mercoledì 17 giugno 2015

“Il ladro di nebbia” di Lavinia Petti

IL LADRO DI NEBBIA
di Lavinia Petti
LONGANESI
Lavinia Petti è nata a Napoli nel 1988, laureata in Studi Islamici all’Istituto di Studi Orientali della sua città, “Il ladro di nebbia” è il suo romanzo d’esordio.

Protagonista della storia è Antonio M. Fonte, uno scrittore cinquantenne divorziato che vive da solo in un decadente appartamento in un palazzo altrettanto fatiscente nei quartieri spagnoli di Napoli. Unica compagnia la sua amata gatta, Calliope, una siamese irreparabilmente orba.

Antonio M. Fonte è uno scrittore di successo, ma a lui non importa nulla, detesta la gente perché la ritiene “malata” e pertanto preferisce tenersi alla larga dal prossimo chiunque esso sia.
Il suo agente letterario, tal Leopoldo Saetta, deve fare i salti mortali per ricordargli le scadenze e riuscire così a pubblicare le sue straordinarie storie che affascinano così tanti lettori.

Antonio M. Fonte ricevere ogni giorno tantissime lettere dai propri fan che sono la disperazione del suo portinaio e della moglie di questi perché lo scrittore tende a dimenticarsi di ritirare la propria corrispondenza invadendo così gli spazi condominiali nonché la guardiola e la casa del signor Nicotiana.

Un giorno mentre si appresta a bruciarne alcune, Antonio M. Fonte, fa una scoperta sorprendente.
Il nome del mittente della lettera che tiene in mano è proprio il suo così come la calligrafia appartiene inequivocabilmente a lui; peccato però che lui non ricordi nulla di quella lettera scritta quindici anni prima così come non ricordi nulla di Genève Poitier, la donna alla quale la missiva era indirizzata.
Il mistero si infittisce ulteriormente quando lo scrittore scopre che nella lettera egli aveva scritto di aver commesso un omicidio, ma anche riguardo a ciò regna il buio più assoluto nella sua mente.

Una sera tornando a casa dalla cena di compleanno organizzatagli dal suo agente letterario, Antonio si trova dinnanzi ad una torre mai vista prima, entrato nella costruzione fa la conoscenza di uno strano personaggio ovvero il custode di una specie di ufficio “oggetti smarriti” che gli parla di un luogo magico, un mondo parallelo nel quale chiunque può andare alla ricerca di ciò che ha perso, non solamente oggetti, ma anche ricordi, amori giovanili, speranze, sogni… quel luogo è Tirnaìl.

Qualche giorno dopo Antonio M. Fonte si trova catapultato all’improvviso in questo magico mondo dove città, strade e paesaggi cambiano continuamente, un mondo popolato da personaggi fuori dal comune, un luogo misterioso dal quale, una volta entrati, difficilmente si riesce a fare ritorno.

Lo scrittore avrà quindi un tempo limitato per ritrovare i ricordi che tanti anni prima aveva deciso di cancellare, trascorso quel tempo, se non troverà ciò che cerca sarà irrimediabilmente condannato a restare a Tirnaìl per l’eternità.
                           
“Il ladro di nebbia” è stato paragonato ai romanzi di Carlos Ruiz Zafòn, autore che io apprezzo tantissimo, ma con il quale sinceramente non ho trovato molte similitudini.
A mio avviso i romanzi di Carlos Ruiz Zafòn tendono ad essere più gotici, mentre il libro di Lavinia Petti mi sembra più legato ad un genere fantastico.
Come lo scrittore catalano però, Lavinia Petti è indubbiamente dotata di notevole forza immaginativa.

La scrittrice ha dimostrato inoltre una grande capacità evocativa riuscendo a creare un mondo completamente nuovo: basti pensare a Vanesia, la città delle illusioni o al Mar Netturbio, il mare nato dalle lacrime sprecate dagli uomini oppure ad un luogo come Nechnabel, il luogo delle speranze perdute e così via.

Leggendo il libro è impossibile non richiamare alla mente altre opere, altre storie sia classiche sia moderne: l’idea della ricerca della lampadina per ritrovare il proprio lume, ricorda fortemente la vicenda di Astolfo sulla Luna alla ricerca del senno perduto di Orlando nel celebre “Orlando Furioso” di Ariosto.
Molte immagini richiamano alla mente il romanzo di Lewis Carroll: lo stesso Edgar, il pittore, con il suo mazzo di chiavi sembra proprio uscito da “Alice nel paese delle meraviglie”.
Fino ad arrivare a letture proprie dei giorni nostri: i Nox, le terribili creature di Vladimiro il Vampiro, non rievocano forse i terrificanti dissennatori di Harry Potter?
E magari mi spingerò un po’ troppo oltre, ma l’immagine del bosco incantato che afferra e cerca di imprigionare Antonio M. Fonte mi ha ricordato alcune pagine dei libri della saga “I diari del vampiro” di  Lisa J. Smith nelle quali si leggeva di boschi infestati dai Malach.

