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domenica 16 febbraio 2014

“I masnadieri” di Schiller (1759 – 1805)

I MASNADIERI
di Schiller
MONDADORI
Il romanticismo ebbe le sue origini in Germania. Fu difatti proprio il “romanticismo tedesco” il primo a svilupparsi in Europa grazie ai suoi fondatori: Friedrich Schlegel, suo fratello August Schlegel e Novalis.
Il romanticismo fu preceduto però da un altro movimento il cosiddetto “preromanticismo” che in Germania nella sua ultima fase (1765 – 1785), prese il nome di Sturm und Drang (letteralmente “tempesta ed assalto”).
Lo Sturm und Drang, tra i cui maggiori esponenti ricordiamo grazie alle loro opere Goethe, Herder e lo stesso Schiller, fu un movimento che rivendicò il rifiuto delle ideologie proprie dell’illuminismo e, seguendo la dottrina di J.J. Rousseau, fece proprio l'ideale del “ritorno alla natura”.
Rivalutò l’irrazionale nella vita dell’uomo e si schierò contro il dominio della ragione, ridimensionandone il valore e rivendicando l’importanza dei sentimenti e della fantasia.

“I masnadieri” (titolo originale Die Räuber) furono pubblicati per la prima volta nel 1781, quando il loro autore Johann Christoph Friedrich Schiller era poco più che ventenne e furono poi messi in scena l’anno successivo (1782) ottenendo un grandissimo successo.

L’azione si svolge in Germania in un arco di tempo di circa due anni. Protagonisti del dramma in cinque atti sono i due figli del vecchio conte di Moor, il maggiore di nome Karl ed il secondogenito Franz, entrambi innamorati della bella Amalia Von Edelreich che ricambia l’amore di Karl.
Franz fin dall’inizio dichiara il suo intento di impossessarsi di quanto spetta al fratello e, volendo succedere al padre ad ogni costo, si adopera in ogni modo al fine di renderlo possibile.
Johann Christoph Friedrich Schiller
Prima, servendosi di false lettere, accusa il fratello di aver disonorato il nome di famiglia così che il padre diseredi Karl. Poi, per accelerare la morte del genitore facendo leva sui suoi sensi di colpa, gli fa sapere quanto egli sia stato ingiusto con il figlio prediletto e come sia ormai troppo tardi per pentirsene in quanto Karl è morto in guerra.
Nel frattempo Karl Moor, sconvolto dall’ingiusto castigo inflittogli dal padre, sceglie la strada del crimine e diventa il capo di una banda di giovani masnadieri che mettono a ferro e fuoco città e villaggi.
Venuto però a conoscenza delle macchinazioni del fratello, Karl decide di condurre la sua banda di masnadieri alle porte del castello dei Moor e qui, riuscito ad introdursi all’interno sotto falsa identità, scopre che Amalia è ancora innamorata di lui e che in realtà suo padre è ancora vivo sebbene tenuto prigioniero.
Franz nel frattempo scopre che, sotto le spoglie dell’ospite giunto al castello, si nasconde in verità suo fratello e cerca di eliminarlo facendolo avvelenare da un servo che però si rifiuta di eseguire l’ordine e rivela invece i suoi piani allo stesso Karl.
Franz vedendo ormai la sua morte vicina, terrorizzato da ciò che lo aspetta nell’altra vita per i crimini commessi, diventa pazzo e si uccide prima che i masnadieri possano catturarlo e portarlo al loro comandante.
Il vecchio conte di Moor muore di crepacuore senza comprendere che colui che ha dinnanzi è in realtà quel figlio che credeva morto.
Karl, vorrebbe cambiare vita ora che Amalia lo ha perdonato, ma i masnadieri gli ricordano il giuramento che egli aveva fatto ovvero di essere unito a loro fino alla morte. 
Amalia capisce che non può sopravvivere ad un nuovo abbandono dell’uomo amato e gli chiede di ucciderla. 
Karl si rifiuta di darle la morte, ma è costretto a farlo prima che il fatto vengo compiuto da uno della sua banda.
Sopraffatto dal dolore Karl Moor capisce che tutta la sua vita è stata un inganno e che l’unico modo per uscire dalla sua situazione è arrendersi alle autorità. Decide così di consegnarsi ad un povero contadino, padre di molti figli, in modo che questi possa riscuotere la taglia sulla sua testa e sfamare la sua famiglia.

Schiller fu ben presto acclamato come il tanto atteso “Shakespeare tedesco” e in verità non si può leggendo “I masnadieri” non richiamare alla mente i momenti di pathos e di alta liricità nonché la violenza e la ferocia oltre alla profondità della psicologia dei personaggi di opere quali Macbeth e Riccardo III.
Lo stesso monologo di Franz (atto primo, scena I) ricorda il monologo di Riccardo III, pur rimanendo per me l’opera di Shakespeare di una bellezza ineguagliabile:

Ho ottime ragioni per essere in collera con la natura e – sul mio onore! – le farò valere… Perché non sono strisciato per primo fuori dal ventre di mia madre? Perché non sono stato il solo? Perché mi ha imposto il fardello di questa ripugnante bruttezza? E perché proprio a me? E’ come se per la mia nascita avesse utilizzato solo qualche rimasuglio. (…) Essa ci diede in dono l’inventiva e ci depose miseri e nudi sulla riva di questo grande oceano del mondo – Nuoti chi sa nuotare e chi è troppo impacciato vada a fondo!
(Franz Moor)

io sono privo di ogni bella proporzione,
frodato nei lineamenti dalla natura ingannatrice,
deforme,incompiuto,spedito prima del tempo in questo mondo
che respira,
(…) percio' non potendo fare l'amante
per occupare questi giorni belli ed eloquenti,sono
deciso a dimostrarmi una canaglia e a odiare gli oziosi
piaceri dei nostri tempi. Ho teso trappole ,ho scritto
prologhi infidi con profezie da ubriachi, libelli e
sogni per spingere mio fratello Clarence e il re a
odiarsi
(Riccardo III)
                                                                                                                    
