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lunedì 14 giugno 2021

“Misteri ed enigmi nell’archeologia e nell’arte” di Claudio Saporetti

Un’opera d’arte può essere più misteriosa di un thriller? Se l’investigatore che conduce le indagini è l’assirologo Claudio Saporetti, classe 1938, la risposta alla domanda della quarta di copertina non può essere che affermativa.

Il libro è una raccolta di sessanta articoli più o meno brevi, alcuni inediti e altri già pubblicati su riviste nel corso degli anni.

Gli argomenti trattati sono i più disparati e spaziano dall’arte moderna come con Giuditta I, opera di Gustav Klimt, fino all’arte rupestre. Anche la collocazione delle opere è molto ampia: Italia ed Europa, Medio Oriente, Africa e Sud America solo per accennare ad alcuni dei luoghi. 

Ovviamente non è possibile entrare nel particolare di tutte le opere e le tematiche affrontate dal libro, ma si può dire che ogni tematica, per quanto specifica, non è mai fine a se stessa.

Ogni analisi, ogni indagine spinge infatti il lettore ad interrogarsi su altre opere presenti o meno nel libro e stimola la sua voglia di ricerca e comprensione di elementi comuni tra esse. Proprio in questa prospettiva viene affrontato uno dei temi principali del volume ossia l’analisi della simbologia nelle opere d’arte.

Ovviamente non tutti i saggi possono interessare il lettore allo stesso modo, ognuno troverà argomenti che più lo coinvolgono. Io, ad esempio, ho apprezzato particolarmente le pagine dedicate alla costruzione delle cattedrali, all’arte di Benedetto Antelami, al confronto tra simbologia canonica tipica della pittura e quella invece tipica delle maestranze scultoree.

Saporetti ci mette in guardia dal prendere per buone tutte le interpretazioni che gli storici dell’arte ci hanno proposto e ci propongono perché spesso nel corso degli anni queste si sono rivelate fallaci alla luce di nuove scoperte. È importante quindi mantenere sempre la mente aperta e un atteggiamento critico nei confronti dell’opera.

Spesso è l’autore stesso a confutare in queste pagine una tesi di un collega lasciando però sempre aperto uno spiraglio per nuove interpretazioni.

Non è raro il caso in cui autorevoli professori e ricercatori abbiano elaborato teorie molto fantasiose per descrivere ad esempio quadri o per spiegare la funzione di alcuni particolari oggetti. Se ci pensiamo è la stessa cosa che accade quando si cerca di interpretare un testo letterario o una poesia leggendo tra le righe o tra i versi qualcosa che in realtà l’autore non aveva mai neppure lontanamente pensato.

Il libro edito da La Lepre Edizioni è una pubblicazione se vogliamo coraggiosa, una storia dell’arte e dell’archeologia sui generis raccontata con passione e anche con un pizzico di ironia sotto forma di indagine investigativa.

Va detto che a volte si fa un po’ fatica a seguire il testo mancando una completa documentazione fotografica di quanto descritto negli articoli, ma questo è abbastanza comprensibile poiché il volume non è, e non ha nessuna pretesa si essere, un libro d’arte illustrato.

Leggendo queste pagine si può avere a volte l’impressione che interpretare simboli, significati e iconografie sia una cosa semplice, invece non c’è nulla di più difficile e fuorviante. Questo volume ci aiuta a identificare molte soluzioni, ma apre anche tanti interrogativi a cui non vi è una soluzione immediata e chissà mai se si troverà.

Un libro da tenere a portata di mano, una guida da consultare e rileggere ogni qualvolta si è assaliti da un dubbio interpretativo o magari anche da una semplice curiosità. 




domenica 18 aprile 2021

“Il Signore delle Furie Danzanti” di Luigi De Pascalis

La vicenda si svolge nell’autunno dell’anno 366 d.C. Alle prime luci dell’alba, come ogni mattina, al porto Fluviale di Roma gli equipaggi delle navi che hanno appena attraccato sono intenti a scaricare le merci.

La mattina del 2 settembre però accade qualcosa di inaspettato: le acque del  Tevere restituiscono il cadavere di una bellissima donna. La giovane porta all’anulare destro uno strano anello: una fascia d’oro su cui è incastonata un’ametista, sulla pietra è incisa la figura di una menade danzante

Sarà compito del primicerius Caio Celso, affiancato dal tresvir Alipio, occuparsi delle indagini.

Sin da subito però il caso si rivelerà di non facile soluzione viste le personalità coinvolte e a causa della complessa situazione politica-religiosa che si va sempre più delineando in città.

Il culto dei vecchi dèi sta sbiadendo sempre di più dinnanzi alla forza del credo cristiano. Nonostante i cristiani siano meno numerosi sono dotati di una risolutezza e di una fierezza che li pone sempre più in primo piano.

Questa nuova religione con i suoi intransigenti accoliti è destinata a trasformare definitivamente il volto di quello stato romano che per secoli proprio sulla libertà e sulla tolleranza religiosa aveva tracciato le sue fondamenta.

Sullo sfondo delle vicende del romanzo non ci sono solo i contrasti tra la nuova rigida religione monoteista e quella dei vecchi dèi perché anche in seno alla stessa chiesa cristiana è in corso un’aspra disputa: il vescovo Ursino, un tempo seguace di Dionisio, e Dàmaso, un tempo seguace di Apollo, si contendono infatti il papato.   

“Il signore delle Furie Danzanti” è il primo giallo storico di una trilogia intitolata Ludus Magnus i cui prossimi volumi in uscita saranno “La dodicesima Sibilla” e “Il sangue di Dìocle”.

Il protagonista di tutti e tre i romanzi è l’investigatore Caio Celso, un personaggio molto affascinante e capace di conquistare immediatamente il lettore.

Seguace del filosofo Seneca e del culto di Mithra di cui ha raggiunto il quinto dei sette gradi di iniziazione (corax, nymphos, miles, leo, perses, heliodroms, pater), il primicerius è ossessionato dalla ricerca della verità e determinato a fare in modo che la giustizia trionfi ad ogni costo. Vive con disincanto questo particolare momento storico, sa che la sua Roma di un tempo è ormai destinata a scomparire, soffre inevitabilmente di questa situazione ma ben comprende anche quanto questo processo sia ormai inarrestabile.

Moltissimi i personaggi del romanzo, tra questi: la giovane e avventata Livilla innamorata di Caio Celso, il tresvir Alipio molto legato al primicerius il quale vede in lui quanto di più vicino al figlio che non ha mai avuto e la figura enigmatica e ingannevole di Dionisio.

Il personaggio di Dionisio che appare sulla scena in modo tanto misterioso e inquietante costringe il lettore ad interrogarsi a lungo se questi sia un semplice impostore o invece davvero un’epifania del figlio di Semele.   

In queste pagine Luigi De Pascalis riesce a ricostruire perfettamente l’atmosfera di quella inquieta epoca di transizione dal paganesimo al cristianesimo, un’epoca che decretò la fine dell’Impero Romano, un impero che sembrava invincibile e destinato a durare per sempre ma che invece portava proprio dentro di sé quegli stessi germi che ne avrebbero sancito la fine.

“Il Signore della Furie Danzanti” è un thriller storico avvincente e appassionante dalla trama molto articolata e complessa.