Lavinia Petti è stata brava a costruire un mondo fantastico, ma ancor di più è stata abile a trovare i personaggi giusti da far muovere all’interno di questo per dare vita ad una bella favola per adulti, una favola che spesso porta il lettore a riflettere sul senso della vita, sui desideri, sui sogni…

Ci vuole più coraggio per dimenticare che per ricordare       

Come si può convivere con il fantasma di ciò che è stato e lo spettro di ciò che non sarà mai?  Non si può, ecco perché si muore. Non invecchiamo a forza di vivere la vita, ma a furia di ricordarla.

Bello il finale un po’ freudiano che cavalca quella sottile linea tra il sonno e la veglia; un finale che invoglia il lettore a reinterpretare la storia appena letta attraverso una rilettura onirico fantastica degli avvenimenti occorsi al protagonista.

Vorrei infine segnalarvi una simpatica iniziativa della casa editrice Longanesi ideata per la promozione di questo romanzo nel caso alcuni di voi volessero partecipare.

Longanesi ha infatti ideato un contest legato alla tematica dei nostri ricordi più belli, quelli che ciascuno di noi non vorrebbe mai dimenticare.
Il contest si tiene sul sito www.illadrodinebbia.it e partecipare è semplicissimo, basta inviare tramite foto o testo o entrambi (foto + testo) il ricordo che si vorrebbe tenere vivo per sempre. Tutti i materiali saranno conservati nello spazio online che Longanesi ha denominato Wall dei ricordi.
Sulla base del materiale che riceveranno sul sito, selezioneranno immagini e testi che andranno a comporre il booktrailer ufficiale del romanzo.
Lavinia Petti, dal canto suo, selezionerà dallo stesso materiale alcuni fortunati contributi che la ispireranno per comporre dei racconti inediti.
Qui  è possibile caricare in poche semplici mosse il proprio ricordo ed entrare a far parte del Wall.


domenica 7 giugno 2015

“March” di Geraldine Brooks

MARCH
di Geraldine Brooks
BEAT
Edizione originale NERI POZZA
Ancora una volta sono a proporvi un libro di Geraldine Brooks, un’autrice di cui apprezzo molto non solo il modo di scrivere, ma anche la capacità di trovare sempre storie interessanti da raccontare; storie che ci fanno riflettere, storie popolate di personaggi ben caratterizzati e perfettamente inquadrati storicamente grazie soprattutto alla sempre attenta e minuziosa ricerca di fonti e documenti da parte dell’autrice.

Proprio con “March”, pubblicato in Italia da Neri Pozza nel 2005 con il titolo di “L’idealista”, Geraldine Brooks vinse nello stesso anno il premio Pulitzer per la narrativa.

Chi di voi ha letto “Piccole donne” di Louise May Alcott avrà già capito che la Brooks ha voluto con questo libro rendere omaggio ad una scrittrice cha ha amato molto e indirettamente ha voluto rendere omaggio anche a sua madre, Gloria Brooks, che gliene consigliò la lettura quando aveva circa dieci anni:

Mia madre, che è una delle persone più ciniche esistenti al mondo, mi diceva sempre, quando ero bambina, che non esistono nella vita reale persone così buone come Marmee, la madre delle piccole donne, ma io ho sempre amato e ammirato l’eroina di Louise May Alcott.

Questa una delle dichiarazioni di Geraldine Brooks che nella postfazione del libro dichiara che per scrivere “March” ha attinto non solo da “Piccole donne”, ma anche dalla vita della famiglia della sua autrice ed in particolare da quella del padre Amos Bronson Alcott, filosofo trascendentalista, educatore ed abolizionista.

E’ sempre la stessa Brooks a scrivere che:

La famiglia reale di Louisa M. Alcott era tutt’altro che perfetta, e quindi molto più interessante di quelle santarelline delle March.

Vero: quanti di noi non hanno pensato almeno una volta rileggendo “Piccole donne” che le quattro sorelle erano un po’ troppo perfette?
Personalmente ricordo che da ragazzina, come ancora oggi, ho amato ed amo il personaggio di Jo, ma non sono mai riuscita a nutrire molto simpatia per il personaggio di Amy.

