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domenica 23 luglio 2017

“La missione teatrale di Wilhelm Meister ” di Johann Wolfgang Goethe (1749 – 1832)

LA MISSIONE TEATRALE
DI WILHELM MEISTER
di Johann Wolfgang Goethe
BUR Rizzoli
Wilhelm Meister, figlio di un commerciante di una piccola città imperiale, nonostante sia destinato a seguire le orme paterne, fin da piccolo manifesta una fervente passione per il teatro.
La sua vocazione teatrale in verità nasce quando, ancora bambino, assiste ad una rappresentazione di marionette organizzata dalla nonna per i propri nipoti.
Da quel giorno il gioco preferito di Wilhelm diventerà organizzare spettacoli con i burattini e, una volta cresciuto, mettere in scena vere e proprie rappresentazioni insieme agli amici.
A spingere il giovane Wilhelm definitivamente sulla strada del teatro sarà però la giovane attrice Marianne che diventerà anche la sua amante.
Un amore ovviamente contrastato dalla famiglia di lui che riuscirà a far sì che la liaison venga bruscamente interrotta.
Su consiglio del cognato, Wilhelm partirà per un viaggio allo scopo di comprendere meglio il mondo del commercio e nel frattempo cercare di recuperare alcuni crediti presso alcuni debitori dell’azienda di famiglia.
Inevitabilmente però il giovane non riuscirà a restare a lungo lontano dal suo mondo.
Si unirà ad una compagnia di attori e con loro girerà il paese cercando di dare voce alla sua aspirazione ovvero divenire attore e direttore di spettacolo nonché di scrivere egli stesso testi per il teatro.

Il personaggio di Wilhem Meister accompagnerà l’autore per buona parte della sua vita.
“La missione teatrale di Wilhelm Meister” è infatti solo un primo abbozzo di quello che sarà il secondo romanzo di Goethe intitolato “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister” pubblicato nel 1796.
“La missione teatrale di Wilhelm Meister” si interrompe al 14° capitolo del VI libro mentre il romanzo pubblicato nel 1796 conta un totale di otto capitoli e un numero quasi doppio di pagine rispetto alla prima stesura.
Il romanzo fu probabilmente ampliato dall’autore al suo rientro dal viaggio in Italia che egli effettuò negli anni tra il 1786 e il 1788 e dal quale ritornò forte di nuove esperienze che ne determinarono una maturazione politica, sociale, umana e intellettuale.

Il testo di “La missione teatrale di Wilhelm Meister” in realtà è stato riportato alla luce solo nel 1911, fino a questa data l’unica versione conosciuta era quella pubblicata nel 1796.

Goethe riprenderà a raccontare le vicende di Wilhelm  Meister in un altro romanzo intitolato “Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister”, scritto tra gli anni 1820 – 1821, ma pubblicato solo nel 1829.

“La missione teatrale di Wilhelm Meister” ha un carattere più esasperatamente romantico rispetto a “Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meiester” nel quale Goethe, giunto ad una maturazione intellettuale ed estetica, propone una concezione della storia e uno stile completamente diversi.
 “Gli anni di apprendistato di Wilhemn Meister” verrà riconosciuto dalla critica come il primo romanzo di formazione della storia della letteratura.

Ma ritorniamo ora al nostro libro oggetto di questo post ovvero “La missione teatrale di Wilhelm Meister”.
Wilhelm è un giovane la cui passione per il teatro lo porta a scontrarsi spesso con una realtà a lui sconosciuta e con un ambiente, quello degli attori di strada, lontanissimo da quello borghese nel quale è stato cresciuto.
Egli è un idealista e in quanto tale non può che soccombere dinnanzi a personaggi avidi per il quale il teatro è semplicemente un mezzo per sbarcare il lunario e nulla più.
Wilhelm è inoltre sempre combattuto tra il desiderio di realizzare il suo sogno e il rimproverarsi questo suo inconcludente bighellonare.
E’ conscio di non concludere nulla, ma allo stesso tempo è incapace di rinunciare alla sua vocazione nonostante sia tormentato dai sensi di colpa nei confronti della propria famiglia che sa di avere grandemente deluso.
Wilhelm Meister è buono, ingenuo e corretto e per questo viene regolarmente imbrogliato e raggirato dagli altri, tanto che alla fine persino il lettore inizia a stancarsi della sua ingenuità.