Riccardo III è personaggio unico che con la sua perfidia e la sua crudeltà, con la sua ambiguità e la sua astuzia affascina lo spettatore e il lettore. Non lo si può amare perché lo si teme, ma allo stesso tempo non lo si può odiare perché è impossibile non essere ammaliati da questo grandioso e terribile personaggio shakespeariano.
Franz Moor invece non riesce a coinvolgere il lettore e, contrapposto al fratello Karl, non può vincere il confronto, non solo quando quest’ultimo viene descritto come l’essere perfetto di cui Amalia è innamorata ma neppure quando commette le azioni più abbiette alla testa della sua banda di masnadieri.
Sempre nel confronto con le opere shakespeariane è impossibile inoltre non ravvisare similitudini tra Amalia e Ofelia e tra Karl Moor e Amleto.

Karl è l’eroe di un mondo in disfacimento, dominato dalla violenza e contrapposto al mondo degli antichi:

quando leggo nel mio Plutarco le storie dei grandi uomini, questo secolo di imbrattacarte mi ripugna

Karl Moor, come tutti gli esseri umani, oscilla costantemente tra il bene e il male: egli è l’innamorato fedele e il figlio devoto, ma è anche il crudele comandante dei masnadieri.
Le sue due anime si rispecchiano in quella di altri due personaggi: nel violento e maligno Spiegelberg e in Kosinsky che ha alle spalle una storia molto simile a quella di Karl.
Karl non è mosso dalla malvagità ma piuttosto dal desiderio di libertà, ha voglia di ribellarsi per ristabilire, a suo modo, le leggi calpestate ma al termine del dramma comprende che tutto è stato è un grande errore:

Oh, che pazzo sono stato io a credere di poter rendere bello il mondo con l’orrore e di poter salvaguardare la legge con l’illegalità…

“I masnadieri” di Schiller divenne inoltre un’opera lirica in quattro atti musicata da Giuseppe Verdi (libretto di Andrea Maffei) rappresentata per la prima volta a Londra il 22 luglio del 1847.


domenica 9 febbraio 2014

“Gli ultimi giorni di P.B. Shelley” di Guido Biagi

GLI ULTIMI GIORNI
DI P.B. SHELLEY
di Guido Biagi
LA VITA FELICE
“Spirito di titano, entro virginee forme” così il Carducci definì Percy Bysshe Shelley, ma del celebre poeta inglese abbiamo innumerevoli definizioni “un uomo impazzito, un uomo distrutto” per De Quincey, “un angelo mancato che batte le luminose ali nel vuoto” per Arnold, “cieco per ideali al calor bianco” per Browning mentre per la moglie Mary Shelley semplicemente “non uno di noi”.

Percy Bysshe Shelley era un sognatore, un uomo che si autodefiniva ateo e che metteva al centro del suo universo l’uomo e il suo piacere. 
Shelley era un uomo che bramava la libertà per il genere umano e proprio al raggiungimento di questa piena e totale libertà di pensiero e di sentimenti dedicò tutta la sua esistenza.
Egli era un idealista e un anticonformista che visse seguendo i suoi ideali di libertà in ogni sua forma anche in campo sentimentale e sessuale.
Poeta dalla formazione classica, proprio dalla sua passione per lo studio dei classici greci e latini sviluppò il suo amore per la mitologia.

Guido Biagi in “Gli ultimi giorni di P.B Shelley” cerca di fare chiarezza, analizzando i documenti dell’epoca raccolti negli archivi di Firenze, Lucca e Livorno, sul naufragio nel quale il poeta perse la vita il giorno 8 luglio del 1822.

L’ultima residenza di Shelley fu Villa Magni a San Terenzo, nel comune di Lerici (La Spezia), una villa con l’accesso diretto sulla spiaggia. 
Durante il soggiorno in Liguria Shelley si fece costruire nei cantieri di Genova una goletta. L’imbarcazione in un primo momento doveva essere battezzata con il nome di “Don Juan” in onore di Byron ma in seguito, essendo sorte alcune divergenze con quest’ultimo, Shelley decise di cambiarle nome in “Ariel”.
Durante il viaggio di ritorno da Livorno, a causa di una violenta tempesta e delle condizioni proibitive del mare, la Ariel affondò senza neppure rovesciarsi. Il corpo di Shelley fu ritrovato dopo 10 giorni sulla spiaggia di Viareggio.
Qui secondo le leggi dell’epoca venne sepolto sulla spiaggia e solo dopo svariate richieste fu possibile disseppellirlo e cremarlo sulla medesima spiaggia.
Il funerale di P.B. Shelley
(dipinto di Louis Édouard Fournier)
Tra i presenti alla cerimonia l’amico Trelawny e Lord Byron. Assente Mary Shelley che, in quanto vedova del defunto secondo le regole vigenti in Inghilterra, non poteva presenziare alle esequie del marito.
Guido Biagi oltre a riportare parte dei documenti scovati negli archivi, riporta anche quanto appreso in prima persona dai suoi interrogatori effettuati agli anziani ancora in vita che avevano assistito al funerale sulla spiaggia e al recupero del relitto.
Ci riporta inoltre numerosi dettagli su come la moglie venne a conoscenza della disgrazia e non ultimo cerca di dirimere la questione del cuore incombusto del poeta.
Si narra infatti che il cuore di Shelley fosse stato estratto intatto dal rogo e dopo essere stato ridotto in cenere fosse stato posto in un sacchettino di seta e consegnato da Hunt a Mary Shelley che lo conservò fino alla propria morte in un cassetto della scrivania del defunto marito insieme ad una copia del poema Adonais, poema che P.B. Shelley scrisse in onore di John Keats.
I resti di P.B. Shelley, ad eccezione probabilmente del teschio, della mandibola e di qualche frammento osseo che si ritiene siano stati accolti nella piccola chiesa di Boscombe a Bournemouth, furono inumati a Roma nel cimitero acattolico, quello stesso cimitero che aveva già accolto i resti dell’amico John Keats.