Geraldine Brooks si affranca dal romanzo di formazione nel quale rientra l’opera della Alcott, per regalarci una storia più concreta e matura di alcuni suoi protagonisti senza stravolgere per questo la storia originaria, cosa che ho davvero molto apprezzato.

La Brooks ci racconta di una giovane Marmee, come non l’avremmo mai immaginata, appassionata e ribelle, incline a lasciarsi andare a scoppi d’ira anche violenti per difendere i propri ideali, una donna che nel corso degli anni ha dovuto faticare non poco per cercare di frenare i propri moti di collera e i propri istinti per diventare la donna posata di cui noi abbiamo letto in “Piccole donne”.

A parlarci di questa insolita Marmee è il marito, il reverendo March che si trova al fronte, arruolato come cappellano nelle truppe unioniste durante la guerra civile. 
Egli ci racconta della sua vita, dei conflitti che vede ogni giorno, non solo di quelli combattuti sui campi di battaglia, ma anche di quelli dell’animo, ci parla della difficile strada dell’integrazione, della situazione degli schiavi liberati, della corruzione che imperversa tra le truppe e soprattutto tra coloro che dovrebbero tutelare i diritti dei più deboli e che al contrario pensano esclusivamente ai propri interessi personali.

Nel racconto del reverendo c’è spesso spazio per raccontare anche della sua vita passata: di quando era un giovane commesso viaggiatore, di come fece la propria fortuna e di quando conobbe e di come poi riuscì a conquistare la madre delle sue adorate piccole donne.

Nella seconda parte del libro il racconto è invece affidato alla signora March.
Come tutti sappiamo dalla lettura di “Piccole donne” Marmee riceve un telegramma nel quale le comunicano che il marito gravemente ammalato è stato ricoverato in un ospedale militare a Washington.
Quanto lei giunge al Blank Hospital fatica a riconoscere quel corpo che giace febbricitante in un letto disfatto, un corpo che la vita sembra già aver quasi abbandonato.

Marito e moglie dovranno fare i conti con un ingombrante passato, con verità nascoste e parole non dette per ricostruire il loro rapporto e preservare così l’integrità della loro amata famiglia.

La signora March scoprirà cose insospettate sulla vita del marito e dovrà ammettere almeno con se stessa di aver sbagliato a tacere al marito ciò che le pesava sul cuore.
Ripenserà a quando avrebbe dovuto opporsi all’idea del marito di arruolarsi nonostante l’età già matura o a quando non avrebbe dovuto lasciar passare sotto silenzio la perdita di tutte le loro ricchezze per l’avventatezza di lui seppur per una causa giusta e umanitaria.

Il signor March da parte sua dovrà essere abbastanza forte da capire che è giunta l’ora per lui di mettere da parte l’orgoglio e riuscire a convivere con i propri sensi di colpa e i rimorsi per gli errori commessi.

Della storia raccontata da Geraldine Brooks fanno parte moltissimi personaggi reali e d’invenzione.

Troviamo nomi noti come Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau, che furono nella realtà non solo due tra gli amici più intimi di Amos Bronson Alcott, ma anche due tra i maggiori rappresentanti della cultura e della filosofia del trascendentalismo.

Il personaggio più riuscito è però quello di Grace, la schiava del signor Clement, che March conosce in giovane età quando da umile commesso viaggiatore era stato ospite a casa di questi.
Grace è giovane, bellissima, intelligente, ha un portamento fiero e i suoi gesti sono sempre eleganti e pacati.
Nonostante sembri così perfetta anche lei però nasconde dei segreti.
La donna apparirà più volte nella vita del reverendo March e ogni volta gli ricorderà con la sua presenza errori e debolezze della sua vita passata.
Eppure Grace lo ha perdonato, lei non l’ha mai giudicato perché nonostante le apparenze anche lei come ogni essere umano ha il suo fardello di errori e rimorsi che pesano sulla coscienza, ma lei al contrario degli altri accetta di conviverci per poter espiare attraverso il lavoro e le opere buone le sue colpe, se di colpe si può veramente parlare.

Ancora una volta Geraldine Brooks è stata bravissima ad indagare l’animo umano attraverso i suoi personaggi ed allo stesso tempo a spingere il lettore a riflettere sui dubbi, sulle incertezze, sulle paure che animano i protagonisti del romanzo.

Chi ha amato “Piccole donne” o ha apprezzato gli altri libri di Geraldine Brooks non potrà che rimanere affascinato ancora una volta dall’opera di questa scrittrice.