Rimarchevoli sono i personaggi femminili che offrono un ventaglio molto ampio di elementi distintivi: dalla piccola Mignon, un personaggio atipico, un ragazzina malinconica ed eccentrica; a Philine, la bella attrice vanitosa, capricciosa e provocante; ad Aurelie, triste e disperata, inquieta e infelice per amore tanto da riuscire a identificare perfettamente se stessa nel ruolo di Ophelia; e infine Madame Melina che proviene da un ambiente borghese come Wilhelm, ma al contrario di questi, non ha trovato alcun ostacolo nell’ambientarsi a vivere tra gente gretta e corrotta.

L’autore si rivolge spesso nelle sue pagine direttamente al lettore non facendo quindi mistero di aver scritto il romanzo per essere letta da un pubblico.

Goethe è esperto conoscitore dell’animo umano e attraverso i suoi personaggi ci racconta i sogni e le speranze degli uomini così come i disinganni e le disillusioni con i quali questi inevitabilmente devono fare i conti nella propria vita.

Stranissimo! Con nulla l’uomo sembra essere più in confidenza che con le proprie speranze e i propri desideri, che a lungo nutre e conserva in cuore, e tuttavia quando un giorno gli si fanno incontro, quando quasi lo importunano, egli non li riconosce, e ne rifugge.

Risulta bizzarro scoprire come, anche a distanza di secoli, il modo di sentire degli uomini e di affrontare il mondo non sia cambiato affatto.

Spesso desiderava con tutta se stessa sbarazzarsi di quella relazione a cui accennavamo sopra, il pensiero della quale si faceva ogni giorno più disgustoso. Ma come liberarsene? Ognuno sa come sia difficile per l’uomo avere il coraggio di fare un passo decisivo, e che a migliaia, piuttosto, ogni giorno che viene trascinano la propria vita alla bell’e meglio in un destino di clandestinità!

Il romanzo alterna pagine commoventi ed emotivamente coinvolgenti ad altre decisamente un po’ tediose e monotone.

Il ritmo è lento, il testo non sempre scorrevole e purtroppo, complice anche il numero di pagine abbastanza elevato, poco meno di quattrocento, “La missione teatrale di Wilhelm Meister” non si può certo ritenere un testo di facilissima e agevole lettura, ma resta pur sempre un romanzo comunque fondamentale per chiunque voglia cercare di approfondire meglio l’opera di Johann Wolfgang Goethe.




mercoledì 21 giugno 2017

“La figlia del capitano” di Aleksandr Puškin (1799 – 1837)

LA FIGLIA DEL CAPITANO
di Aleksandr Puškin
CRESCERE EDIZIONI

Pëtr Grinëv, unico figlio maschio di un nobile ufficiale a riposo, fin dalla nascita è destinato a intraprendere la carriera militare.

Il padre però, ritenendo che il servizio nella Guardia imperiale alla quale il ragazzo è destinato non sia abbastanza formativo, decide di inviarlo a prestare servizio a Orenburg.

Durante il viaggio il sedicenne Pëtr Grinëv e il suo servitore Savél’ič, sorpresi da una tormenta, vengono soccorsi da un contadino che li accompagna a una locanda dove possono riposare e rifocillarsi prima di riprendere il loro cammino.

