipatia tale nel lettore che sarebbe difficile da raggiungere se l’autrice non fosse tanto capace a delineare la psicologia dei personaggi.

Moltissime sono le licenze storiche che Maggie O’Farrell si è concessa per scrivere il suo romanzo, ma come è giusto che sia, sebbene piuttosto spesso questo non accada, il lettore troverà al termine della lettura una valida nota dell’autrice in cui viene fatta chiarezza su tutte le modifiche fatte in favore della coerenza narrativa.

In fin dei conti un romanzo storico è un’opera di fantasia ed è giusto che la creatività del suo autore venga lasciata libera di correre senza freni né intralci. 




domenica 25 dicembre 2022

“Bella Poldark” di Winston Graham

Il libro si apre con una nota dell’autore che riassume in breve, a beneficio dei nuovi lettori, i fatti avvenuti in precedenza unitamente a qualche nota sui personaggi principali. Siamo, infatti, giunti al dodicesimo volume della saga dei Poldark, il volume conclusivo.

Cornovaglia, 1818. Dopo la morte di Jeremy Poldark, avvenuta nella battaglia di Waterloo, Ross e Demelza stanno ritrovando la serenità perduta. 

La figlia maggiore Clowance, dopo la morte del marito Stephen Carrington, ha scelto di restare a vivere a Penryn e di occuparsi in prima persona della piccola attività navale che questi aveva avviato.

A Nampara con i genitori vivono i due figli più piccoli: Henry che ha da poco compiuto sei anni e Isabella-Rose ormai sedicenne. La ragazza è ancora sentimentalmente legata a Christopher Havergal, il giovane ufficiale conosciuto quando era poco più che una bambina.

Isabelle-Rose ha un grande talento musicale e i genitori, superati i dubbi iniziali, acconsentiranno a lasciarla andare a Londra per perfezionare la sua arte.

In quest’ultimo romanzo, come per gli episodi precedenti, assistiamo all’ingresso sulla scena, di tanti nuovi personaggi. Tra questi in particolare facciamo la conoscenza di Philip Prideaux, un ex capitano congedato dall’esercito, e Maurice Valéry un affascinante produttore teatrale.

Tra i personaggi storici della saga, invece, un ruolo di primo piano è riservato a Valentine Warleggan. Nonostante la recente paternità, Valentine continua ad essere sempre lo stesso giovane arrogante ed insolente che abbiamo avuto occasione di conoscere precedentemente. Il suo comportamento da impenitente libertino sarà causa non solo della rottura definitiva del suo matrimonio con Selina, ma anche di molti altri avvenimenti piuttosto inquietanti.

I romanzi di Winston Graham non sono mai ripetitivi e anche questa volta il lettore non rimarrà deluso.

Di particolare fascino in questa occasione è l’introduzione da parte dell’autore dell’elemento noir, una storia che ricorda vagamente le atmosfere della vicenda di Jack lo squartatore. Per le strade della Cornovaglia si aggira infatti un pericoloso assassino che aggredisce e uccide giovani donne. Uno dei principali sospettati sarà proprio il già citato Valentine Warleggan, ma nulla è mai come sembra e niente può essere dato per scontato. Graham ci ha abituati a grandi colpi di scena fin dal primo volume.

“Bella Poldark” è un romanzo di commiato, la conclusione di una lunga e avvincete saga che ci ha tenuto compagnia per tanto tempo. Non poteva quindi mancare una resa dei conti, seppur simbolica, tra i due antagonisti di sempre: Ross Poldark e George Warleggan. I due si scontreranno ancora, ma ormai sessantenni, il loro sarà uno scontro molto diverso da quelli irruenti tipici della gioventù.

Negli anni i vari personaggi sono maturati e il loro cambiamento non è stato solo anagrafico, ma dovuto anche a quegli eventi della vita che li hanno segnati per sempre. Ogni esperienza ne ha modificato e formato il carattere. I personaggi di Winston Graham, con tutte le loro sfaccettature, sono sempre apparsi veri fin dal primo romanzo e questo ha contribuito fortemente a renderli tanto cari al lettore.