Della stessa autrice da me recensiti vi ricordo anche:




domenica 24 maggio 2015

“I dolori del giovane Werther” di J.W. Goethe (1749 – 1832)

I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER
di Johann Wolfgang von Goethe

“I dolori del giovane Werther“ romanzo epistolare pubblicato nel 1774, procurò fin da subito al giovane Goethe un successo europeo e lo rese al tempo stesso il dominatore principale della scena letteraria tedesca.

Protagonista del romanzo è Werther, un giovane di buona famiglia, colto, amante del disegno e della letteratura classica.
Desideroso di allontanarsi dalla città trova rifugio a Wahlheim un villaggio della campagna tedesca e qui conosce Charlotte.

Lotte, orfana di madre, ha cresciuto da sola le sorelle ed i fratelli più piccoli ai quali è legata da profondo affetto; è una ragazza bellissima dotata di acume e di intelligenza non comuni.

Il carattere appassionato e l’anima ardente di Werther trovano piena corrispondenza in quelli di Charlotte che purtroppo però è già promessa sposa ad Albert, un uomo tranquillo, pragmatico e noioso.

Albert, pur comprendendo i sentimenti che legano Werther alla sua futura sposa, lascia che i due si frequentino concedendo egli stesso la propria amicizia al giovane Werther.

Werther, fortemente provato dall’intensità dei propri sentimenti che non riesce a reprimere, decide di allontanarsi da Charlotte.
Lascia Walhheim e accetta un posto presso un ambasciatore, ma ben presto disgustato dall’ipocrisia della società e avvertendo sempre più pesantemente la mancanza della donna amata, ritorna da lei che nel frattempo ha sposato Albert.

Al ritorno di Werther, Albert preoccupato che le malelingue possano nuocere al buon nome della moglie e della famiglia, chiede a questa di allontanare il giovane e di frequentarlo meno assiduamente.

Lotte vorrebbe compiacere il marito, ma si rende conto di quanto ormai lei stessa sia profondamente legata a Werther e un giorno questi riesce a strapparle un bacio.
Questo unico bacio sarà il congedo definitivo di Werther da Lotte e dalla vita stessa. Qualche ora dopo, infatti, il giovane si ucciderà con un colpo di pistola.

L’origine dell’opera ha una natura biografica. Goethe due anni prima di scrivere il romanzo si era innamorato di Charlotte Buff, la quale era fidanzata con il suo amico Kestner. Goethe aveva dovuto trovare la forza di rinunciare al suo amore impossibile e disperato, ma qualche anno dopo quegli stessi sentimenti repressi grazie alla sua forza di volontà e al suo invidiabile autocontrollo, trovarono vita attraverso le pagine del suo “Werther”, abbreviazione del titolo con il quale spesso viene ricordato il libro.

Werther è un eroe romantico, egli è l’anima gentile che detesta l’ipocrisia della società borghese incarnata invece da Albert che, al contrario di Werther, si sente a proprio agio nella routine.

I luoghi comuni e le convenzioni imposte dalla società sono liberamente accettati da Albert che le sente proprie mentre per Werther sono costrizioni dolorose e inaccettabili.
Proprio per questo Werther si trova a proprio agio con i bambini e con i contadini ovvero con quelle persone che possono essere identificate come anime semplici e pure.

In Werther troviamo la concezione totalmente romantica dell’amore e della natura propria dello Sturm und Drang e del successivo Romanticismo.

“I dolori del giovane Werther” colpirono l’attenzione di Ugo Foscolo che prese senza dubbio spunto anche dal romanzo di Goethe per scrivere il suo “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”.

Werther e Ortis troveranno entrambi nel suicidio, nella negazione dell’essere, la sola possibilità di risolvere il conflitto tra natura e ragione, tra passione e dovere.
Per Goethe però è l’amore irrealizzabile ciò che porta il protagonista alla decisione di annientare se stesso, mentre per Foscolo oltre la disillusione dei sentimenti affettivi c'è anche la caduta di ogni illusione politica a portare il protagonista a questa decisione estrema.

Ho riletto “I dolori del giovane Werther” a distanza di anni e come la prima volta non sono riuscita a non farmi catturare dalla trama e lasciarmi coinvolgere dalla passione e dai sentimenti del protagonista.

Ho voluto riproporvi in breve qualche nota su quest’opera perché credo sia uno di quei libri la cui lettura sia irrinunciabile non solo perché influenzò tutta la letteratura successiva, ma soprattutto per la sua bellezza che a distanza di secoli riesce a riscuotere sempre un successo straordinario facendone uno dei classici più amati e famosi della letteratura mondiale.