Diverse furono le ipotesi relative al naufragio: qualcuno parlò di suicidio, qualcuno ipotizzò pure un attacco da parte di pirati.
Certo è che come ricorda Giulio Cesare Maggi nella postfazione del libro “erano tempi calamitosi nel Regno Unito per chi fosse portatore di messaggi libertari e progressisti, e questo rischio lo correva anche Shelley, le cui opinioni erano esse pure avversate, perchè ritenute rivoluzionarie” pertanto oggi non possiamo totalmente escludere che qualcuno lo avesse speronato volontariamente per eliminarlo magari su commissione di oppositori politici, così come non possiamo ignorare che qualcuno potesse ritenere che a bordo ci fosse magari Lord Byron e che proprio questi fosse il vero bersaglio.
L’ipotesi più attendibile resta comunque quella del naufragio dovuto alle avverse condizioni del mare, ma se l’Ariel sia affondata da sola o sia stata speronata da un’altra imbarcazione, resterà sempre un mistero.

L'epigrafe sulla lapide, su desiderio di Mary Shelley,  riporta l’indicazione 
COR CORDIUM 
seguita dalle date di nascita e di morte, e più sotto alcuni versi del canto di Ariel dalla "Tempesta" di Shakespeare:
"Nothing of him that doth fade, but doth suffer a sea change, into something rich and strange"
(Niente di lui si dissolve ma subisce una metamorfosi marina per divenire qualcosa di ricco e strano)

                                                                                                                                              

domenica 27 ottobre 2013

“All’Autunno” di John Keats


Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d'uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché
l'estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull'aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.

E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l'hai -
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.




“All’Autunno” è ritenuta da molti critici una delle più perfette poesie mai scritte in lingua inglese e forse proprio per tale motivo è oggi uno dei poemi più antologizzati in questa lingua.

Composta nel 1819 venne pubblicata nell’anno successivo e inclusa nella raccolta “Lamia, Isabella, La Vigilia di Sant’Agnese e altre Poesie”.

Dalle molte correzioni ed errori di scrittura presenti in un manoscritto senza titolo che sembrerebbe essere una prima edizione dell’ode, ne possiamo dedurre che Keats scrisse molto rapidamente queste tre stanze, preso dall’eccitazione creativa del momento. Molti, infatti, sono i cambiamenti apportati dal poeta prima di darne alle stampe la versione definitiva.

Keats compose questa poesia il 19 settembre dopo aver trascorso una piacevole e serena giornata in campagna. Le sensazioni provate quel giorno furono da lui stesso descritte in una lettera, datata 22 Settembre, al suo amico J. H. Reynolds:

"How beautiful the season is now. How fine the air -- a temperate sharpness about it. Really, without joking, chaste weather -- Dian skies. I never liked stubble-fields so much as now -- aye, better than chilly green of the Spring. Somehow, a stubble plain looks warm, in the same way that some pictures look warm. This struck me so much in my Sunday's walk that I composed upon it." 

L’ode si compone di tre stanze ciascuna di 11 versi in rima (la prima stanza ABABCDEDCCE, la seconda e la terza ABABCDECDDE), non rintracciabili nella versione tradotta che, per quanto eccellente, perde la musicalità e il ritmo dell’originale.


To Autumn

Season of mists and mellow fruitfulness
Close bosom-friend of the maturing sun
Conspiring with him how to load and bless
With fruit the vines that round the thatch-eaves run;
To bend with apples the moss'd cottage-trees,
And fill all fruit with ripeness to the core;
To swell the gourd, and plump the hazel shells
With a sweet kernel; to set budding more,
And still more, later flowers for the bees,
Until they think warm days will never cease,
For Summer has o'er-brimm'd their clammy cells.

Who hath not seen thee oft amid thy store?
Sometimes whoever seeks abroad may find
Thee sitting careless on a granary floor,
Thy hair soft-lifted by the winnowing wind;
Or on a half-reap'd furrow sound asleep,
Drows'd with the fume of poppies, while thy hook
Spares the next swath and all its twined flowers:
And sometimes like a gleaner thou dost keep
Steady thy laden head across a brook;
Or by a cider-press, with patient look,
Thou watchest the last oozings hours by hours.

Where are the songs of Spring? Ay, where are they?
Think not of them, thou hast thy music too,-
While barred clouds bloom the soft-dying day,
And touch the stubble-plains with rosy hue;
Then in a wailful choir the small gnats mourn
Among the river sallows, borne aloft
Or sinking as the light wind lives or dies;
And full-grown lambs loud bleat from hilly bourn;
Hedge-crickets sing; and now with treble soft
The red-breast whistles from a garden-croft;
And gathering swallows twitter in the skies.