L’ambientazione poi è davvero singolare, abituati infatti a conoscere la grande Roma Imperiale o quella della corti papali rinascimentali, siamo qui invece proiettati sulla scena di mondo in disfacimento, la fine di un mondo antico del quale, grazie all’autore, possiamo cogliere gli ultimi bagliori.

Un plauso va fatto inoltre alla casa editrice per la scelta della meravigliosa veste grafica del volume. La Lepre Edizioni è sempre molto attenta alla scelta dell’abito dei propri libri, ma in questo caso la decisione di corredare di bellissime illustrazioni la narrazione è stata davvero indovinata. Queste straordinarie immagini rendono di fatto la lettura del romanzo un percorso molto, molto speciale.

 



 

domenica 28 marzo 2021

“La Luce di Akbar” di Navid Carucci

Siamo nell’Hindostan del XVI secolo, alla corte del sultano Akbar, nipote del fondatore della dinastia Moghul d’India Babur.

La corte del terzo imperatore Moghul è un luogo dove, per volere dello stesso sultano, sono accolte tutte le religioni; islamici, sunniti, sciiti, indù, ebrei, zoroastriani e nazareni possono dialogare tra loro e professare liberamente la propria fede.

Akbar fu un sovrano illuminato, tanto che nel libro alcuni cortigiani non esitano a paragonarlo a Federico II di Svevia e persino al grande Salomone. Egli più che per le  sue vaste conquiste (Afghanistan orientale, Bengala, Kashmir e gran parte del Deccan), sarà ricordato dalla storia proprio per il suo audace tentativo di riforma religiosa che mirava a pacificare ogni tipo di etnia, tentativo purtroppo che non ebbe alcun seguito.

Torniamo però al romanzo che come avrete capito intreccia fortemente fedeltà storica e finzione letteraria.

L’apertura a ogni etnia come è facile aspettarsi suscita nella corte molto malcontento. Non solo ci sono due fazioni contrapposte quella dei tradizionalisti e quella del ragionamento a scuotere le mura della Casa del Culto, ma anche forti interessi personali e invidie come in ogni corte che si rispetti.

La maggior parte dei personaggi che animano le pagine della Luce di Akbar sono storicamente esistiti: l’erudito Abul Fazl, il rigoroso Badauni, il gesuita Acquaviva, i due rivali Shahbaz khan e Aziz Koka.

Le lotte e gli intrighi non interessano solo i cortigiani, ma i figli stessi del Grande Re: il primogenito Salim bello e tormentato, Murad, cinico e arrogante, Daniyal, aitante e ingenuo.

Proprio Salim è uno dei protagonisti principali del romanzo insieme a Samir, figlio dell’ingenuo funzionario hindu Jamal, una delle tante inconsapevoli vittime delle spietate trame di corte.

Salim e Samir hanno in comune due cose: il risentimento che nutrono nei confronti dei rispettivi padri e l’amore per la bella principessa Man Bai.

Tante le tematiche di questo libro: dal già citato conflitto genitori/figli, alle guerre di religione, alla sete di potere e di vendetta, alla condizione delle donne nello zenana fino all’amore impossibile e non corrisposto.

Navid Carucci fa rivivere davanti ai nostri occhi quel mondo lontano e a noi sconosciuto, un mondo che quasi mai viene considerato dai nostri testi scolastici di storia anche se, come ricorda Franco Cardini nella prefazione, non dovrebbe esserci estraneo dal momento che l’opera di evangelizzazione svolta dai Gesuiti fra il XVI e il XVIII secolo in quelle terre avvenne attraverso molti membri italiani della Compagnia di Gesù.

L’idea del sincretismo religioso a cui aspirava Akbar credo possa essere riassunta nell’evocativa immagine suscitata da queste parole che Navid Carucci fa pronunciare al Grande Re:

Pensate ad una grande ruota: lungo il bordo si allineano le religioni, ma al centro di tutte vi è Dio. I mistici, da qualsiasi religione muovano, tendono come i raggi verso il centro; e più si avvicinano a Dio, più si avvicinano tra loro.

Molte guerre sono state nei secoli indette nel nome della religione, ma la verità è che la religione è sempre stata solo un pretesto per mascherare i veri motivi: sete di potere, desiderio di prevaricazione, interessi politici ed economici.

Il fallimento del grande progetto dell’illuminato Akbar non fu dovuto alla mancanza di dialogo, ma agli interessi personali dei vari gruppi religiosi.

Triste è purtroppo dover constatare che con il passare dei secoli poco o nulla sia mutato, costretti oggi come allora ad assistere allo scontro delle diverse etnie in nome di una religione che poco dovrebbe avere a che fare con odio e faziosità ma piuttosto essere fonte di dialogo e rispetto reciproco.

 



lunedì 22 marzo 2021

“Praecurrit fatum!” a cura di Marcantonio Lucidi e Alessandro Orlandi

È possibile arrivare prima del destino? Questo libro, primo volume di una nuova collana edita da La Lepre Edizioni, si propone di provare a dare una risposta affermativa a questa domanda in modo costruttivo e quanto più possibile efficace attraverso una serie di saggi scritti da umanisti e scienziati di varie discipline.

Nell’arco dei prossimi vent’anni l’uomo è chiamato ad affrontare sfide molto impegnative che non possono essere vinte dalle singole Nazioni, ora più che mai serve una collaborazione fattiva di tutti gli stati europei.

Il libro è composto da nove saggi che toccano gli argomenti più svariati: intelligenza artificiale, ambiente e clima, genetica molecolare, economia, arte e politiche europee.

Nel primo saggio intitolato “Il cellulare di Perseo, ovvero il crepuscolo” lo psicanalista Mauro Mancini ci parla delle ripercussioni sul senso di identità e sulla facoltà di apprendimento dovute al crescente utilizzo di cellulari e computer. Uno dei suoi interrogativi è rivolto alla fine della storia. Noi tutti siamo portati a pensare che questa coinciderà con una catastrofe naturale oppure a seguito di un evento causato dall’uomo come ad esempio una guerra nucleare. E se invece la fine fosse determinata da una mutazione psicologica profonda dell’umanità? Se coincidesse con la perdita di quel senso di identità costruito nel corso dei millenni a partire dal neolitico? Inquietante, vero? 

Nel secondo saggio “Sui cambiamenti climatici. Colloquio tra un fisico e un etologo”, il fisico Vincenzo Artale e il biologo/etologo Enrico Alleva cercano di dare una risposta a quelle stesse domande che tutti noi, interessati al futuro dell’ambiente, ci stiamo ponendo. L’argomento viene affrontato da due punti di vista scientifici diversi come diverse sono le loro discipline di studio.

“L’RNA e il futuro della biologia” è un saggio di Piero Benedetti. Il biologo molecolare ci conduce alla scoperta della biologia genetica e delle sue ultime conquiste. Le ultime ricerche sull’RNA hanno aperto orizzonti impensabili fino a poco tempo fa nel campo della medicina, della biologia e sulla possibilità di ricostruire in modo più rigoroso l’evoluzione della vita sulla terra. Se la scoperta del DNA e del sequenziamento completo del genoma umano ha segnato la biologia del Novecento, la scoperta dell’RNA senza dubbio è destinata a segnare nello stesso modo quella del XXI secolo.