“I dolori del giovane Werther” è uno di quei libri da tenere sul comodino per averlo sempre a portata di mano perché come diceva Italo Calvino:

D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.





domenica 17 maggio 2015

“L’Italia nello specchio del Grand Tour” di Cesare De Seta

L’ITALIA NELLO SPECCHIO
DEL GRAND TOUR
di Cesare De Seta
RIZZOLI
Il fulcro di questo saggio è il Paese reale, così come esso viene “scoperto” dalla coscienza europea in età moderna. La complessa e aggrovigliata esperienza del Grand Tour, viaggio di formazione della classe dirigente europea, fu un contributo rilevante alla cultura del cosmopolitismo, in cui è stato fondamentale il ruolo assunto dall’Italia come centro di aggregazione della civiltà nell’Europa moderna.
(tratto dall’introduzione)

Il saggio di Cesare De Seta è un viaggio nell’Italia vista con gli occhi dei tourists che nel corso dei secoli attraversarono il nostro paese regalandoci una specie di immagine di “unità nazionale” ancor prima che il paese stesso divenisse uno stato a tutti gli effetti.

L’Italia come nazione è uno stato giovane, ma agli occhi di coloro che la attraversarono nel passato, seppur una terra divisa politicamente, essa appariva come una terra unita spiritualmente in virtù del suo antico passato, ma anche grazie al suo comune patrimonio artistico ed alle sue incomparabili bellezze naturali.

L’Italia per la sua collocazione geografica e per ragioni legate più propriamente alla sua millenaria civiltà fu interessata dal passaggio di pellegrini fin dall’epoca medievale. Proprio dall’XI secolo inizia il racconto del prof. De Seta per soffermarsi poi ampiamente sui secoli XVII e XVIII, secoli interessati dal Grand Tour vero e proprio.

L’autore del saggio ha deciso di suddividere alcuni capitoli in base alla diversa nazionalità di appartenenza dei viaggiatori. Abbiamo così pagine dedicate al popolo britannico (inglesi, gallesi, scozzesi e irlandesi), al popolo francese e a quello tedesco.

Per stessa ammissione del prof. De Seta i viaggiatori di queste nazioni non furono i soli a viaggiare attraverso l’Italia. Ci furono, infatti, anche viaggiatori provenienti dal profondo nord e dall’est europeo, ma purtroppo a causa della mancanza di documentazione relativa ai loro viaggi, vuoi per la lingua in cui furono redatti i loro diari vuoi per la difficile reperibilità dei documenti, non è stato possibile per l’autore dare loro spazio all’interno di questo volume.

Pagina dopo pagina veniamo a conoscenza di quali siano state le modifiche a cui i viaggi furono soggetti nel corso dei secoli (mezzi di trasporto, spese, compagni di viaggio ecc.). 

Possiamo comprendere inoltre come nel corso degli anni si modificarono i gusti dei viaggiatori così che le stesse città visitate in un periodo storico piuttosto che in un altro cambiarono la loro forza attrattiva agli occhi dei tourists.

Interessante leggere di come al variare dei gusti dei viaggiatori in base al mutare delle mode e degli stili artistici/architettonici del tempo una città potesse essere dichiarata più o meno bella ed interessante di un’altra.

Non è poi da trascurare l’influenza che ebbero gli scavi archeologici e il conseguente interesse per le antichità.

Così ad esempio città come Napoli acquistarono nei secoli sempre più interesse e l’Italia meridionale e la Sicilia che all’inizio non erano neppure contemplate nelle guide turistiche nel corso dei secoli divennero pian piano delle tappe fondamentali.

Il numero impressionante di note e le nutrite fonti consultate fanno di “L’Italia nello specchio del Grand Tour” un saggio esaustivo e ben costruito.
Innumerevoli sono i personaggi di cui ci parla il prof. De Seta che hanno attraversato il nostro paese, alcuni molto famosi come Goethe altri sinceramente a me sconosciuti prima della lettura di questo volume.

Il libro è interessante, completo e approfondito, ma tutto ciò lo rende un testo non sempre scorrevole, spesso un po’ troppo impegnativo e a volte la sua lettura richiede un notevole sforzo di concentrazione da parte del lettore.

L’argomento trattato è comunque talmente singolare ed interessante che se non vi lascerete spaventare dalle difficoltà e deciderete di affrontarne la lettura, non rimarrete delusi ed ogni vostro sforzo sarà ampiamente ricompensato.





sabato 25 aprile 2015

“John Keats” di Stephen Hebron

JOHN KEATS
di Stephen Hebron
THE BRITISH LIBRARY
Ho acquistato questo libro durante la mia recente visita alla Keats-Shelley House a Roma, visita irrinunciabile ogni volta che mi trovo nella Città eterna.