La prima stanza ci racconta dei primi giorni d’autunno: la temperatura è ancora mite e la natura è tutto un'esplosione di colori e di frutti. Nella seconda assistiamo alla personificazione dell’Autunno stesso, il ritmo inizia a rallentare e la stagione viene rappresentata come una figura che con il suo falcetto è intenta a mietere, lasciando che il vento le scompigli i capelli. Nell’ultima stanza invece la stagione autunnale viene messa a confronto con quella primaverile, l’autunno sta per finire e tutto fa presagire l’arrivo dell’inverno: la migrazione delle rondini, gli agnelli nati in primavera che sono ormai cresciuti…

Non è tanto il declino dell’autunno quello che John Keats vuole cogliere con questo inno ma piuttosto l’infinito ciclo di morte e rinascita della vita e della natura.





domenica 1 settembre 2013

“Frankenstein” di Mary Shelley (1797 – 1851)

FRANKENSTEIN
di Mary Shelley
LA BIBLIOTECA DI REPUBBLICA

Prima di parlarvi del romanzo mi piacerebbe accennarvi qualche nota biografica sulla sua autrice. Tutti conoscono il mostro creato dalla sua penna, ma chi era Mary Shelley?

Mary, nata Wollstonecraft Godwin, era figlia del filosofo e politico William Godwin e di Mary Wollstonecraft, filosofa e scrittrice considerata oggi la fondatrice del movimento femminista.
Poiché la madre muore di parto pochi giorni dopo averla data alla luce, Mary Shelley viene allevata dal padre in modo molto informale. Incoraggiata a partecipare alle riunioni tenute da questi su argomenti politici, filosofici e letterari, sviluppa ben presto uno spirito indipendente e moderno.
Nel 1814 conosce e si innamora del poeta romantico Percy Bysshe Shelley, discepolo del padre. Nonostante Shelley fosse già sposato con Harriet Westbrook, Mary decide ugualmente di fuggire con lui.
Dopo il suicidio della moglie del poeta, nel 1816 Mary e Shelley regolarizzano la loro situazione e si sposano. Dalla loro unione nascono diversi figli ma solo uno, Percy Florence, sopravvivrà ai genitori.
“Frankenstein” risente molto dei lutti che avevano colpito Mary Shelley durante la sua vita: i figli, la madre, la prima moglie del marito.

L’idea di “Frankenstein” nasce per caso. Nel 1817 durante il soggiorno della coppia a Ginevra, Mary e Shelley si riuniscono con due amici il medico John Polidori e Lord Byron. Tra loro viene lanciata la sfida su chi riuscirà a scrivere il migliore racconto dell’orrore.

Frankenstein è uno dei personaggi fantastici più conosciuti al mondo. Chiunque nella sua vita ha visto almeno un film che abbia come protagonista questa creatura o faccia riferimento alla sua immagine mostruosa. Non tutti però sanno che “Frankenstein” è un romanzo avvincente la cui storia nel corso degli anni, a seguito dei vari adattamenti televisivi e cinematografici, ha perso le sue originali caratteristiche.
Molti per esempio ignorano che nel romanzo la Creatura non ha nome e che Victor Frankestein in realtà è il nome dello scienziato che ha creato il mostro.

Il romanzo inizia con le lettere che Robert Walton, un giovane esploratore, scrive alla sorella raccontando le impressioni e le aspettative sul viaggio che ha intrapreso per mare. Giunto al polo la sua nave resta incagliata tra i ghiacci e qui presta soccorso ad un uomo, il dottor Victor Frankenstein.
Questi, spaventato dall’ossessione di Robert Walton di voler raggiungere ad ogni costo i propri obiettivi, decide di raccontargli la sua storia per metterlo in guardia dai pericoli che si corrono quando si diventa schiavi di una sfrenata ambizione.
Victor Frankenstein racconta della sua infanzia e della sua adolescenza, della sua famiglia e dei suoi studi. Racconta della sua ossessione per la creazione e di come abbia dato vita al “mostro” che l’ha perseguitato per tutta la vita, togliendogli uno ad uno tutti gli affetti più cari.

La trama del libro è suggestiva e affascinante. Spesso assistiamo ad un racconto nel racconto, ma la lettura resta sempre agile e scorrevole. Sembra quasi, passatemi l’espressione, un sistema di scatole cinesi: le lettere di Robert Walton fanno da cornice alla storia che Victor Frankenstein racconta in prima persona, ma ad un certo punto è la Creatura stessa a prendere la parola e a narrare le sue esperienze di vita, raccontandoci anche la storia della famiglia francese che ha conosciuto e alla quale si è affezionata, storia che non ha nulla a che vedere comunque con il racconto principale del romanzo.

Spesso nella critica moderna si è voluto dare una connotazione scientifica e di condanna morale alla ricerca estrema, ma il romanzo di Mary Shelley è semplicemente un romanzo che indaga le passioni umane: la solitudine, la paura del diverso, il desiderio di essere amati e accettati dagli altri, la voglia di far parte della società.

“Frankenstein” è un romanzo romantico che presenta elementi gotici. Numerose sono le citazioni di versi di P.B. Shelley, William Wordsworth, Samuel Taylor Coleridge.
E’ evidente inoltre che Mary Shelley abbia letto i romanzi gotici della Radcliffe, di Matthew Gregory Lewis, di William Beckford e da questi sia stata influenzata traendone ispirazione.

“Frankenstein” è il moderno Prometeo, come recita il titolo originale dello stesso romanzo (Frankenstein, or the modern Prometheus).
Il mito di Prometeo, colui che rubò il fuoco per donarlo agli uomini suscitando così l’ira di Zeus, era un tema caro alla letteratura romantica.
Lo stesso P.B. Shelley scrisse un dramma lirico in versi su questo eroe ribelle ed indomito. Ma mentre il “Prometeo liberato” (Prometheus Unbound) di P.B. Shelley è un eroe positivo che porta il bene e l’amore tra gli uomini, il Prometeo di Mary Shelley porta solo odio e violenza.