La saga dei Poldark è una delle saghe più affascinanti che abbia mai incontrato nella letteratura, sarà davvero difficile trovarne un’altra che possa eguagliarla.



 

lunedì 12 dicembre 2022

“Il volto di Vivaldi” di Federico Maria Sardelli

Qualche tempo fa partecipai ad un evento in cui venivano esposti e commentati alcuni quadri che ritraevano Niccolò Paganini. Rimasi colpita dal fatto che lo stesso violinista, vissuto comunque in un’epoca relativamente recente, lamentasse il fatto che la maggior parte delle opere non gli assomigliassero affatto. Si racconta che quando vide il suo ritratto eseguito da George Patten, ne commissionò al pittore subito una copia, poiché per la prima volta vi aveva riconosciuto la propria immagine.

Antonio Vivaldi visse parecchi anni prima di Paganini, ma non ho potuto fare a meno leggendo il titolo di Federico Maria Sardelli di ritornare con la mente a quell’episodio.

Se nel primo libro, “L’affare Vivaldi”, il maestro Sardelli aveva affrontato la storia dei manoscritti del Prete Rosso, in questo ultimo si ripropone di fare il punto su quali e quanti siano i ritratti di Vivaldi a noi giunti che si possano ritenere attendibili.

Una prima parte del volume più generica è dedicata alle questioni di metodo. Si analizzano quindi i criteri usati in passato e quelli utilizzati oggi nel tentativo di riconoscere un dato musicista in un certo dipinto.

Uno degli errori più comuni si è rivelato essere quello di voler leggere il ritratto attraverso la sensibilità di un’epoca completamente differente. Spesso si tende a cogliere nell’individuo effigiato sovrasensi idealistici e romantici che non potevano appartenere all’epoca in cui tale personaggio visse. Così, se tali sovrasensi possono essere attribuiti a musicisti dell’epoca romantica ritratti da pittori coevi, gli stessi non possono essere di certo applicati ai ritratti di musicisti di epoca barocca quando il sentire era completamente differente.

Non si può prescindere, inoltre, da tenere presenti molte altre variabili quali: l’esistenza di pittori più o meno bravi, la differenza e la resa delle diverse tecniche utilizzate per il ritratto, l’analisi degli attributi che identificavano la categoria di appartenenza dell’effigiato, la concreta possibilità di incorrere in errori indotti dalla conoscenza di elementi biografici del musicista in questione.

Nella seconda parte del libro si entra nel vivo della trattazione e si cerca di fare quindi più specificatamente chiarezza sui ritratti di Antonio Vivaldi a noi giunti incrociando dati stilistici, dati tecnico-scientifici ed elementi biografici. L’interdisciplinarità diventa elemento fondamentale per poter raggiungere un’analisi quanto più attendibile possibile. 

Dei ritratti presi in esame dall’autore molti risulteranno false attribuzioni, altri copie di ritratti originali, alcuni risulteranno essere poi ritratti dal vero, altri rimandati a memoria dall’artista, alcuni contemporanei ed altri postumi.

Vivaldi, per quanto conosciuto, non fu certamente da considerarsi facoltoso e ben introdotto come lo furono, ad esempio, Händel o Corelli. Entrambi questi due musicisti furono anche importanti collezionisti d’arte e le loro pinacoteche personali oltre a contare numerosissime opere annoveravano diversi artisti importanti. Quando alla morte di Vivaldi vennero inventariati i suoi beni tra questi erano presenti solo quattrodici quadretti, tutti anonimi.

Vivaldi non poteva quasi sicuramente permettersi di commissionare il proprio ritratto ad un pittore famoso. Il ritratto di Bologna però che, come si evince dalle pagine del libro, risulta essere uno dei più attendibili può di fatto essere attribuito a un buon pittore di scuola veneta per quanto anonimo.