Nell’intervista di Marcantonio Lucidi, “L’invenzione dell’anima artificiale”, il musicista Nicola Piovani risponde su quale sia secondo lui il futuro dell’arte nell’era dell’Intelligenza Artificiale. È ormai chiaro da tempo che l’Intelligenza Artificiale possa produrre arte o, come in questo specifico caso, musica “alla maniera di”. Quello che però risulta più angosciante è il fatto che oggi potrebbe essere in grado di intuire le emozioni che l’opera d’arte suscita nel fruitore, riuscendo così a produrre qualcosa di nuovo che infonda in questo quanto da lui desiderato. Dalle parole di Piovani la sua sembrerebbe una reazione rassegnata più che pessimistica dinnanzi a quella che si prospetterebbe essere la fine dell’umanesimo in favore di un mondo dove le Intelligenze Artificiali potrebbero scrivere musica e creare opere d’arte per altre Intelligenze Artificiali. In questo verosimile mondo fantascientifico l’uomo diventerebbe inutile. Lo scenario prospettato da Nicola Piovani e che egli sembrerebbe accettare serenamente, devo dire a me inquieta invece profondamente. Mi ha intrigato molto invece l’idea dell’uomo-macchina e del suo sesto senso visto come un’organizzazione inconscia di dati accumulati.

In “Riformare il sistema economico: perché e come?” l’economista Maurizio Franzini ci parla delle origini del PIL (Prodotto Interno Lordo) e di come sia stato possibile che questo sia diventato fin da subito l’indicatore ritenuto più efficace per misurare il benessere nazionale. Analizzando i dati non solo si ha conferma di cose magari ovvie come il fatto che il benessere economico, quello che viene indicato dal PIL, non coincida quasi mai con l’idea che i singoli individui hanno della definizione di benessere, ma si scoprono anche altre cose interessanti. L’incremento del PIL comporta spesso oltre a diseguaglianze sociali, anche gravi danni all’ambiente come la perdita di biodiversità, l’accelerazione del cambiamento climatico e l’aggravarsi del problema dello smaltimento dei rifiuti. Il saggio di Franzini affronta anche altre tematiche legate alla nostra società PIL dipendente come quelle relative all’esagerato controllo del lavoratore, alla scarsa mobilità sociale e al disatteso quanto agognato sistema meritocratico. Un cambiamento radicale sembrerebbe necessario e per Franzini tre sarebbero le parole chiave: etica, politica e istituzioni. 

“I chicchi sugli scacchi e la sorveglianza quantica” di Duccio Piovani ci spiega cosa sia la legge di Moore. Nel 1965 Gordon Moore, il fondatore di Intel, fece una previsione che si rivelò davvero indovinata. Secondo la sua teoria la velocità dei microchip dei computer sarebbe raddoppiata ogni anno per i prossimi dieci anni. Questa legge è rimasta valida fino al 2016, anno in cui si è raggiunto il limite non potendo più inserire altri transistor all’interno di un microchip in quanto raggiunta la capienza massima. Ovviamente la ricerca per trovare una soluzione alternativa non si è mai fermata e oggi sembrerebbe che quella più accreditata sia da identificarsi nella computazione quantistica. Duccio Piovani si interroga sui pro e contro che la crescita esponenziale della potenza di calcolo dei computer ha avuto sulle nostre vite e su cosa dovremmo aspettarci per il futuro.

Con il saggio di Piercosma Bisconti Lucidi e Davide Orsitto “L’intelligenza artificiale e il mercato dell’ozio” torniamo ad occuparci di intelligenza artificiale e informatizzazione. L’argomento qui viene affrontato guardando a quali potrebbero essere le conseguenze per l’uomo nel mondo del lavoro qualora le sue mansioni venissero un giorno svolte totalmente dalle macchine. Nel saggio si fa distinzione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, intendendo con il secondo tutti quei lavori che necessitino di processi creativi e che implichino l’uso dell’immaginazione. La cosa che colpisce di più in questo saggio è la terribile prospettiva che un giorno possa essere stravolta la nozione stessa di “lavoro”. Il lavoro costituisce infatti uno degli elementi fondanti della nostra identità sociale. Lo stesso primo articolo della nostra Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Cosa accadrebbe se il lavoro improvvisamente fosse destinato solo ad una piccola élite? Se non fosse più un aggregante sociale?

L’ultimo saggio “Da Roma a Bruxelles: breve storia dell’Europa disunita e del suo unico futuro” è di Franco Chiarenza. Dopo aver tracciato una breve storia dell’Europa, il professore e giornalista si interroga su quale possa essere il futuro dell’Unione Europea. Ci parla dell’Impero Romano come primo e forse unico esempio di inclusione che la storia abbia mai conosciuto. Roma riuscì ad unire genti e culture diverse non tanto grazie alla forza del suo esercito quanto piuttosto alla creazione di uno stato di diritto e alla convenienza economica. La strada che i paesi europei dovranno percorrere non potrà essere uguale a nessun’altra mai percorsa prima, ma se proprio si vuole guardare ad un esempio quello lo si può intravedere solo nell’antica Roma. Il nazionalismo aggressivo, la paura della perdita di identità, la falsa credenza che il proprio benessere si possa raggiungere solo a scapito di quello altrui sono tutte criticità di non facile soluzione. L’unica idea di Unione Europea attuabile secondo Chiarenza è quella di una Europa percepita non come un’entità che superi gli stati nazionali, ma piuttosto quella di una Europa intesa come una necessità per la sopravvivenza degli stati nazionali stessi.

Questo libro non solo offre molti spunti di riflessione al lettore ma allo stesso tempo cerca anche di suggerire, per quanto più possibile, delle fattive soluzioni teoriche e pratiche a quei problemi che le nostre società sono chiamate ad affrontare e davanti ai quali non è più possibile sfuggire.

Credo che nessuno di noi comunque possa sottrarsi dal dedicare un po’ del proprio tempo a riflettere sul cambiamento epocale che stiamo vivendo, un cambiamento che la pandemia ha contribuito ad accelerare o forse ha semplicemente reso più evidente.

 



domenica 13 dicembre 2020

“Il viaggio dolce” di Marina Plasmati

Aprile 1836, una carrozza si ferma davanti a villa Ferrigni.

La villa, posta su una collinetta a metà strada tra Torre del Greco e Torre Annunziata, è una costruzione seicentesca ad un solo piano, in stile pompeiano.

Ad accogliere i visitatori sul portico ci sono il fattore Giuseppe e la moglie Angiola Rosa. Ma chi sono gli occupanti della carrozza che sono giunti alle pendici del Vesuvio per beneficiare del suo salubre clima?

Si tratta del cognato del proprietario, il signor cognato, la sorella di questi, la cognata più giovane, ossia la signorina Paolina e infine lui, l’ospite di riguardo.

L’ospite appare immediatamente come una persona malata che ha bisogno di aiuto anche per scendere dalla carrozza, aiuto che l’amico, il signor cognato, si appresta a fornirgli premurosamente.

Fin da subito si intuisce che l’ospite è una persona gentile e schiva, attenta a non dare fastidio al prossimo così come a riceverne a sua volta il meno possibile.

Pagina dopo pagina si conoscerà sempre meglio la personalità di quest’uomo dall’ingegno straordinario condannato a vivere in un corpo malato e deforme, quasi che la potenza della sua mente avesse assorbito come un vampiro famelico tutto il resto delle sue energie vitali.

L’ospite di riguardo non è una persona priva di difetti, goloso di dolci, a volte capriccioso e indubbiamente eccentrico, sa però come farsi amare per la sua dolcezza e per la sua grande capacità di ascoltare.