Quando la Creatura racconta della sua solitudine, di come sola osservi di nascosto la vita degli altri, impossibilitata a partecipare alla loro felicità “che io non ero fatto per godere del piacere”, viene spontaneo richiamare alla mente alcuni versi del Leopardi in cui egli esprime tutta la sua lacerazione per non poter partecipare alle gioie della vita, dell’amore e della gioventù che a lui solo sono precluse.

La trasposizione cinematografica del 1994, diretta da Kennet Branagh in cui Robert De Niro recita nel ruolo della Creatura, si avvicina forse più di altre alla storia originale, ma anche’essa presenta sempre moltissime differenze più o meno evidenti con il testo originale di Mary Shelley.

Mi sono avvicinata alla lettura del libro in maniera piuttosto scettica poiché, lo ammetto, non sono una particolare estimatrice dell’immagine “popolare” di Frankenstein.
Il romanzo invece si è rivelato una piacevolissima sorpresa, “Frankenstein” di Mary Shelley è un classico tutto da riscoprire, assolutamente da leggere.



domenica 18 agosto 2013

“Difesa della poesia” di Percy Bysshe Shelley

DIFESA DELLA POESIA
di Percy Bysshe Shelley
RUSCONI
Il post nasce quasi per caso così come per caso mi sono imbattuta qualche tempo fa in questo volume mentre mi aggiravo tra le bancarelle della Fiera del Libro che una volta all’anno si svolge nella mia città.
Vi anticipo subito che queste poche righe non vogliono essere né una recensione né tanto meno una mini-lezione su Shelley e il Romanticismo.
Sono semplicemente una proposta di lettura un po’ diversa dal solito.

La “Difesa della poesia” è stata scritta da P.B. Shelley nel 1821 come risposta al saggio intitolato “Le quattro età della poesia” di T.L. Peacock nel quale l’autore sosteneva l’inutilità della poesia in un’epoca di progresso e innovazione.

L’epoca in cui nacque Shelley (1792-1822) è conosciuta anche come l’epoca delle tre rivoluzioni: la rivoluzione francese e la rivoluzione americana di pochi anni precedenti alla nascita del poeta e la rivoluzione industriale che ebbe inizio proprio in quegli anni.
Il Romanticismo che si sviluppò alla fine del XVIII secolo ebbe caratteristiche diverse nelle varie nazioni: in Francia e in Italia ebbe un carattere rivoluzionario e patriottico, in Germania filosofico e in Inghilterra ebbe invece un carattere poetico - letterario.
Shelley fu insieme a John Keats e Lord Byron uno dei massimi esponenti di quella che fu definita la seconda generazione romantica.
Lo spirito classico era un elemento fondamentale del romanticismo, ma mentre Keats si ispirava agli oggetti e ai manufatti dell’epoca classica, Shelley era interessato soprattutto alla filosofia classica. Le sue opere sono infatti permeate da un idealismo panteista e il suo modello è Platone.
Come scrive nella sua introduzione Angiola Mazzola “Shelley fu il cantore della Bellezza, della Libertà e dell’Amore”.

La “Difesa della poesia” si può dividere in tre parti: la prima parte nella quale il poeta ne elenca caratteristiche, principi ed elementi, la seconda parte nella quale Shelley riassume la storia della poesia dalle sue origini (Omero) fino all’epoca contemporanea e ne descrive gli effetti da questa prodotta nel corso dei secoli sulla società e l’ultima e terza parte nella quale difende e sostiene il valore della poesia in quanto questa rende immortale la “Bellezza” del mondo.

Quali sono le differenze secondo P.B. Shelley tra poesia e prosa?

“La differenza tra  il racconto e il componimento poetico è che il primo è un catalogo di fatti separati che non hanno altro legame se non tempo, spazio, circostanze, causa ed effetto, il secondo è creazione di azioni secondo le immutabili forme della natura umana come sono nella mente del creatore, che è essa stessa l’immagine di tutte le menti. Il primo è parziale e si riferisce solo a un determinato periodo di tempo e a una combinazione di eventi che non si ripeterà mai; il secondo è universale e contiene in sé il germe di una relazione con qualsiasi motivo o azione possa aver luogo nella varietà della natura umana”.

Non posso dire che la “Difesa della poesia” sia una lettura scorrevolissima anzi alcuni passaggi sono piuttosto ardui, ma questo saggio è un tassello importante per conoscere e capire meglio Shelley e la sua poetica.
La poesia per il poeta romantico è qualcosa di divino, è il centro della conoscenza, comprende tutte le scienze e a questa tutte le scienze debbono fare riferimento.

E’ probabile che l’edizione Rusconi (anno di pubblicazione 1999) che ho acquistato io sia ormai fuori catalogo ed è un vero peccato perché è ricca di note e corredata di un’interessante appendice dedicata alle parole chiave per sintetizzare e chiarire meglio i concetti fondamentali del saggio. Inoltre l’ampia introduzione a cura della professoressa Angiola Mazzola è davvero esaustiva e facilita notevolmente la lettura e la comprensione del testo.