Tra le effigi vivaldiane risultate degne di fede, seppur con manifesti limiti dovuti alle tecniche utilizzate o ad altre problematiche, ci sono le caricature eseguite da Pier Leone Ghezzi e l’incisione di La Cave.

“Il volto di Vivaldi” è un libro interessante e ben articolato. Federico Maria Sardelli entra nei dettagli, sviscera ogni più piccolo indizio, confronta e analizza, scompone e ricompone ogni particolate. Il lettore non può che rimanere affascinato e avvinto dalla stringente logica e dal metodo investigativo dell’autore.

Federico Maria Sardelli è un personaggio eclettico. Saggista, direttore d’orchestra, compositore, pittore, autore satirico nonché Membro dell’Istituto Italiano Antonio Vivaldi e responsabile del catalogo vivaldiano. In questo volume risaltano tutte le sue doti e le sue capacità: lo spirito investigativo, la competenza, la capacità di analisi, la conoscenza dell’argomento e l’ironia che emerge tra le pagine strappando più di un sorriso al lettore soprattutto quando viene usata per rimarcare l’infondatezza di alcune attribuzioni.

Questo volume è un importante tassello per conoscere la figura di Antonio Vivaldi, ma anche per capire come ci si debba muovere in campo storico-iconografico e quali siano gli errori da evitare.

 

giovedì 8 dicembre 2022

“Tutto in un minuto” di Nicolò Maniscalco e Diego Piccardo

Catherine Bechs vive in un villaggio di poche anime circondato da pascoli, lontano dal caos della città. Figlia unica, convive con una situazione famigliare piuttosto borderline. La ragazza è molto legata alla madre, sebbene il rapporto sia a tratti conflittuale al pari di quello di qualunque altro adolescente con i propri genitori. Il rapporto con il padre invece è praticamente inesistente. L’uomo, spesso via per lunghi viaggi di lavoro, preferisce una vita solitaria nella metropoli dove poter approfittare impunemente di qualunque opportunità questa gli possa offrire lontano dalla famiglia.

Tom, il ragazzino conosciuto sui banchi di scuola, figlio del veterinario del paese, trasferitosi con la famiglia nel villaggio dopo un grave lutto, è il migliore amico di Cathy. Tom è insostituibile, lui è il solo a cui Cathy sa di poter ricorrere per trovare conforto e sostegno qualunque cosa accada. 

Un giorno però i due amici faranno un incontro che cambierà la vita di Cathy per sempre. Billy, un cucciolo di Border Collie, irromperà sulla scena e nulla sarà più come prima.

Piccolo spoiler: perché “Tutto in un minuto” ? È il nome della scuola di agility dog dove Cathy e Billy muoveranno i loro primi passi in questo sport. Non vi svelerò nulla di più perché il loro percorso, i loro successi, le loro battute d’arresto dovranno essere scoperte e gustate dal lettore pagina dopo pagina.

Difficile definire il genere di questo romanzo. Sulle prime verrebbe da inserirlo nel filone Young Adults ma, man mano che si prosegue la lettura, ci si rende conto che sarebbe riduttivo, così come lo sarebbe inserirlo nel genere Romance o Chick Lit. La verità è che questo romanzo non si può incasellare, è una storia piacevole, leggera ed emotiva in grado di avvincere e convincere qualunque lettore senza distinzione di età o di sesso.

“Tutto in un minuto” è ambientato in un villaggio al confine tra la collina e la pianura, in un luogo non precisato del vasto mondo che lascia al lettore libero spazio alla fantasia. Vuoi per l’origine anglofona dei nomi dei personaggi, vuoi per l’aria che vi si respira, però, l’immaginazione ci conduce più facilmente verso gli Stati Uniti.  

Per certi versi questo romanzo ricorda molto le atmosfere di “L’uomo che sussurrava ai cavalli” di Nicholas Evans da cui era stato tratto anche un celebre film.