Le persone più umili restano affascinate dai suoi modi gentili e ne sono conquistate perché lui non è un “signore” come tutti gli altri; lui, al contrario degli altri, ama ascoltare le loro storie semplici e i loro racconti di vita contadina.

Il fattore Giuseppe e il figlio maggiore di questi, Cosimo, trascorrono molto tempo in compagnia dell’ospite tanto da provocare quasi la gelosia del signor cognato nel vedere l’amico così coinvolto nelle conversazioni con qualcun altro che non sia lui e per giunta di così bassa estrazione sociale.

Come avrete già capito l’ospite di riguardo, benché nel libro non venga mai fatto il suo nome, altri non è che il poeta Giacomo Leopardi e il cognato del padrone della villa è il suo amico Antonio Ranieri.

Il romanzo racconta di quei giorni che, dall’aprile al luglio del 1836, Giacomo Leopardi trascorse a villa Ferrigni in compagnia dell’amico fraterno.

Ne “Il viaggio dolce” Marina Plasmati cerca di immaginare come il poeta avesse passato quelle sue giornate vesuviane.

Ci racconta di un Leopardi che trascorreva ore dalla finestra della sua camera ad osservare la vita degli altri scorrere là fuori, come era solito fare dalla finestra della biblioteca della casa paterna a Recanati, a visitare gli scavi di Pompei e, quando la salute malferma glielo permetteva, anche a fare escursioni a dorso di mulo lungo le pendici del vulcano.

Traendo ispirazione da uno dei Canti che il poeta scrisse proprio in quei giorni, “La ginestra o il fiore del deserto”, il romanzo Marina Plasmati narra una storia forse non completamente reale, ma senza dubbio alquanto verosimile.

I dialoghi stessi che si svolgono tra Giuseppe, Cosimo e l’ospite di riguardo prendono spunto proprio dal Canto leopardiano; ne sono un esempio Giuseppe che parla al poeta del pozzo dove il ribollire dell’acqua è segnale dell’avvicinarsi della lava, Cosimo che gli racconta dei fiori della ginestra durante la loro prima escursione e la stessa descrizione degli scavi di Pompei.

Marina Plasmati resta sempre fedele nel suo racconto al pensiero leopardiano, non tradisce mai la sua poetica; quello che incontriamo nelle pagine del romanzo è proprio il Giacomo Leopardi degli ultimi anni, il poeta polemico nei confronti della poesia idealistica romantica, l’uomo che ormai non teme più la morte e che sa di non avere più dalla sua parte l’entusiasmo, l’ardore e la forza che contraddistinguono invece la gioventù.

Nonostante la disillusione però Leopardi crede ancora nel valore della poesia che, tenace come la ginestra che resiste nel deserto, è un miracolo in mezzo allo squallore dell’esistenza umana; la poesia incarna per lui quel desiderio di vita che, seppur destinato a rimanere inappagato, resiste perché inestirpabile.

“Il viaggio dolce” è un racconto che sa toccare il cuore del lettore, un racconto commovente e profondo le cui pagine spesso sono vera poesia in prosa.

Delicato e intenso, il libro di Marina Plasmati è un romanzo in grado di emozionare tutti, non solo gli appassionati della poesia leopardiana, talmente coinvolgente da provare spesso lo strano desiderio di leggerlo ad alta voce.

“Il viaggio dolce” è uno di quei libri che se siete soliti sottolineare i passi più significati o che più vi commuovono, vi ritroverete presto con pochissime righe intonse.

Nel consigliarvene quindi la lettura, vi saluto con le bellissime parole con le quali Cosimo, il figlio del fattore, descrive uno dei poeti da me più amati:

Non lo capiva, era vero, ma lo sentiva, però, che quel signore non era un signore come gli altri, un padrone come gli altri: e non solo perché era tanto gentile, come diceva suo padre, o tanto malato. Il suo sguardo, per esempio, non era uno sguardo qualunque, era come se avesse il mondo dentro il cuore, non davanti agli occhi, come se le cose, anche le più piccole, le più insignificanti, prendessero posto dentro di lui e ci rimanessero.



 

sabato 28 novembre 2020

“Mia nonna d’Armenia” di Anny Romand

Il libro racconta la storia del genocidio armenoil massacro che venne perpetrato dall’impero Ottomano tra il 1915 e il 1918 nei confronti di questo popolo.

Una pagina di storia della quale poco si conosce ma che, per l’elevato numero di vittime, può essere paragonata a quella altrettanto atroce del genocidio commesso dai nazisti nei confronti degli ebrei.

Non molto tempo fa Anny Romand ritrova un piccolo quaderno, un breve diario, scritto da sua nonna Serpouhi durante i terribili momenti che la videro vittima di quanto perpetrato dai turchi nei confronti della popolazione armena.

Anny Romand decide così di scrivere un romanzo, una sorta di diario a due voci dove alle pagine tratte dal quadernetto di Serpouhi si alternano le pagine dedicate ai racconti fatti dalla nonna alla nipotina. 

È infatti affidato alla voce della Anny bambina, non a quella della Anny adulta, il difficile compito di raccontarci in prima persona gli stralci di quelle conversazioni con Serpouhi.

Allevata dalla nonna, la piccola Anny non perdeva occasione, infatti, per ascoltarne i lunghi racconti, nonostante gli aspri rimproveri della madre contraria che la figlia venisse sottoposta al ricordo di tanto strazio.

Serpouhi si era sposata giovanissima, aveva appena quindici anni. Lei avrebbe preferito poter continuare gli studi, ma dopo la morte del padre, a causa della difficile situazione economica della famiglia, non c'era stata per lei alternativa che accettare quanto deciso dalla madre. Karnik si era rivelato un bravo ragazzo e Serpouhi aveva finito per innamorarsi di lui.

Il marito di Serpouhi venne trascinato via da casa e massacrato insieme agli altri uomini all’inizio del genocidio.

Quasi subito venne assassinata anche la figlia più piccola di appena quattro mesi. Serpouhi decise allora di affidare il figlio più grande ad una famiglia di contadini turchi perché si prendessero cura di lui, sperando in questo modo di riuscire a salvarlo.

Per due volte Serpouhi tentò di fuggire ai suoi aguzzini fino a quando riuscì a raggiungere la costa del Mar Nero e da qui finalmente, dopo essere rimasta a lungo nascosta, poté imbarcarsi per Costantinopoli.

Raggiunta la salvezza la donna poté dedicarsi al suo unico vero obiettivo ossia ritrovare suo figlio Jiraïr e portarlo in salvo.

La prefazione del libro, edito da La lepre Edizioni, ad opera di Dacia Maraini pone un quesito solo all’apparenza dalla risposta semplice e scontata.

La domanda è: quando accadono fatti tanto atroci, come appunto quanto accaduto al popolo armeno, è giusto che le vittime continuino a raccontare senza sosta quanto avvenuto fin nei minimi dettagli come fa Serpouhi, oppure, hanno ragione coloro che, come la madre di Anny o lo stesso Jiraïr, preferiscono dimenticare per lasciarsi tutto alle spalle il prima possibile?

Senza dubbio è giusto ricordare perché solo attraverso il ricordo, prendendo coscienza di quanto accaduto, si può scongiurare il pericolo che certe mostruosità possano ripetersi.