domenica 16 dicembre 2012

“Zastrozzi” di Percy Bysshe Shelley


Shelley scrisse “Zastrozzi” all’età di 17 anni mentre frequentava l’ultimo anno ad Eton College. Due furono i romanzi scritti dal poeta durante questo periodo “Zastrozzi” e “St. Irvyne or the Rosicrucian” entrambi pubblicati nel 1810. 
Come più volte sottolineato dalla critica, entrambe le opere sono di scarso valore letterario, ma hanno un loro valore in quanto anticipano tematiche che saranno poi ampiamente sviluppate nella poetica di Shelley.
“Zastrozzi” è a tutti gli effetti un romanzo gotico che molto deve alla tradizione di questo genere e ai suoi autori, primi tra tutti si possono notare i molti i richiami ad Anne Radcliffe (The Mysteries of Udolpho, 1794) e a Matthew Gregory Lewis (The Monk, 1797).
La trama del romanzo è in realtà molto semplice:
Zastrozzi aiutato dai suoi due compari, Bernardo ed Ugo, rapisce Verezzi che alloggia in una locanda e lo nasconde in una caverna dove lo tiene incatenato al buio nutrendolo solo con pane ed acqua. A seguito di un forte temporale, il tetto della caverna crolla e, a causa delle pessime condizioni di salute del prigioniero, Zastrozzi, che lo vuole comunque mantenere in vita, decide di lasciarlo alle cure di una domestica di fiducia in una dimora nascosta ed isolata. Una volta ritrovate le forze, Verezzi riesce a fuggire ed arriva nella località di Passau. Qui viene raggiunto da Matilda, contessa di Laurentini che lo convince a trasferirsi a casa sua. Matilda, innamorata di Verezzi è in realtà d’accordo con Zastrozzi. Mentre quest’ultimo vuole vendicarsi di Verezzi a causa dei torti subiti dalla madre (sedotta e abbandonata proprio dal padre di questo), Matilda vuole annientare e uccidere la sua rivale in amore, la bella Giulia, promessa sposa dello stesso Verezzi.
L’ambientazione di "Zastrozzi" è tipica del romanzo gotico: ombre cupe e minacciose, case e castelli solitari, prigioni e segrete, boschi bui e minacciosi, su uno sfondo caratterizzato dall'infuriare di tempeste e dallo scatenarsi violento di tutti gli elementi naturali.
Nel romanzo shelleyano però i mostri leggendari ed i fantasmi che animano la storia sono di tipo diverso da quelli presenti nel romanzo gotico vero e proprio. In "Zastrozzi" l’elemento magico scompare per lasciare posto all'indagine dei processi mentali e della psicologia dei protagonisti; il racconto è in realtà il racconto delle passioni (amore, lussuria e sete di vendetta) che muovono i quattro personaggi principali di questo breve dramma: Matilda e Giulia, Zastrozzi e Verezzi.
Matilda e Zastrozzi (i malvagi) sono uniti dalle loro macchinazioni contro la coppia di innamorati formata da Giulia e Verezzi (gli eroi del bene).
Percy Bysshe Shelley  (1792 - 1822)
Mentre Matilda, la crudele seduttrice ossessionata e dominata dall'oggetto della sua lussuria nelle ultime pagine si pentirà della sua condotta e, riconciliatasi con la religione, proverà rimorso per i crimini commessi, Zastrozzi il suo coraggioso complice, al contrario, affronterà la morte dignitosamente, fermamente convinto di aver agito per il meglio, fiero del suo comportamento. 
Giulia è l’antitesi della contessa di Laurentini, così come quest’ultima rappresenta la sensualità, così Giulia rappresenta la bellezza angelica e la purezza; sarà proprio questo sentirsi oppresso e preso in trappola tra questi due impulsi opposti ed inconciliabili che porterà il povero Verezzi ad uccidersi pugnalandosi a morte.

“La mia regola è quella di apparire calmo, a dispetto degli eventi, a dispetto delle passioni più profonde. Di solito lo sono poiché non permetto che le ordinarie vicende o gli imprevisti mi tocchino: la mia anima si indurisce davanti alle prove più ardue. Ho uno spirito ardente, impetuoso come il tuo, ma la conoscenza del mondo mi ha indotto a celarlo, sebbene continui a bruciare dentro di me. Credimi, non ho alcuna intenzione di distoglierti dal tuo intento; io l’ho provato una volta, ma ora la vendetta ha ingoiato ogni altro sentimento e mi sento vivo soltanto per questo scopo. Ma anche se volessi dissuaderti dal proposito su cui ti sei fissata, non direi che è sbagliato tentare. Ogni cosa che procuri piacere è giusta e congeniale alla dignità dell’uomo, che è stato creato soltanto per essere felice; altrimenti a quale scopo avremmo le passioni? Perché quelle emozioni che si agitano nel petto e che fanno impazzire sono state impiantate in noi dalla natura? Quanto poi alla speranza confusa in una vita futura, perché mai dovremmo privarci della felicità, anche se ottenuta nel modo che i più sprovveduti chiamano immorale?”.
Così parlava Zastrozzi, in maniera sofisticata. La sua anima, resa insensibile dal crimine, non poteva che albergare idee confuse di felicità immortale.
  
Secondo l’opinione della critica, la vera importanza di questo breve romanzo va ravvisata proprio nel poter intravedere nella figura di Zastrozzi un abbozzo del futuro trasgressore prometeico, dell'eroe romantico delle opere più mature di Percy Bysshe Shelley.




Bigliografia:
Percy Bysshe Shelley, “Zastrozzi” con introduzione di Giovanna Silvana, Firenze 2002, Aletheia) 

sabato 31 marzo 2012

"Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo


Ugo Foscolo (1778 - 1827)

L’idea del romanzo risale al 1796 e la pubblicazione della prima versione con il titolo “Laura, lettere” inizia nel 1798. Nel 1799 Foscolo sconfessa però questa prima stampa e la prima edizione completa vedrà la luce nel 1802, anch’essa in seguito lungamente rivista ed aggiornata nelle versioni successive del 1816 e del 1817.
Considerato il primo romanzo epistolare della letteratura italiana, l’opera ebbe come modelli la “Nuova Eloisa” di Rosseau e “I dolori del giovane Werther” di Goethe.
La vicenda trae origine da un fatto realmente accaduto (il suicidio di uno studente universitario, Girolamo Ortis) poi rielaborato sulla base delle esperienze biografiche del Foscolo: i suoi innamoramenti, le sue crisi politiche ed esistenziali, le peregrinazioni attraverso l’Italia contesa e tradita dagli stranieri.

