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giovedì 13 agosto 2020

“L’enigma d’amore nell’Occidente medievale” di Annarosa Mattei

C’è stato un tempo, centinaia di anni fa, in cui l’amore era declinato al femminile; in lingua d’oc l’amore era detto la fin’amor o amor nova, il libro ne racconta le origini.

Celebrata dai trovatori sul finire dell’anno Mille nei feudi situati tra la Provenza e l’Aquitania la fin’amore si espanse nelle terre circostanti fino a raggiungere, trasformandosi e assumendo caratteristiche diverse, il Nord della Francia, la penisola Iberica, l’Inghilterra, le Fiandre, la Germania e l’Italia.

Il discorso d’amore fu soggetto ad una violenta repressione da parte della Chiesa che, per opportunità politica e per difendere i propri dogmi, non poteva certamente favorire una visione del mondo così secolare e libertaria.

La fin’amor rappresentava infatti in un certo senso l’emancipazione laica dalla tutela religiosa e, altro elemento da non sottovalutare, poneva in primo piano la figura femminile inserita al centro di un percorso di formazione morale e sentimentale.

In quegli anni, inoltre, si stava diffondendo un radicale movimento evangelico, il catarismo, giudicato eretico dalla Chiesa.

Il catarismo aveva molte affinità con la fin’amor in quanto, oltre a promuovere la libera conoscenza e l’accesso diretto alle fonti, sosteneva l’idea dell’uguaglianza tra l’uomo e la donna.

Con la crociata contro gli Albigesi, indetta da papa Innocenzo III, che ebbe luogo tra il 1209 e il 1229 per estirpare il movimento nei territori della Linguadoca, non solo il movimento dei catari, ma anche la fin’amor subì conseguentemente un brusco arresto.

Alla sua nascita la lingua d’amore era fondata sul gusto della vita, sulla ricerca della bellezza, del piacere e dell’eleganza.

Quella decantata dai poeti era una nuova idea dell’amore e della donna che veniva celebrata così attraverso la poesia, la danza, il canto e la musica.

Il grande canto cortese e le regole della gaia scienza affinarono e ingentilirono i modi di quella classe originariamente guerriera priva di buone maniere e di eleganza.

Nel corso del tempo a seconda del territorio e del suo substrato culturale, così come in base agli accadimenti storici e ai rivolgimenti politici, la fin’amor assunse caratteristiche sempre diverse dando vita a nuovi generi come ad esempio il roman.

Il roman, che è poi alle origini del romanzo moderno, nacque proprio dall’incontro della fin’amor con la cultura classica tipica delle scuole clericali della Normandia e con i miti celtici radicati nella cultura bretone.

Allo stesso modo nei territori germanici troveremo i Minnesänger e in Italia i poeti federiciani e le variazioni tosco-emiliane fino ad arrivare all’avanguardia fiorentina con Guido Cavalcanti, Dante Alighieri e i Fedeli d’Amore.

Il libro, oltre a passare in rassegna tutti i più grandi esponenti della letteratura d’amore dalle origini fino alla fine del XIII secolo, ci ricorda anche tutte quelle figure storiche che, con il loro mecenatismo, resero possibile lo sviluppo di tale corrente letteraria, prima fra tutte la celebre Eleonora duchessa d’Aquitania, regina di Francia e in seguito regina d’Inghilterra, figlia di Guglielmo X di Aquitania e madre del leggendario Riccardo Cuor di Leone e della colta Maria di Champagne.

La forza del libro di Annarosa Mattei è proprio la capacità dell’autrice di riuscire a ricreare il contesto storico in cui la fin’amor nacque e si sviluppò assumendo le più svariate forme e sfumature.

“L’enigma d’amore nell’occidente medievale” non è una mera storia della letteratura o una classica antologia dove i singoli autori vengono presi in esame con i loro testi, ma piuttosto un saggio completo in grado di regalare al lettore un quadro dettagliato e minuzioso delle condizioni storico-politiche-religiose e delle figure che contribuirono alla nascita del discorso d’amore e che ne permisero lo sviluppo e la trasformazione partendo dalle corti occitaniche per poi raggiungere tutta l’Europa.

 

 

sabato 1 agosto 2020

“Il segreto di Ippocrate” di Isabella Bignozzi

Hippokràtes avverte che la sua fine è ormai vicina; vorrebbe avere ancora la forza di poter mettere nero su bianco i ricordi e gli insegnamenti del padre Heraclides e di tutti gli altri suoi maestri, raccontare dei suoi studi e dei suoi numerosi viaggi, delle molte persone conosciute nel corso degli anni, ma
Hippokràtes è ormai anziano e i suoi occhi sono troppo stanchi per poter mettere a fuoco il segno dell’inchiostro sulla pagina.

Così, il genero Pòlybos, il suo miglior discepolo, si offre di aiutarlo scrivendo per lui sotto dettatura quanto vorrà rivelargli della sua esistenza piena e ricca di avvenimenti.

Il racconto inizia con i ricordi di infanzia del medico nato sull’isola di Kos e del tempo da lui trascorso insieme all’amico fraterno Timàs, il figlio di Agapios, il fattore della sua famiglia.

Hippokràtes, unico figlio maschio, apparteneva ad una famiglia agiata e molto stimata.