La memoria resta e resterà sempre l’arma più potente che possediamo per combattere le atrocità perpetrate nel corso dei secoli.

Eppure, leggendo le pagine di questo libro, non si può restare indifferenti di fronte alle remore e ai dubbi della madre di Anny.

Per quanto la bimba sia legata alla nonna, non si può non accorgersi di quanto certi racconti dell’orrore la tocchino profondamente e allora viene spontaneo interrogarsi se sia giusto sottoporre questa bambina all’ascolto di tanto dolore.

Anny accanto alla nonna è costretta a crescere in fretta, ma riesce comunque a mantenere un’innocenza e un candore che commuovono il lettore.

La bambina mette tutto il suo impegno per cercare di comprendere le cose dei “grandi” e per fare tesoro del racconto di quegli eventi terribili che hanno segnato sua nonna.

Anny è la sola che voglia in realtà ascoltare Serpouhi, agli altri non interessano i suoi tristi racconti.

Serpouhi era una donna forte e combattiva, ma ormai è anziana e i dolori patiti ne hanno irrimediabilmente minato il corpo e lo spirito, così la nipotina si sente in dovere di difenderla da tutto e da tutti, compresi i venditori che vogliono imbrogliarla e le impiegate maleducate all’Evêché.

Anny ascolta i racconti di Serpouhi, racconti terribili e crudi, e nonostante la giovanissima età sa già che il mondo là fuori può essere oltremodo ostile e la gente malvagia; la bimba si immedesima così tanto in quelle narrazioni che a volte le sembra di vivere in prima persona quei fatti e di camminare accanto a Serpouhi in quel suo Eden trasformatosi in inferno.

L’innocenza di fronte al racconto dell’orrore può essere racchiusa anche in queste poche righe:

Mi piace andare al cinema, gli attori, e anche le storie, non sono tristi come quelle di nonna. Al cinema finisce tutto bene, gli innamorati si ritrovano, i cattivi vengono sempre puniti. Nelle storie di nonna, invece, i cattivi non vengono puniti mai, continuano a fare del male e nessuno dice niente, nessuno glielo impedisce.

Serpouhi scrive che chi vive sereno non potrà mai comprendere la situazione di chi soffre, solo chi ha condiviso certe atrocità può davvero comprendere e capire.

La gente leggerà il nostro dolore stampato nei libri, seduta in poltrona. Ma un libro potrà mai descrivere sul serio l’insieme dei nostri dolori? Impossibile. Se ne parlerà nei salotti fino alla prossima novità, e così le suppliche e le voci dei poveri armeni si dissolveranno come fumo di sigaretta, e resterà solo cenere, e solo la terra ci verrà in aiuto.

“Mia nonna d’Armenia” è un libro di appena 125 pagine, eppure, bastano queste poche pagine per farci riflettere su tante differenti tematiche.

Il libro di Anny Romad non è solo il racconto della tragica storia di Serpouhi e del massacro del popolo armeno; attraverso le pagine del suo romanzo l’autrice riesce a dare voce anche a tutte quelle vittime che hanno vissuto sulla loro pelle le atrocità della guerra, delle deportazioni e di ogni possibile crimine contro l’umanità, vittime che non hanno potuto o non possono raccontarlo.

 

 

sabato 21 novembre 2020

“Anja, la segretaria di Dostoevskij” di Giuseppe Manfridi

Pietroburgo 1866, il maestro Dostoevskij, il più grande scrittore russo vivente, firma con il suo editore Stellovskij un contratto capestro.

Dostoevskij ha urgente bisogno di denaro per pagare dei debiti e, per quanto il contratto sia un vero e proprio patto col diavolo, lo scrittore è costretto a scendere a patti con il suo mefistofelico editore.

Il contratto lo impegna a consegnare a Stellovskij un nuovo romanzo entro un mese dalla data della firma; se i termini dell’accordo non dovessero essere rispettati, tutti i diritti delle opere già pubblicate dall’autore diventerebbero di proprietà dell’editore così come tutti i diritti di quelle opere prodotte nei nove anni successivi.

Il nuovo romanzo dovrà essere di 500 pagine scritte a mano corrispondenti a 50 fogli a stampa, il compenso tremila rubli.

Su consiglio degli amici Dostoevskij si rivolge ad una scuola di stenografia perché gli fornisca il nominativo di qualcuno che possa affiancarlo in questa titanica impresa a cui suo malgrado è costretto a sottoporsi.

La scelta della scuola ricade sulla loro migliore allieva; Anja, studentessa del primo anno, è una ragazza timida e molto preparata nonché grande appassionata di letteratura, passione trasmessale dal padre.

Anja vive da sola con la madre, il padre è morto ormai da molto tempo e la sorella, alla quale è molto legata, si è trasferita da anni in un'altra città con il marito e i figli.

Non sarà facile per Anja adattarsi al carattere burbero di Dostoevskij così come non sarà semplice per il famoso scrittore stravolgere completamente il proprio processo creativo, ma il loro rapporto crescerà e si rinforzerà giorno dopo giorno, sfociando in qualcosa di imprevisto e imprevedibile.

La storia d’amore nata in appena un mese tra la giovane Anna Grigor'evna Snitkina e il quasi cinquantenne Fëdor Michajlovič Dostoevskij  sarà destinata a fare molto scalpore a causa della scandalosa differenza d’età dei due protagonisti.

Il romanzo intitolato “Il giocatore” verrà pubblicato nel 1866.

I personaggi del romanzo sono molto numerosi, ma ognuno di loro è caratterizzato fin nei minimi particolari sia fisici che psicologici.

L’autore dimostra di essere un profondo conoscitore dell’animo umano regalandoci pagina dopo pagina un racconto dettagliato dei sentimenti, delle debolezze, delle paure e delle insicurezze che pervadono gli animi dei protagonisti della storia.

I dubbi e il senso di frustrazione che tormentano Fëdor Michajlovič sull’esito del romanzo e sui sentimenti di Anja così come il senso di smarrimento che coglie la giovane nel doversi confrontare con situazioni e sentimenti per lei mai affrontati prima sono delineati da Manfridi in modo coinvolgente e appassionante.

Tra i due è proprio Anja quella più determinata e tenace; è lei che, nonostante la giovane età, riesce a infondere coraggio a Fëdor Michajlovič, un uomo che, per sua stessa ammissione, è affetto da ipocondria spirituale e segnato profondamente dall’esperienza dei lavori forzati.

Nel romanzo viene evidenziata anche la profonda fede cristiana del maestro Dostoevskij che, membro devoto e praticante, ha permeato di questo suo amore per il Cristo tutta la sua opera.

Manfridi riesce ad evocare tutto ciò non solo attraverso le parole, ma anche attraverso l’immagine di quel Vangelo che il maestro consegna ad Anja non come un regalo bensì come un’epistola in continuo viaggio tra loro.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare però il racconto non manca di pagine carice di suspense, a quelle dedicate all’introspezione psicologica dei personaggi e alle schermaglie amorose tra i protagonisti, infatti, si alternano pagine in cui lo stato di attesa e di apprensione del lettore viene continuamente sollecito ad interrogarsi sull’evolversi delle situazioni e sull’esito delle stesse.

Nella storia raccontata da Giuseppe Manfridi ci sono alcune licenze che l’autore si è concesso, come egli stesso scrive nell’appendice posta al termine del volume, inesattezze e omissioni necessarie all’economia del romanzo, piccoli peccati veniali che il lettore è ben felice di perdonare visto il risultato.