Sul sito della casa museo di Piazza di Spagna è in vendita la traduzione italiana del volume, ma al momento ne erano sprovvisti e così ho deciso di acquistare l’edizione originale in lingua inglese della British Library appartenente alla collana “Writers’ lives”.

Il volume è comunque di facile lettura anche per coloro che non sono madrelingua e la veste grafica è davvero piacevolissima.

Il racconto della vita del poeta è molto dettagliato. Hebron non solo racconta i fatti più importanti della vita di John Keats (Londra 1795 – Roma 1821), ma ci dà anche un quadro preciso del suo carattere.

Ci racconta dei suoi famigliari e dei molti amici che egli seppe legare a sé grazie al suo carattere aperto, al suo entusiasmo per la vita ed alla sua energia.

Leggiamo dei suoi viaggi, del suo amore per Fanny Brawne, delle sue aspettative attese e disattese, delle sue insicurezze, dei suoi momenti di felicità e delle sue paure, dei suoi successi, ma anche delle critiche che non gli furono di certo risparmiate.

Hebron non tralascia di informare a grandi linee il lettore sulla poetica di John Keats e lo fa spesso riportando versi tratti dalle opere oltre che stralci di lettere.

Proprio le lettere, caratterizzate da un tono intimo e colloquiale, hanno un fascino senza tempo e sono una fonte tanto inesauribile quanto fondamentale per conoscere a fondo non solo l’uomo John Keats, ma anche l’attività poetica dello stesso.

traduzione italiana
A detta di T.S. Eliot le lettere di Keats sono da ritenersi “le più straordinarie e le più importanti, che siano mai state scritte da un poeta inglese”.

Ricordo, per chi fosse interessato all’argomento, il libro edito da Mondadori “Keats. Lettere sulla poesia” a cura di Nadia Fusini, del quale spero di potervi parlare più dettagliatamente in un prossimo post.

John Keats” di Stephen Hebron è impreziosito da innumerevoli illustrazioni: troviamo, infatti, dipinti dell’epoca, riproduzioni dei luoghi, moltissimi ritratti del poeta oltre ad alcuni dei suoi famigliari e delle persone che fecero parte della sua vita e a lui furono strettamente legate tra cui Charles Wentworth Dilke, Charles Cowden Clarke, la stessa Fanny Brawne solo per citarne alcuni.

Sono inoltre interessanti le tavole che riproducono gli originali delle lettere e dei manoscritti del poeta.

Come avrete capito “John Keats” di Charles Hebron non può non far bella mostra di sé nelle librerie di tutti coloro che amano questo poeta che i pittori preraffaelliti classificarono pari a Dante, Omero, Chaucer e Goethe e che oggi viene ormai riconosciuto come uno dei più grandi poeti del romanticismo inglese e in verità non solo del periodo romantico.

“I think I shall be among the English Poets after my death” (John Keats)

Qualche foto della stanza di John Keats scattata durante la mia visita alla Keats-Shelley House 











domenica 19 aprile 2015

“Tutto quello che so di noi” di Rowan Coleman

TUTTO QUELLO CHE SO DI NOI
di Rowan Coleman
SPERLING & KUPFER
Claire Armstrong è una bella ed appariscente quarantenne sposata con un uomo atletico ed affascinante di nome Greg più giovane di lei di quasi dieci anni.

Claire ha due figlie: la maggiore Caitlin ha vent’anni, nata da una storia con un compagno di università, la ragazza non ha mai conosciuto il padre; la piccola Esther invece di appena cinque anni è figlia di Greg, è la piccola di casa, eppure è la persona che nei momenti bui che i famigliari di Claire devono affrontare è colei che riesce, con la sua simpatia e la sua testardaggine, a tenere unita la famiglia.

Accettando di sposare Greg, Claire aveva messo in preventivo il rischio che la loro storia possa interrompersi bruscamente a causa della differenza d’età, ma mai avrebbe pensato che a dividerli sarebbe stato il morbo di Alzheimer, malattia che anni prima aveva colpito suo padre privandola così del genitore ad appena dieci anni.

Claire, è una donna forte, abituata a combattere ogni battaglia nella sua vita, è tenace e caparbia, ma anche lei deve arrendersi davanti ad una malattia degenerativa che non lascia scampo e che nel suo caso procede più velocemente che in altri.