Jacopo Ortis, un giovane intellettuale veneto, costretto dopo il trattato di Campoformio (1797) a fuggire da Venezia, scrive dall’esilio le sue dolorose vicende all’amico Lorenzo Alderani, l’immaginario “editore” delle sue lettere postume.
Jacopo si rifugia sui Colli Euganei dove conosce un altro esule, il signor T***, e si innamora, ricambiato, della figlia di quest’ultimo, Teresa.

L’ho veduta ,o Lorenzo, la Divina Fanciulla

Non sono felice! Mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore.
(…) Non sono felice! Io aveva concepito tutto il terribile significato di queste parole, e gemeva dentro l’anima, veggendomi innanzi la vittima che doveva sacrificarsi a’ pregiudizi ed all’interesse.

La ragazza è però già promessa sposa ad Odoardo, un giovane onesto e ricco ma privo di ogni slancio emotivo.

Buono – esatto – paziente! E nient’altro? Possedesse queste doti con angelica perfezione, s’egli avrà cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale non animata mai né dal sorriso dell’allegria, né dal dolce silenzio della pietà, sarà per me uno di que’ rosaj senza fiori che mi fanno temere le spine. Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice?

Odoardo sa di musica; giuoca bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l’oriuolo alla mano.

C. D. Friedrich
 Un uomo e una donna che guardano la luna 
1824, Berlino, Nationalgalerie 
Quello tra Jacopo e Teresa è un amore lacerante, emotivamente irrazionale, intenso e romantico, ma nonostante il forte sentimento che li unisce, il loro è un amore impossibile.
Il padre di Teresa non può accettare quest’unione, nonostante stimi molto Jacopo e lo ritenga un ragazzo colto, intelligente, capace di grandi passioni, deve tener conto che l’esistenza di quest’ultimo è un’esistenza inerte fatta di dubbi sociali ed esistenziali.
Le persecuzioni della polizia austriaca e le pressioni continue del signor T*** costringono Jacopo a partire ed ad allontanarsi così dalla donna amata, unico conforto per la sua disperazione politica.
Ortis inizia a viaggiare senza meta per tutta l’Italia: Bologna, Firenze, Roma, Milano, Genova... ovunque vede la tragedia dell’oppressione straniera e non riesce a trovare alcuna consolazione.

(…) e il domani viene, ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre più questo stato di esilio e di solitudine.

Così noi tutti Italiani siamo fuoriusciti e stranieri in Italia: e lontani appena dal nostro territoriuccio, né ingegno, né fama, né illibati costumi ci sono di scudo: e guai se t’attenti di mostrare un dramma di sublime coraggio! (…) Spogliati dagli uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da’ nostri medesimi concittadini, i quali anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari tutti quegl’Italiani che non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le stesse catene.

Quando apprende la notizia del matrimonio di Teresa con Odoardo, decide di tornare in Veneto per rivederla un’ultima volta.
Jacopo, recandosi a casa del signor T***, lo incontra mentre passeggia con la figlia e il genero ma i saluti sono freddi e distaccati.
Ormai deluso dall’amore, dalla vita, dalla politica e dai suoi compatrioti si uccide pugnalandosi al petto e trovando così la liberazione nell’unico modo ormai per lui possibile.

Lo seppi: Teresa è maritata. Tu taci per non darmi la vera ferita – ma l’infermo geme quando la morte il combatte, ma non quando lo ha vinto.

Veggo la meta: ho già tutto fermo da gran tempo nel cuore – il modo, il luogo – né il giorno è lontano.
Cos’è la vita per me? il tempo mi divorò i momenti felici: io non la conosco se non nel sentimento del dolore: ed or anche l’illusione mi abbandona – medito sul passato; m’affiso su i dì che verranno; e non veggo che nulla.

Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita: La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace.

Ultime lettere di Jacopo Ortis
(Mondadori , 2010 Cles TN)
Non c’è uno sviluppo avvincente nello svolgersi del romanzo, la vera sostanza del racconto sono le riflessioni del protagonista, alter ego del Foscolo, ed una compiaciuta autocommiserazione, tratto tipico del romanticismo.
“Ultime lettere di Jacopo Ortis” è un libro per appassionati di letteratura romantica, per idealisti sensibili e per utopisti.
Non si può che rimanere sorpresi davanti alla triste attualità di alcune meditazioni del Foscolo:
                           
Questa università è per lo più composta di professori orgogliosi e nemici fra loro, e di scolari dissipatissimi. Sai tu perché fra la turba de’ dotti gli uomini sommi sono così rari?

Nella società si legge molto, non si medita e si copia; parlando sempre si svapora quella bile generosa che fa sentire, pensare, e scrivere fortemente: per balbettar molte lingue, balbetta anche la propria, ridicoli a un tempo agli stranieri e a noi stessi:dipendenti dagl’interessi, dai pregiudizi, e dai vizj degli uomini fra’ quali si vive, e guidati da una catena di doveri e di bisogni, si commette alla moltitudine la nostra gloria, e la nostra felicità: si palpa la ricchezza e la possanza, e si paventa perfino di essere grandi perché la fama aizza i persecutori, l’altezza di animo fa sospettare i governi; e i principi vogliono gli uomini tali da non riuscire né eroi, né incliti scellerati mai.

sabato 10 marzo 2012

A se stesso (Giacomo Leopardi)


Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
(XXVIII, Canti)

 “A se stesso” chiude il gruppo di componimenti a cui appartiene il cosiddetto “ciclo di Aspasia” ispirato dalla passione intensa e non corrisposta da parte del poeta per Fanny Targioni Tozzetti, una nobildonna conosciuta durante un soggiorno a Firenze.
Le liriche appartenenti a questo ciclo sono tipiche della poesia anti-idilliaca dell’ultimo periodo della poetica leopardiana; in esse viene meno il tono elegiaco degli idilli suggerito dalla dolcezza dei ricordi e della giovinezza e si afferma un tono più energico, eroico e di ribellione. Il poeta raggiunge la consapevolezza della propria dignità morale che lo porta ad assumere coraggiosamente la propria condizione di uomo e contrapporla al mondo cieco e crudele della natura.