“Anja, la segretaria di Dostoevskij” è un romanzo davvero interessante per trama e per stile di scrittura, uno di quei romanzi che non è facile trovare nello sconfinato panorama di pubblicazioni dei nostri giorni.

Il romanzo di Manfridi è un volume corposo (600 pagine), ma non dovete lasciarvi spaventare dalla mole perché la lettura è oltremodo scorrevole e fluida.

Sin dalle prime pagine ci si rende conto di avere tra le mani un’opera di straordinaria qualità e questa impressione resterà  inalterata fino all’ultima riga del romanzo.

Con un linguaggio forbito e raffinato, ma allo stesso tempo semplice e immediato, l’opera di Manfridi è letteratura con L maiuscola; un romanzo che ben figurerebbe tra i romanzi che hanno fatto la storia della letteratura e che oggi è così difficile incontrare sugli scaffali delle librerie dedicate al romanzo contemporaneo.

Grazie alla penna di Manfridi si torna finalmente a respirare l’aria dei grandi classici, quei meravigliosi romanzi che hanno saputo negli anni e nei secoli mantenere immutato il loro fascino.

 

 


sabato 26 settembre 2020

“Odissea” di Omero (traduzione di Dora Marinari)

Dopo l’Iliade di cui vi ho parlato il mese scorso, vorrei oggi parlarvi dell’altro poema omerico, l’Odissea, sempre edito da La Lepre Edizioni e tradotto da Dora Marinari, commento a cura di Giulia Capo.

La traduzione classica o comunque più conosciuta dell’Odissea è senza dubbio quella di Ippolito Pindemonte. A differenza della traduzione dell’Iliade ad opera del suo contemporaneo Vincenzo Monti, quella dell’Odissea del Pindemonte ha una sonorità molto differente per quanto anch’essa sia ricca di echi settecenteschi.

La differenza però non è tanto da imputare al diverso spirito con il quale i due traduttori si sono accostati ai testi omerici, quanto piuttosto al diverso linguaggio proprio dei due poemi stessi. Pur riscontrando nell’Odissea patronimici ed epiteti già incontrati nell’Iliade, quali per esempio ῥοδοδάκτυλος Ἠώς (l’Aurora dalle dita di rosa) oppure Menelao definito βοὴν ἀγαθός (potente nel grido), il linguaggio dell’Odissea è meno solenne rispetto a quello dell’Iliade.

Se l’Iliade infatti era il poema che raccontava dell’ira di Achille, della contesa delle armi e della ricerca della gloria, l’Odissea è invece il poema che canta l’uomoRaccontami, Musa, di quell’uomo ricco d’ingegno” e proprio per questo il linguaggio di Omero si fa più semplice e nulla, o poco, ha in comune con quello eroico e celebrativo proprio dell’Iliade.

Giulio Nascimbeni in una sua introduzione ai poemi Omerici affermava, attingendo ai propri ricordi di studente, che a scuola quelli più timidi erano soliti parteggiare per Ettore ed Enea, mentre quelli più sicuri di sé e un po’ rissosi prediligevano Achille e Aiace.

Per quanto riguardava invece la figura di Ulisse, sempre in bilico tra astuzia e nostalgia, la sua era una figura troppo complicata e ambigua per poter essere apprezzata da degli adolescenti.

Non saprei dirvi se questo pensiero mi trovi più o meno d’accordo, da parte mia posso dire che rileggendo l’Iliade ho rivalutato moltissimo il personaggio di Achille e questo proprio grazie alla traduzione di Dora Marinari che mi ha portato a considerare particolari e sfumature che mi erano sfuggiti quando in precedenza mi ero affidata alla traduzione del Monti; a questa mia rivalutazione della figura di Achille ha senza dubbio contribuito molto anche il coinvolgente e dettagliato commento di Giulia Capo.

Ulisse, lo ammetto, non è mai stato uno dei miei personaggi preferiti e questo, purtroppo, ha influito negativamente per anni anche sul mio giudizio dell’Odissea. La traduzione di Dora Marinari non ha potuto compiere il miracolo di rendermi simpaticissimo Ulisse, ma è riuscita comunque a farmi comprendere meglio il suo personaggio e soprattutto a farmi riconciliare con il poema.

L’Odissea non è solo il racconto del nostos (νόστος) di Ulisse, ma le tematiche affrontate da Omero in questo suo poema sono molteplici; la fluidità della traduzione di Dora Marinari riesce a evidenziarle tutte in modo semplice e naturale.

Il mondo degli eroi della guerra di Troia non era un mondo di signorotti feudali, ma l’immaginazione del lettore potrebbe essere ingannata in tal senso dalle traduzioni sette/ottocentesche. 

La traduzione di Dora Marinari invece riporta dinnanzi ai nostri occhi quella realtà arcaica costituita da popoli dediti all’agricoltura, all’allevamento e alla navigazione. Lo stesso Ulisse era un re di una terra petrosa, possedeva greggi e armenti, e in quel tempo per il possesso di quelle medesime mandrie potevano scoppiare cruente e sanguinose guerre.

Il mondo dell’Odissea è un mondo popolato non solo da re, principi ed eroi, ma anche da servi e ancelle.

L’Odissea è il poema delle donne, molte e diverse tra loro sono infatti le figuri femminili che vi appaiono: Elena, Penelope, Circe, Calipso, Nausica.

Grazie alla traduzione di Dora Marinari ho riscoperto il piacere della lettura di alcune pagine dell’Odissea che sanno regalare immagini particolarmente struggenti come quelle in cui Ulisse ritrova il vecchio padre Laerte dedito a coltivare i propri campi e lui, per farsi riconoscere dal genitore, gli elenca tutti quegli alberi che un giorno, tanto tempo prima, il padre gli aveva donato o altre pagine di straordinaria intensità come quelle in cui Ulisse visita l’Ade e incontra le anime dei morti dopo aver lasciato la casa della maga Circe.

Lo scopo di Dora Marinari, come da lei stessa sottolineato, era quello di riuscire a realizzare una traduzione il più fedele possibile al testo greco, ma che allo stesso tempo mantenesse un linguaggio corrente, d’uso comune, così da essere compreso dal vasto pubblico e non solo da coloro in possesso di una formazione classica.

Direi che è riuscita perfettamente nel suo intento, le sue traduzioni dell’Iliade e dell’Odissea parlano un linguaggio moderno e antico allo stesso tempo, restando fedeli alla tradizione dei poemi omerici nati per essere trasmessi oralmente.

Ciò che mi ha colpito di più, leggendo i poemi in questa nuova versione, è quella sorta di pace che si impossessa del lettore il quale fin da subito si trova immerso nel ritmo lento e rilassato nella narrazione, ammaliato da un dolce canto che gli infonde serenità seppure gli episodi narrati siano spesso aspri e violenti; sembra davvero di entrare in un’altra dimensione, in un altro mondo e questa sensazione perdura per ogni singolo libro di entrambi i poemi senza mai abbandonare il lettore.

Nonostante lo scetticismo iniziale che avevo raccontato di aver provato prima di avvicinarmi a queste traduzioni, scetticismo che era comunque già stato spazzato via dopo la lettura delle prime pagine dell’Iliade, dopo aver letto entrambi i poemi non posso che ammettere di essere stata letteralmente conquistata da questi volumi editi da La Lepre Edizioni.