Rowan Coleman è bravissima a descrivere gli stati emotivi non solo della protagonista, ma anche di ogni singolo membro della famiglia come ad esempio i dubbi, le ansie e le paure di Ruth, la madre di Claire, che dopo aver accudito fino alla morte il marito, è costretta a rivivere lo stesso dramma e a prendersi cura non solo della figlia, ma anche delle nipoti.

Greg è il primo a soccombere sotto i sintomi della malattia di Claire. La donna, infatti, sembra aver dimenticato ogni sentimento provato nei suoi confronti e per questo lo allontana ogni giorno di più perché per lei egli è ormai poco più che un estraneo.

Caitlin è spaventa perché non si sente ancora pronta a camminare con le proprie gambe e a farsi carico anche della sorella.
La giovane inoltre è in un momento difficile della propria vita, deve prendere decisioni importanti che cambieranno il corso della sua esistenza, e ora più che mai avrebbe bisogno di tutto l’affetto e la comprensione di Claire che invece proprio in questo periodo entra e esce continuamente dal mondo della realtà.

Esther è colei che al momento avverte meno il disagio della madre, troppo piccola per comprendere cosa stia accadendo. Vive tranquilla, felice per la vicinanza di Claire che, ormai confinata in casa a causa della malattia, è diventata la sua perfetta compagna di giochi.

E infine c’è Claire che lotta ogni giorno per restare se stessa, per restare aggrappata al mondo reale, ma che ogni giorno si perde un po’ più nella nebbia e ogni giorno fa sempre più fatica a ritornare al presente.  
Claire che combatte continuamente per non “perdere le parole”, costretta a lasciare il suo amato lavoro di insegnante, disperata e arrabbiata quando si accorge di non essere più in grado neppure di leggere le favole a Esther.
Terrorizzata dall’idea di essere dimenticata dalle persone care, presa dal panico all’idea di non poter essere presente nella vita delle figlie per aiutarle a crescere e sostenerle, stritolata dai sensi di colpa per aver inflitto alla madre un calvario che la povera donna aveva già vissuto con il marito e infine smarrita e afflitta per il dolore che suo malgrado sta infliggendo a Greg.

“Tutto quello che so di noi” è un libro emozionante e struggente. Una storia che coinvolge il lettore fin dalla prima pagina e che sa toccare il suo cuore. Un romanzo che fa commuovere fino alle lacrime, ma è capace anche di fare sorridere.

Rowan Coleman racconta una storia dolorosamente vera e lo fa con delicatezza e sensibilità straordinarie, riuscendo nonostante la drammaticità del racconto a regalare anche un po’ di speranza.

Si può dimenticare una data.
Si può cancellare un viso.
Si può confondere un nome.
Ma l’amore resta per sempre.

“Tutto quello che so di noi” è un libro “onesto”, vero e intelligente, un romanzo da leggere tutto d’un fiato.
                           



domenica 5 aprile 2015

“Reykjavík Café” di Sólveig Jónsdóttir

Reykjavík Café
di Sólveig Jónsdóttir
SONZOGNO

Sólveig Jónsdóttir, laureata in scienze politiche, ha lavorato come giornalista alla redazione di Lifestyle Magazine ed è ora a capo della comunicazione di Unicef Islanda.
Reykjavík Café è il suo primo romanzo.

La storia, come si evince dal titolo stesso, è ambientata nella capitale islandese; protagoniste del romanzo sono quattro giovani donne sulla trentina che apparentemente non hanno nulla in comune tranne una vita sentimentale deludente, confusa e insoddisfacente.
Le quattro donne non si conoscono tra loro, ma in un certo modo sono tutte legate al Reykjavík Café, un caldo ed accogliente bar nel buio inverno islandese.

Hervor è laureata in economia, ma lavora come barista al Reykjavík Café, lo stesso locale nel quale ancora studentessa aveva accettato di lavorare per mantenersi agli studi.
Ha una relazione con il professore con cui si è laureata, relazione iniziata ancora quando era una studentessa. Hervor non vive, si lascia vivere. Sogna di viaggiare e vedere il mondo, ma resta poi immobile, bloccata in una situazione sentimentale inconcludente e legata ad un posto di lavoro insoddisfacente.

Karen vive con i nonni sin dalla nascita, la madre l’ha abbandonata da piccola rifacendosi una vita lontano dall’Islanda e del padre non ha nessuna notizia.  La donna è in piena crisi emotiva perché deve superare una perdita molto importante che l’ha segnata profondamente. Non essendo stata in grado di trovare nessun modo per elaborare il lutto, ha scelto di annullare se stessa: così ogni sera esce di casa, si ubriaca fino a stordirsi ed ogni notte finisce nel letto di uno sconosciuto diverso.