La storia di Cathy e di Billy, scritta a quattro mani da Nicolò Maniscalco e Diego Piccardo, si presterebbe altrettanto bene per una trasposizione cinematografica. Il libro si legge veramente tutto d’un fiato perché la scrittura è scorrevole, ma soprattutto perché segue proprio il ritmo della cinepresa. Leggendo, le immagini scorrono vivide davanti al lettore facendolo sentire parte della storia e creando un’empatia straordinaria tra lui e i protagonisti.

Le vicende e i colpi di scena, tanti e mai banali o scontati, si susseguono incalzando il lettore e invogliandolo a proseguire nell’avventura.

Tanti i punti di forza del romanzo, primo tra tutti, è un libro davvero ben scritto. L’italiano è fluente e gli autori sono stati bravi a non cedere alla tentazione di utilizzare tecnicismi, a loro ben noti, ma che avrebbero potuto scoraggiare il lettore digiuno di tutto ciò che riguarda l’agility dog. La loro scelta presenta questo sport senza forzare la mano al lettore inducendolo, invece, a voler approfondire l’argomento incuriosito dalla storia appena letta e dalla descrizione di un mondo sconosciuto ai più.

“Tutto in minuto” si presta ad una lettura a livelli diversi: da quello, se vogliamo più semplice, di trascorrere qualche ora in compagnia di una piacevole lettura, a quello di voler leggere un racconto incentrato sullo stretto rapporto che si instaura tra un umano e il suo amico a quattrozampe, al desiderio di trovare una storia il cui filo conduttore si snodi attraverso campi prova e campi di gara di uno sport a cui ad oggi, credo, siano stati dedicati davvero pochissimo romanzi.

Amore, amicizia, rancore, vendetta, colpi di scena, non manca proprio nulla in questo coinvolgente romanzo la cui trama è animata da tanti sorprendenti personaggi, di finzione ma allo stesso tempo così reali, che mette al centro l’indissolubile rapporto che si crea in un binomio umano-cane.

Chiunque dica “è solo un cane” non ha mai avuto la fortuna e il piacere di condividere una parte della propria esistenza con un amico a quattrozampe. Mi spiace per lui, non sa davvero cosa si stia perdendo.

Non vi nascondo che a volte durante la lettura sarà il caso che teniate un fazzoletto a portata di mano, ma sono solo attimi e poi non si piange mica solo per le cose tristi, no?

Visto che siamo sotto Natale, “Tutto in un minuto” potrebbe rivelarsi la strenna natalizia perfetta per amici e parenti che stavate cercando.




 

sabato 3 dicembre 2022

“Abbandonata” di Anny Romand

Anny non ha mai conosciuto il padre. Trentacinquenne, scapolo, benestante, l’uomo l’aveva rifiutata ancora prima che nascesse perché non si sentiva pronto a farsi carico di una famiglia. Sua madre, Rosy, l’aveva cresciuta da sola nonostante in un primo momento anche lei non ne volesse sapere di quel bambino in arrivo. Non avrebbe mai abortito, ma darlo in adozione, quello sì. Poi, però, qualcosa dentro di lei era cambiato ed Anny era cresciuta circondata dall’affetto della famiglia materna.

La storia di Anny bambina la troviamo in un altro romanzo della Romand. In “Mia nonna d’Armenia”, questo il titolo, oltre al racconto straziante del genocidio armeno e della fuga per mettersi in salvo della madre di Rosy, c’è anche il racconto del legame speciale che Anny aveva con la nonna materna. Rosy si infuriava sempre quando, tornando a casa, le trovava abbracciate e in lacrime per il racconto dei terribili ricordi rievocati dall’anziana. 

Rosy era stata forse una madre un po’ troppo dura, ma non aveva mai fatto mancare nulla alla figlia. Forse per questo, per voler proteggere la madre, Anny non aveva mai cercato quel genitore che l’aveva rifiutata. In verità, anche il solo desiderio di volerlo incontrare la faceva sentire in colpa, quasi peccasse di ingratitudine, nei confronti di Rosy.