I suoi genitori, seppur esponenti di una classe privilegiata, erano però persone scevre da ogni tipo di pregiudizio e così, fin da bambino, Hippokràtes aveva potuto condurre un’esistenza molto serena accanto alle persone più diverse.

Durante le giornate accompagnava l’amico Timàs nei campi per aiutarlo nei lavori della fattoria e alla sera, dopo le consuete abluzioni, era solito prendere lezioni da un anziano insegnante.

Il romanzo racconta degli studi condotti dal giovane Hippokràtes, della sua passione per la medicina, divampata quasi per caso ascoltando una lezione tenuta dal padre ai suoi studenti, delle cure occorse al suo primo paziente e dell’amore per la bellissima e imprevedibile Chlòe.

“Il segreto di Ippocrate” è basato su avvenimenti realmente accaduti e tramandatici dagli storici, ma la storia di Hippokràtes raccontata da Isabella Bignozzi è per la maggior parte frutto della sua fervida fantasia.

Il vecchio Hippokràtes che si confronta ogni giorno con Pòlybos ha i tratti tipici della persona anziana: i repentini scatti d’umore, la frustrazione nel dover prendere coscienza che il proprio corpo non risponde più come prima, gli sforzi fatti nel tentativo di rassegnarsi al fatto di essere giunti ormai al capolinea quando in realtà si avrebbe ancora tanta voglia di fare e tante cose da dire, la malinconia nel ricordare i tempi passati soffermandosi con indulgenza su quell’immagine di sé in gioventù.

Il giovane Hippokràtes raccontato dall’anziano è invece, un ragazzo prima e un uomo poi, sempre molto critico con se stesso e spesso insicuro, ma la sua insicurezza è ciò che lo renderà il grande medico che noi tutti oggi conosciamo.

Proprio grazie a questi suoi dubbi egli è spronato fin dall’inizio a lavorare duramente per acquisire sempre più sicurezza in se stesso e nel suo sapere.

Il più grave errore che un medico potrebbe compiere sarebbe proprio quello di essere troppo sicuro e presuntuoso.

Uno dei primi preziosi insegnamenti che Hippokràtes riceve dal padre Heraclides è infatti quello di ascoltare sempre il malato, perché il vero protagonista della medicina non è mai il medico ma il malato stesso. Un utile consiglio che gli verrà dispensato anche in seguito da altri medici incontrati sul suo cammino.

Ho consumato gli occhi nel leggere mille manoscritti, ho impolverato i calzari in innumerevoli viaggi, ai confini della civiltà; ho impegnato la mente senza posa, riflettendo su cause ed effetti; graffiato le mani per cogliere e mondare erbe, fiori e arbusti.

L’immagine di Hippokràtes che ci regala Isabella Bignozzi è quella di un novello Prometeo che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini.

La sete di conoscenza di Hippokràtes non è un qualcosa di fine a se stesso, qualcosa che lui ricerchi per lusingare la propria intelligenza, ma piuttosto la necessità di capire, comprendere quanto più possibile delle cause e degli effetti al fine di mettersi al servizio del prossimo.

Egli rifugge la gloria, non vuole essere un eroe, il suo desiderio più grande è semplicemente quello di salvare delle vite umane e di lenire, per quanto più gli è possibile, le sofferenze altrui.

La sua è una vita dedicata a fare del bene e ogni suo dubbio nasce dal fatto di poter sbagliare, di non essere in grado di arrivare in tempo al capezzale di un malato, di non riuscire a fare tempestivamente una diagnosi corretta.

Egli è angosciato dall’idea che il destino giochi un ruolo eccessivo e perverso nella vita degli uomini.

Hippokràtes è descritto in fin dei conti come un uomo come tanti altri, con le sue insicurezze e le sue debolezze, anch’egli come tutti nella vita prova talvolta sconforto ed entra in crisi, ma tutto ciò non fa che renderlo una figura ancora più vera, più reale.

Tutti i personaggi del libro in verità sono ben caratterizzati e sanno come farsi amare dal lettore dal lettore, ma la figura di Hippokràtes sopravanza indubbiamente tutti gli altri per carisma e fascino.

Isabella Bignozzi con la sua prosa elegante e raffinata ha ricreato un affresco dell’epoca così vivo e particolareggiato che per il lettore è impossibile non farsi trascinare dalla fantasia tanto da riuscire a percepire quasi in prima persona il fragore di quelle onde che si infrangono contro la scogliera e scorgere le navi all’orizzonte che si dirigono verso il porto.

Tra le pagine de “Il segreto di Ippocrate” possiamo perderci tra le fila dell’immenso esercito di Ciro, ripercorrere i miti, incontrare personaggi quali Socrate e Empedocle, ritrovare l’antica saggezza degli antichi greci, visitare gli antichi templi, tutto grazie alle descrizioni dettagliate e puntuali della sua autrice.

Leggendo questo bellissimo e struggente romanzo si intuisce quanto grandi siano l’amore e il rispetto che Isabella Bignozzi prova per questo mondo da lei descritto così accuratamente spesso facendo uso anche di termini in greco antico che contribuiscono sensibilmente a ricreare l’atmosfera dell’epoca.

“Il Segreto di Ippocrate” è un libro che conquista il lettore fin dalla prima pagina proprio grazie alla passione dell’autrice, una passione che si rivela fin da subito irrimediabilmente contagiosa.