Vi ricordo qui il link relativo al post dedicato all’Iliade 

domenica 30 agosto 2020

“Iliade” di Omero (traduzione di Dora Marinari)

Questo poema non ha ovviamente bisogno di alcuna presentazione né è mia intenzione in questa sede riproporvi l’annosa questione omerica, in realtà lo scopo di questo post è invece quello di parlarvi di una recente traduzione dell’Iliade (2010) edita da La Lepre Edizioni, traduzione di Dora Marinari (1930-2013) con il commento di Giulia Capo.

Le traduzioni dei poemi omerici sono state innumerevoli nel corso dei secoli, ma quella più conosciuta, sebbene forse non la più fedele al testo, è senza dubbio quella di Vincenzo Monti.

Ricordo ancora il mio primo incontro con il poema, ero alle medie e l’antologia si intitolava “Armi Eroi Popoli” a cura di Salvatore Guglielmino, fu subito amore.

Qualche anno dopo mia nonna mi regalò le edizioni integrali di entrambi i poemi in sei volumi: l’Iliade nella classica traduzione del Monti e l’Odissea, traduzione di Ippolito Pindemonte.

Avevo sempre ritenuto impossibile, quasi fosse un sacrilegio, leggere una traduzione dell’Iliade diversa da quella del Monti, fino a quando, la settimana scorsa, mi sono decisa ad avvicinarmi alla traduzione di Dora Marinari e, grazie a lei, ho scoperto che esiste un altro modo di approcciarsi al poema omerico, altrettanto piacevole e fruttuoso seppur differente.

Senza nulla togliere all’espressività poetica della traduzione del Monti, un’espressività che per me resterà sempre di una forza e di una bellezza ineguagliabili, avvicinandomi ad una nuova traduzione ho riscontrato che il rischio di finire per identificare il poema omerico con la traduzione montiana è effettivamente molto alto, quasi che il vero testo dell’Iliade fosse quello scritto da Monti.

Grazie alla traduzione di Dora Marinari la lettura dell’Iliade diviene scorrevole, pur rispettando tanto la narrazione in versi quanto il linguaggio poetico originale.

La fluidità del testo così come l’eleganza che contraddistinguono questa moderna traduzione, attenta e fedele allo spirito omerico, ci permettono di apprezzare meglio sia quanto ci viene narrato da Omero sia la bellezza di quel mondo popolato da eroi, dei e semidei senza l’incessante sforzo di cercare di interpretare quella che, in verità, è una traduzione che, seppur di grande intensità poetica e forse proprio per questa sua stessa caratteristica, tende a mettere in ombra il testo omerico.

Per fare un esempio concreto: nel proemio nella traduzione di Monti si fa riferimento agli inferi traducendo quello che nel testo è Ἂïδi (Ἂïδης) con Orco (dal latino Orcus,i).

Tradurre con il termine più letterale Ade nulla toglie alla poeticità del testo, ma facilita invece molto la comprensione da parte del lettore che nel caso della traduzione del Monti necessita di una nota a piè pagina, mentre nel caso della traduzione della Marinari comprende immediatamente ed è pertanto più libero di concentrasi sulla narrazione dei fatti.

Orco era definizione presente anche nei Sepolcri del Foscolo però ciò che all’epoca del Monti, contemporaneo del Foscolo, era un termine forse di facile identificazione non è detto debba esserlo per noi oggi tanto più se digiuni di studi classici.

Non dimentichiamo infatti che i poemi omerici nacquero con un intento comunicativo cioè con lo scopo di trasmettere storie e concetti di tipo sociale e politico.

Una traduzione fluida permette di raggiungere ai giorni nostri lo stesso scopo e di rendere accessibili a tutti quei concetti che sono alla base nella nostra cultura e che si svilupparono proprio su suolo greco.

Questa nuova traduzione così scorrevole ci permette inoltre di leggere il poema quasi fosse un romanzo in versi, dandoci la possibilità di apprezzarne anche la trama e quei personaggi che con tanta armonia mantengono i loro epiteti (Era dalle bianca braccia, Achille dal passo veloce, Atena la dea dagli occhi azzurri).

Al termine di ogni libro è presente il relativo commento a cura di Giulia Capo; il fatto di porlo alla fine anziché all'inizio del libro come si è soliti fare, è una soluzione che ho apprezzato davvero molto perché questo permette di leggere il testo omerico in maniera libera apprezzando lo svolgimento del  racconto senza subire influenze di sorta.

I commenti, tutti molto articolati ed esaustivi, sono una via di mezzo tra una parafrasi del testo e quelle che erano le note a piè di pagina delle edizioni tradizionali.

I commenti agevolano il lettore nel fare il punto su quanto appena letto e lo aiutano a focalizzare i concetti principali espressi nel libro senza tralasciare, dove necessario, di dare una spiegazione sulla scelta di tradurre una particolare parola con un dato termine piuttosto che un altro.

Al posto delle note a piè di pagina si trova invece il testo originale in greco, altra soluzione molto gradita perché facilita un riscontro immediato con la traduzione.

Questa nuova edizione ci dà inoltre la possibilità di rileggere il poema secondo diversi registri.

Indubbiamente l’Iliade è un poema dagli intenti celebrativi siano essi morali, politici o sociali, è il poema in cui Apollo ci inviata ad indagare su noi stessi  γνῶθι σαυτόν (conosci te stesso) e ancora di più ci inviata alla moderazione, a rispettare il limite invalicabile  μηδὲν ἄγαν (niente di troppo), ma l’Iliade più prosaicamente è anche il poema alle origini di tutta una letteratura che nei secoli si è ispirata all’ideale di perfezione del καλὸς καὶ ἀγαθός, dai romanzi cavallereschi ai miti romantici fino ad arrivare ai nostri giorni con la letteratura fantasy.

Quanto sono simili a quelli che leggiamo nei romanzi moderni i discorsi di incitamento ai compagni prima della battaglia che troviamo nell’Iliade? Quanto sono affini le cruente descrizioni delle ferite inferte ai nemici in quelle stesse battaglie?

Mi sono ritrovata anche a sorridere quando leggendo di Ettore sterminatore di uomini mi è sopraggiunto alla mente la definizione di sterminatore di re che George R.R. Martin attribuisce a Jaime Lannister nella sua saga del “Trono di spade”.

Ebbene sì, lo riconosco, sono partita dal ritenere quasi blasfemo leggere una traduzione dell’Iliade diversa da quella universalmente riconosciuta di Vincenzo Monti a ritrovare addirittura analogie con la più ordinaria letteratura contemporanea.

L’elemento distintivo della traduzione di Dora Marinari è proprio questo, averci restituito in tutto il suo splendore un poema che, sebbene millenario, è ancora vivo e attuale, un poema che non ci si stancherà mai di leggere anzi di ascoltare.   

Era da tanto tempo che non leggevo ad alta voce eppure con questo libro mi sono ritrovata a farlo perché se si vuole davvero apprezzare a pieno la natura di questo poema bisogna rispettarne il ritmo, l'Iliade va ascoltata anche se solo dalla propria voce.

 



 

domenica 16 agosto 2020

“Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV secolo” di Adriano Petta e Antonino Colavito

Ipazia, astronoma, matematica e filosofa, visse nel IV secolo d.C. ad Alessandria d'Egitto. 