Oggi però Anny ha quarant’anni, sua madre è morta ed è giunto il tempo per lei di fare i conti con il passato: incontrare quel padre che in tanti anni non l’ha mai cercata. Come verrà accolta?

Un padre presente può essere buono o cattivo. Un padre presente lo si può amare, detestare, compatire o qualsiasi altra cosa. Un padre assente, invece, crea un vuoto enorme, inaccettabile, impossibile da superare. Non si può mai davvero fare a meno delle proprie radici, non si può convivere serenamente con una mancanza del genere.

La quarta di copertina pone una domanda per nulla facile: daresti una seconda possibilità ad un padre che ti ha rifiutato? Ognuno reagisce in modo diverso dinnanzi ai casi della vita, ma soprattutto nessuno è davvero in grado di calarsi nei panni di qualcun altro, tanto più se quelle stesse esperienze non le ha mai vissute sulla propria pelle.

Credo che tutti noi abbiamo delle storie che meritino di essere raccontate, ma per farlo bisognerebbe trovare il coraggio e la pazienza di ascoltare di più coloro che ci sono vicino e cercare di sforzarsi di comprendere anche di più noi stessi.

La differenza tra le persone comuni e gli scrittori veri è proprio questa: uno scrittore sa ascoltarsi e sa ascoltare, sa comprendere cosa si nasconda tra le pieghe dell’esistenza, sa guardare oltre l’apparenza. Anny Romand è bravissima a cogliere l’essenza delle cose, a comprendere le situazioni e a descrivere i suoi personaggi di cui delinea alla perfezione, con brevi ed efficaci pennellate, carattere e psicologia.

Il ritmo serrato del racconto ci conduce in un vortice di sentimenti: rabbia, senso di impotenza, rimorso, tenerezza, gioia… Tutto è in continuo mutamento perché nulla resta uguale per sempre e le prospettive dalle quali si guardano le cose fanno sempre la differenza.

“Abbandonata” è un romanzo a tratti malinconico ma che non manca di ironia, proprio come la vita.




venerdì 25 novembre 2022

“Anna Maria Luisa de’ Medici Elettrice Palatina” di Stefano Casciu

Il libro venne pubblicato in occasione della mostra “Il ritorno dell’Elettrice” presentata a Firenze nel 1993 presso la Loggia Rucellai, allora sede dell’antiquario-editore Alberto Bruschi, che ne fu l’ideatore con il patrocinio del Comune di Firenze.

Proprio l’editore Alberto Bruschi, con lo spirito arguto e ironico che lo ha sempre contraddistinto, apre il volume con quello che definisce il suo pensierino. Poche pagine ma molto significative per comprendere quanto grande e profondo fosse l’attaccamento che l’antiquario nutriva per gli ultimi Medici ed in particolare in questo caso per l’Elettrice Palatina. Non stupisce quindi che proprio questa mostra e l’interesse di Bruschi siano stati elemento di spinta per il recupero della figura di questa ultima esponente della famiglia a cui finalmente oggi viene tributato il giusto riconoscimento. A Firenze, infatti, dal 2002 è stata istituita il 18 febbraio, giorno della sua morte avvenuta nel 1743, la giornata dell’Elettrice Palatina. Dall’anno 2002 fino al 2008 si sono susseguite in questa occasione anche una serie di giornate di studio a lei dedicate i cui atti sono stati raccolti in due volumi.

Stefano Casciu ci racconta la vita di Anna Maria Luisa de’ Medici attraverso le testimonianze dei suoi contemporanei e attraverso l’enorme patrimonio artistico a noi giunto proprio grazie alla sua lungimiranza e alla sua tenacia.