Il componimento rappresenta il congedo da ogni illusione e dalla vita stessa. L’ultima e disperata illusione di potersi aggrappare alla vita attraverso l’amore espressa da Leopardi nella lirica “Il pensiero dominante” è svanita per sempre. Il disinganno porta con sé il crollo dell’ultima speranza del poeta - Perì l'inganno estremo, Ch’eterno io mi credei - quella felicità in terra che per un istante l’amore appassionato per Fanny Targioni Tozzetti gli aveva fatto credere possibile.
Leopardi senza un attimo di commozione, attraverso un ritmo martellante e aspro, invita il suo cuore a non cedere mai più alle lusinghe dell’amore e procedendo con una brevità epigrafica, fatta di dichiarazioni nichilistiche - Amaro e noia La vitae fango è il mondo – gli chiede di rinunciare definitivamente ad ogni speranza poiché la natura, il potere malvagio e invisibile – a comun danno impera – mentre – l’infinita vanità del tutto – si allarga a dismisura.
“Vanitas vanitatum et omnia vanitas” (Ecclesiaste 1,2) è la locuzione a cui si richiama l’ultimo verso del componimento della lirica: ma mentre nell’Ecclesiaste l’invito è a disprezzare le cose terrene per volgere lo sguardo verso quelle divine, in Leopardi diventa espressione della consapevolezza della vanità delle illusioni che sono negate agli uomini dalla natura, per cui alla vita è preferibile il nulla eterno.

sabato 3 marzo 2012

Bright Star (John Keats)


Bright star! Would I were stedfast as thou art— 
Not in lone splendour hung aloft the night
And watching, with eternal lips apart,
Like nature's patient, sleepless Eremite,

The moving waters at their priestlike task
Of pure ablution round earth's human shores,
Or gazing on the new soft-fallen mask
Of snow upon the mountains and the moors—

No—yet still stedfast, still unchangeable,
Cheek-pillow'd on my fair Love's ripening breast,
To touch, for ever,  its wam sink and swell,
Awake for ever in a sweet unrest,

Still, still to hear her tender-taken breath,
And so live ever—or else swoon to death.


Fulgida stella, come tu lo sei
fermo foss'io, non in solingo
splendore alto sospeso nella notte
con rimosse le palpebre in eterno
a sorvegliare come paziente
ed insonne Romito di natura
le mobili acque in loro puro ufficio
sacerdotale di lavacro intorno
ai lidi umani della terra, oppure
guardar la molle maschera di neve
quando appena coprì monti e pianure.
No, - eppur sempre fermo, sempre senza
mutamento sul vago seno in fiore
dell'amor mio, come guanciale; sempre
sentirne il su e giù soave d'onda, sempre
desto in un dolce eccitamento
a udire sempre sempre il suo respiro
attenuato, e così viver sempre,
- o se no, venir meno nella morte.


La poesia fu scritta da John Keats per Fanny Brawne, la fulgida stella che lo aveva abbagliato, colei che lo aveva completamente “assorbito”.
In una lettera del 13 ottobre 1819 alla sua “dolce fanciulla” il poeta scriveva:
Il mio credo è Amore; e tu ne sei il dogma. Mi hai rapito grazie a un potere cui non posso resistere; eppure fui capace di resistere finché non ti vidi, e anche dopo averti vista mi sono sforzato spesso di “ragionare contro le ragioni del mio amore”. Ora non ne sono più capace. Il dolore sarebbe troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te.
Il loro fu un amore impossibile, commovente e tormentato, casto ed appassionato, come nella letteratura lo furono gli amori altrettanto intensi e drammatici di personaggi quali “Romeo e Giulietta” e “Tristano e Isotta”.
John Keats morì giovanissimo all’età di 26 anni di tubercolosi, non ritornò mai in patria dall’Italia dove si era recato su consiglio dei medici e degli amici, sperando in una guarigione.
Morì a Roma nel 1821 dove tutt’oggi riposa. Non fece mai ritorno dalla sua Fanny per coronare il loro sogno di una radiosa vita insieme.



Consiglio di leggere, ovviamente oltre a tutte le opere di Keats, i seguenti due volumi:

“Bright Star. La via autentica di John Keats” di Elido Fazi ( Fazi Editore)
Il testo ripercorre proprio gli ultimi anni di vita del poeta caratterizzati dalle difficoltà economiche e dalle travagliate vicende familiari e sentimentali. E’ una lettura a più livelli, al tempo stesso un epistolario, un diario e un romanzo.








“Leggiadra stella. Lettere a Fanny Brawne” (ed. Archinto)
Come si evince dal titolo stesso del libro si tratta di una raccolta di lettere che il poeta scrisse  alla donna amata. Molto interessante la prefazione di Nadia Fusini.








Nel 2010 è stato distribuito in Italia il film "Bright Star" (2009) scritto e diretto da Jane Campion. Una storia delicata, basata sugli ultimi tre anni di vita di Keats. Visione naturalmente consigliata a tutti coloro che hanno un animo romantico e poetico...
Chi volesse vedere il trailer del film può cliccare qui