Alla morte del padre Teone ereditò da questi la direzione della scuola neo-platonica; quella alessandrina era stata la comunità scientifica più importante della storia, proprio qui infatti avevano studiato importanti scienziati e filosofi quali Archimede, Ipparco, Aristarco di Samo, Tolomeo e molti altri.

A Ipazia si devono importantissime scoperte scientifiche oltre alla realizzazione di preziosi strumenti come l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro.

Le fonti storiche che la riguardano sono molto esigue e quasi nulla è giunto fino a noi delle sue opere se non qualche raro frammento.

Gli anni di Ipazia furono gli anni in cui si assistette allo sciagurato patto tra l’agonizzante Impero Romano, minacciato dalle popolazioni barbare che premevano ai confini, e la Chiesa cattolica che vantava figure di spicco quali Ambrogio, vescovo di Milano, e il padre della Chiesa Agostino.

Il patto prevedeva, oltre alla completa evangelizzazione dell’Impero, la soppressione di templi, biblioteche, centri di studio e con essi l’eliminazione di scienziati, studiosi, filosofi, in poche parole di tutti coloro che potessero minacciare la Chiesa cattolica con la diffusione del libero pensiero e delle scienze.

Ad osteggiare apertamente il vescovo di Alessandria Cirillo troviamo il prefetto romano Oreste.

Ipazia, già invisa a Cirillo in quanto scienziata, filosofa e per di più donna, pagò con la vita probabilmente anche la sua amicizia con Oreste.

Nel 415 d.C. venne barbaramente uccisa e fatta a pezzi dai fondamentalisti che ritenevano che la sua libertà di pensiero influenzasse negativamente il popolo allontanandolo dal vero credo.

Ipazia amava infatti trasmettere il suo sapere recandosi tra la gente e, nello scontro tra ragione e religione, fu lei a pagare il prezzo più alto.

Il libro è diviso in due parti.

Nella prima parte, scritta da Adriano Petta, viene raccontata la vita di Ipazia; un racconto romanzato, ma che segue con rigore storico gli eventi e il contesto culturale in cui si svolsero i fatti narrati.

Nella seconda parte, ad opera della penna di Antonino Colavito, invece è Ipazia in prima persona a parlarci, come in un sogno, delle sue ricerche, delle sue speranze, sei suoi dubbi e del sapere di cui è custode.

Probabilmente molti di voi, come me, avranno già letto questo romanzo anni fa in occasione dell’uscita del film Agora (2009) con la bravissima Rachel Weisz nel ruolo di Ipazia.

“Ipazia, vita e sogni di una scienziata del IV secolo” è uno di quei libri che ti segnano profondamente, ragione per la quale, anche se di solito non amo rileggere i libri già letti in considerazione del fatto che non mi basterà una vita per leggere tutto quello che vorrei, ho voluto fare un’eccezione come raramente mi accade.

Perché rileggere il romanzo?

Iniziamo dalla motivazione più ovvia, anche se per questo non meno valida, ossia per non dimenticare.

Per non dimenticare che secoli fa una donna dotata di una mente straordinaria, tenace e determinata, diede la sua vita per la scienza e per ciò in cui credeva.

Ipazia morì non solo per difendere il pensiero scientifico, ma anche per affermare il diritto di tutti al libero pensiero.

In molti paesi la donna è ancora oggi considerata un essere inferiore, ma la verità è che anche nel mondo più civilizzato, o almeno in quella parte di mondo che ci piace definire tale, la donna ha raggiunto una parità solo apparente.

Non possiamo infatti ignorare che gli stipendi delle donne, a parità di competenze e mansioni, siano ancora troppo spesso inferiori a quelli dei loro colleghi uomini, che sia ancora necessario avvalersi delle quote rosa e che ai vertici delle grandi aziende gli uomini siano numericamente superiori.

Sono trascorsi ben sedici secoli allorquando Ipazia scelse di dedicare la propria vita alla scienza rinunciando ad una sua famiglia, altro motivo per cui venne osteggiata.

Eppure, non possiamo fingere di non sapere che, nonostante si dica che una donna sia libera di scegliere se diventare madre o meno, colei che rinuncia volontariamente alla maternità per dedicarsi ad altro o anche solo per una sua risoluzione personale, ancora oggi venga sottoposta a critiche, spesso neppure troppo velate, e debba sentirsi sempre in dovere di giustificare le proprie scelte.

Ero inoltre molto curiosa di sapere quali impressioni mi avrebbe suscitato rileggere questo romanzo a distanza di più di dieci anni e dopo aver affrontato nel frattempo tante altre letture.

Le emozioni provate sono state le stesse, la medesima intensità e lo stesso coinvolgimento, se non fosse per una sola piccola nota stonata, ovviamente per il mio personale sentire, laddove si condanna Claudio Claudiano perché incline a sprecare il suo talento dedicandosi esclusivamente alla retorica e alla poesia anziché alla scienza.

Ipazia era una scienziata e una filosofa, faceva della ragione il suo unico scopo, per lei la ragione era la fonte di tutto.

Oggi abbiamo una tecnologia super avanzata, la scienza ha fatto passi da gigante, ma mai come oggi avremmo in verità bisogno di molta più poesia.

All’epoca in cui visse Ipazia la filosofia, la matematica, l’astronomia, la musica erano strettamente collegate tra loro, per cui non so se tale affermazione nasca dal vero pensiero di Ipazia ritrovato tra i frammenti delle sue opere o se sia invece solo finzione letteraria ad opera dell’autore del romanzo, però leggere:

Lascia perdere Shalim testi di religione e di filosofia. Noi sappiamo cosa può veramente mutare il cammino dell’uomo.

Pur comprendendo che si tratta di un romanzo che parla di storia della scienza, trovo comunque piuttosto fastidioso quanto così espresso.

Capisco la necessità da parte di Ipazia di dover scegliere cosa salvare, ma una tale affermazione traccia un confine troppo netto tra ciò che è da considerarsi utile e ciò che invece deve essere considerato superfluo dell’umano sapere.

Premesso che mi risulta impossibile fare una classificazione delle varie discipline, mi rifiuto di credere che poesia, filosofia, ma anche religione e mitologia, nelle quali affondano le nostre radici, si possano ritenere materie superflue per il cammino dell’uomo.

Gli studi umanistici sono sempre più osteggiati perché poco remunerativi e considerati di limitata utilità, non comprendendo che proprio attraverso questi stessi studi si forgia la chiave del pensiero, la possibilità di sviluppare quello spirito critico che manca alla nostra società spianando così la strada a fondamentalisti e populisti.

Non so perché non avessi notato questa stonatura quando lessi il romanzo per la prima volta, forse mi ero troppo persa nella trama del racconto o, più semplicemente, magari dieci anni fa non ero così suscettibile sull’argomento.

La figura di Ipazia, comunque, donna forte e determinata, sicura delle proprie scelte, comunicativa e appassionata, dolce ma allo stesso autorevole e ferma, non può che affascinare e coinvolgere il lettore anche ad una seconda lettura più approfondita.

Spero di essere riuscita ad incuriosirvi abbastanza da spingervi a leggere il libro nel caso non l’aveste mai fatto o, nel caso invece esso sia una vecchia conoscenza, di avervi un poco invogliati a inserirlo nell’elenco dei romanzi da rileggere.