Ci racconta di quella bambina vivace dalle guance paffute che ancora oggi ci guarda curiosa dai ritratti e di quell’adolescente, dalla folta chioma corvina e dagli occhi neri, orgogliosa della sua stirpe. Ci racconta di un Principessa alla corte tedesca felice e spensierata, adorata dal marito e sempre pronta ad organizzare spettacoli e divertimenti, della sua passione per i gioielli e della sua delusione per la gravidanza non portata a termine. Scopriamo attraverso le lettere da lei indirizzate ai famigliari la nostalgia per Firenze dove farà ritorno alla morte dell’Elettore. Qui potrà riprendere il suo ruolo, un po’ a spese della cognata Violante vedova del Gran Principe Ferdinando, e il suo posto accanto al padre che tanto amava quella figlia determinata e pia.

Il saggio è soprattutto incentrato sul mecenatismo dell’Elettrice. Come tutti gli esponenti della famiglia anche Anna Maria Luisa aveva la vocazione a proteggere artisti e musicisti. Il suo mecenatismo assunse aspetti diversi con il mutare della sua condizione. In Germania il suo interesse fu soprattutto rivolto verso la musica e il teatro. A Düsseldorf il marito per compiacerla fece costruire un nuovo teatro che fu frequentato da diversi artisti, tra cui Händel. Le commissioni ai pittori riguardavano spesso la richiesta di esecuzione di ritratti. Molti erano ritratti dell’Elettrice e del marito in costume, abiti che la stessa Anna Maria Luisa faceva confezionare per sé e per il consorte per essere indossati durante delle feste a tema e divertire tutta la Corte. Numerose furono le opere scambiate come omaggio tra la Corte dell’Elettore e quella Granducale, dalla prima giungevano a Firenze soprattutto ritratti dei coniugi e dipinti fiamminghi, mentre da Firenze partivano capolavori dell’arte italiana tra cui addirittura un Raffaello.

Tornata a Firenze il suo mecenatismo non ebbe battute d’arresto, ma si indirizzò verso commissioni di soggetto religioso più consone all’aria che si respirava nel Granducato di Toscana sotto Cosimo III.

Dopo la morte di questi e a causa dei dissapori con il fratello Gian Gastone, il nuovo Granduca, l’Elettrice si rifugiò per buona parte dell’anno nella Villa La Quiete, sede dell’educandato delle Montalve, un luogo che era stato tanto amato anche dalla nonna Vittoria della Rovere. 

Negli ultimi anni della sua vita i suoi sforzi furono tutti improntati alla chiesa di famiglia, la Basilica di San Lorenzo, e al tentativo di portare a termine le Cappelle Medicee che purtroppo, nonostante l’impegno e il denaro profusi, rimasero la sua re imperfecta.

La sua più grande opera resta senza dubbio la Convenzione di Famiglia, meglio conosciuta come il Patto di Famiglia, ratificata a Vienna il 31 ottobre del 1737. Il patto vincolava tutta l’eredità medicea alla città di Firenze e alla Toscana. Nonostante i suoi bellicosi tentativi di stilare inventari per impedire l’emorragia delle opere e delle suppellettili, moltissimo fu comunque trafugato dai Lorena che l’Elettrice non esitava a definire gente affamata.

Il libro di Stefano Casciu è un breve e interessante saggio sulla figura di Anna Maria Luisa de’ Medici. Una valida lettura per chi voglia conoscere questa straordinaria donna, degna erede dei suo illustri avi, e magari poi approfondire l’argomento con la lettura degli atti dei convegni e del libro dedicato al suo testamento.




mercoledì 23 novembre 2022

“La spada che dona la vita” di Yagyu Munemori (a cura di Marina Panatero e Tea Pecunia)

Il volume si apre con una lunga ed esaustiva introduzione a cura di Marina Panatero e Tea Pecunia in cui si dà immediatamente notizia delle note biografiche di Yagyu Munemori nato nel 1571 nel villaggio di Yagyu-mura.