Mìa vive con il compagno. Lui è un avvocato in carriera, lei una laureata in sociologia che trova lavori saltuari come commessa. Il rapporto tra loro non funziona, liti e riappacificazioni si susseguono giorno dopo giorno; fino a quando il compagno di Mìa le confessa di essersi innamorato di una collega e la lascia.
Mìa si ritrova sola, in una mansarda in affitto che non può permettersi, senza un lavoro, piena di debiti e una vita da ricostruire. Trascorre le sue giornate immersa negli scatoloni del trasloco senza riuscire a ritrovare il filo della sua vita, se mai ne avesse avuto uno…

E infine c’è Silja. Silja è un medico, lavora in ospedale. Il suo errore è stato quello di non voler vedere che tipo di uomo avesse accanto. Perdonato una volta colto sul fatto, nei dieci anni di matrimonio, il marito della donna non ha mai smesso di esserle infedele. Un giorno Silja torna dall’ospedale dopo il turno di notte e lo coglie nuovamente sul fatto.
Anche per lei una vita da ricostruire…

Il racconto inizia nel gelido e buio inverno islandese e termina all’inizio della primavera, una primavera ancora fredda, ma che rivela già i primi segni del risveglio della natura.
Così proprio come la natura ritorna alla vita, allo stesso modo le quattro donne si apriranno al mondo e tutte potranno intravedere una luce di speranza in fondo al tunnel.

Reykjavík Café viene presentato come una commedia brillante, le cui protagoniste potrebbero essere paragonate a delle novelle Bridget Jones. 
Mi rendo conto di andare controcorrente, ma io non ho visto nulla di tutto ciò.

L’unica per la quale mi sento di poter affermare che potrebbe avere qualche affinità con Bridget Jones, è forse Hervor. Tra tutte e quattro le donne sembra, infatti, quella più fresca, meno problematica o per lo meno alle prese con dei problemi molto più comuni.

Se vogliamo poi anche per quanto riguarda Silja la storia è quella di sempre: matrimoni falliti, tradimenti sono ormai all’ordine del giorno.

Indubbiamente il libro è ironico, divertente, fa spesso sorridere, ma non è per nulla così spensierato come lo si vuole fare credere.

Karen è una donna psicologicamente devastata ed i problemi di Mìa non sono legati solo al fatto di essere stata lasciata. Mìa ha serie difficoltà a trovare se stessa, perché non ha mai camminato con le proprie gambe, appoggiandosi prima alla famiglia e poi al compagno.

Fa sorridere, ma non è comunque divertente, scoprire che tutto il mondo è paese e che anche nella lontana Islanda, i laureati fatichino terribilmente a trovare un lavoro adeguato al titolo di studio conseguito.

Il romanzo è incentrato sulla difficoltà di rapportarsi con il prossimo.
Vengono affrontate non solo le problematiche dei rapporti famigliari genitori/figli o fratello/sorella, ma anche quelle legate all’amore e all’amicizia.
Vengono affrontati controversi interrogativi quali “può esistere solo amicizia tra un uomo e una donna?” oppure “se il partner ti ha tradito chi ti dice che non lo farà di nuovo?”
Tutte domande senza una risposta certa e, se vogliamo, anche un po’ scontate, ma sulle quali l’autrice è davvero bravissima a costringerci a riflettere ancora una volta attraverso la vita dei suoi personaggi e a farci scoprire aspetti forse mai presi in considerazione.

Vano è farsi illusioni, le difficoltà della vita e dei rapporti interpersonali sono uguali a tutte le latitudini del mondo, inutile scappare.
C’è un solo un sistema per sopravvivere dignitosamente ovvero essere se stessi e non permettere mai che siano altri a prendere le decisioni al nostro posto.
Per essere felici o almeno provare ad esserlo c’è solo un modo: amare di più se stessi,  ascoltarci di più e fare quello che sappiamo essere giusto per noi, senza farsi influenzare dagli altri.

Lo sapeva bene cosa desiderava fare, e non aveva voglia di mettersi a pensare se era meglio per lei o meno. L’aveva sempre fatto anche troppo di pensare e ripensare alle cose, e aveva sempre finito per non agire mai.
Era rimasta con un profondo rimpianto per le occasioni perdute. Così quella sera (…)
  
L’importante però è non disperare mai, rimanere saldi nelle difficoltà, perché la vita sa sempre regalare piacevoli sorprese come alle protagoniste del nostro libro.
Ricordate sempre che, vada come vada, dopo ogni inverno per quanto buio e triste questo possa essere stato, arriva sempre la primavera!