Egli fu maestro di spada del primo shogun Ieyasu Tokugawa e in seguito di suo figlio Hidetada, secondo shogun, e di suo nipote Iemitsu, terzo shogun.

Negli anni divenne anche un importante consigliere di corte. Tra i vari interessi che il maestro di spada coltivò ci fu quello per il buddhismo zen forse perché stimolato dal suo caro amico, il monaco Takuan Soho.

L’introduzione però non si limita solo alle notizie biografiche dell’autore dell’Heiho kadensho (La spada che dona la vita), uno dei più importanti trattati sulle arti marziali della tradizione giapponese, ma prosegue descrivendo quel mondo e raccontando il periodo in cui Yagyu Munemori visse e trasmise i suoi insegnamenti.

Apprendiamo attraverso queste pagine la storia del Giappone e dei Samurai; veniamo introdotti al concetto di zen che, come abbiamo già ripetuto in occasione di altre letture, non può essere definito né una religione né una filosofia, ma meditazione.

Non manca neppure un’interessante storia della spada giapponese dalle origini fino ai giorni nostri. Le spade attuali, o comunque quelle realizzate dopo il 1953 con i metodi tradizionali, sono note con il nome di shinsakuto (spade recenti o contemporanee).

Si passa poi al libro di Munemori vero e proprio che è diviso in tre sezioni: “Il ponte della scarpa”, “La spada che dà la morte” e “La spada che dona la vita”.

La prima sezione è quella più legata alla pratica della spada così come l’appendice che si trova al termine del libro ossia “Il catalogo illustrato delle arti marziali della Shinkage-ryu”.

Le altre due sezioni invece, sebbene legate all’insegnamento dell’arte della spada o meglio dell’arte della “non spada”, sono più discorsive e offrono insegnamenti utili nella vita di tutti i giorni non solo in un combattimento.

L’arte marziale è prima di tutto osservazione. L’osservazione in tempo di pace è utilissima a comprendere quando stia per sopraggiungere il caos e intervenire prima che sia troppo tardi. Stupisce quanto tutto ciò sia ancora straordinariamente attuale. Inoltre, leggendo queste pagine, non ho potuto fare a meno di notare diversi punti di contatto tra il pensiero di Munemori e anche di Musashi con quello di Niccolò Machiavelli vissuto in Occidente poco tempo prima.

Analogie si riscontrano laddove si parla dell’importanza di imparare a leggere le situazioni per prevenire il peggio perché la battaglia si vince prima di combatterla; della necessità di mantenersi imperturbabili perché “la spada che manca il bersaglio è una spada morta”, oppure della necessità di annientare un uomo malvagio se questo fa soffrire diecimila persone. In questo caso infatti la spada che dona la morte ad un uomo è la stessa che dona la vita agli altri diecimila.

Ci sono molte risposte che non vi aspettereste di trovare in questo libro. Per esempio, vi siete mai chiesti perché proprio quando fate più attenzione nel fare una cosa, ecco, proprio allora è più facile che commettiate un errore? Questo accade perché prima di iniziare, vi siete fissati nel farla in un certo modo e tale comportamento vi porterà a non ottenere il risultato sperato. Per riuscire la mente non deve essere mai occupata dal pensiero di fare bene qualcosa.

Fondamentale è eliminare le malattie della mente, quello che nel buddhismo viene definito attaccamento. La mente deve rimanere vuota. Dobbiamo dimenticare le fissazioni che sono dannose e imparare a lasciare andare. Se ci fissiamo su qualcosa perdiamo la percezione di quello che ci circonda. Perdere lucidità in un combattimento favorisce il nostro avversario mentre nella vita di tutti i giorni comporta la perdita di occasioni importanti perché non riusciamo a vederle.

“La spada che dona la vita” è un libro che, sebbene scritto secoli fa, sa parlare e offrire un valido aiuto anche a noi che viviamo nel XXI secolo poiché oggi come allora non essere colpiti è già una vittoria.