Giunti a Orenburg, vengono inviati alla fortezza di Bielogòrsk e qui Pëtr Grinëv conosce Mar’ja, la figlia del capitano, della quale si innamora ricambiato, ma il padre di lui è contrario al matrimonio.
Durante la permanenza a Bielogòrsk, Pëtr viene sfidato a duello dal giovane ufficiale švabrin, un pretendente precedentemente respinto da Mar’ja, e viene da questi ferito.

La fortezza è assalita dai cosacchi ribelli capitanati dal sanguinario Pugačëv che porta avanti il suo piano per farsi riconoscere dal popolo come nuovo zar.
I genitori di Mar’ja vengono giustiziati dal rivoltoso Pugačëv che altri non è che l’uomo che aveva soccorso Pëtr e Savél’ič sorpresi dalla tormenta.
Il ribelle per ringraziare della pelliccia di lepre ricevuta in segno di riconoscenza da Pëtr dopo che questi li aveva salvati conducendoli alla locanda, decide di ringraziare del gentile dono il giovane permettendogli di partire per Orenburg.

A Orenburg il consiglio preferisce attuare una tattica di difesa della fortezza piuttosto che affrontare il nemico in campo aperto.
Così quando Pëtr riceve una lettera da Mar’ja nella quale questa dichiara di essere in pericolo in quanto Švabrin, ora a capo della fortezza di Beilogòrsk, vuole costringerla a sposarlo, decide, ottenuto il consenso del suo superiore, di partire nel tentativo di salvarla.

Sulla strada incontra nuovamente Pugačëv che ancora una volta viene in suo soccorso, costringe Švabrin a liberare la giovane e a consegnarla a Pëtr insieme ad un salvacondotto che gli permetta di attraversare indisturbati i territori controllati dai ribelli.

Pugačëv alla fine verrò giustiziato e Pëtr Grinëv, accusato da Švabrin di essere stato uno degli insorti, sarà condannato a morte, pena che verrà poi commutata con l’esilio permanente in Siberia.
Mar’ja che ha compreso che Pëtr si è lasciato condannare ingiustamente, rinunciando a difendersi per non costringere lei a comparire in giudizio e rivivere così quei giorni terribili, chiede ed ottiene la grazia per l’amato dalla zarina Caterina II.

“La figlia del capitano”, pubblicato nel 1836, è un classico della letteratura russa dell’Ottocento.

L’opera rientra a tutti gli effetti nel filone dei romanzi di formazione.
Il giovane inesperto e viziato Pëtr, servendo nell’esercito, raggiunge la piena maturità e trova la sua strada distinguendosi per onore e valore, sempre pronto a difendere i propri ideali e la donna da lui amata.

Vizi e virtù umane sono perfettamente espresse attraverso i personaggi del romanzo, ma non tutti possono essere classificati come buoni o cattivi.
Švabrin è rancoroso, ostile e vendicativo, ma Pugačëv, il ribelle sanguinario e temuto da tutti, mostra aspetti diversi.
È l’uomo che ha permesso che persone innocenti venissero barbaramente giustiziate ma è anche colui che ha mostrato riconoscenza e gentilezza nei riguardi del giovane Pëtr Grinëv, tanto che questi separandosi da lui dirà:

Non posso spiegare quello che sentivo separandomi da quell’uomo terribile, mostro, scellerato per tutti, fuorché per me solo.

“La figlia del capitano” è un piacevole romanzo dalla lettura scorrevole e veloce, dalla trama dinamica e ricca di colpi di scena.

Una storia d’atmosfera, una favola dove, proprio come nelle fiabe, dopo che tutti i colpevoli sono stati puniti, all’eroe e alla sua amata viene riservato il classico finale da “e vissero tutti felici e contenti”.





domenica 11 giugno 2017

“La sonata a Kreutzer” di Lev Tolstoj (1828 – 1910)

LA SONATA A KREUTER
di Lev Tolstoj
PASSIGLI EDITORE
Il romanzo, pubblicato nel 1889 e opera della piena maturità di Lev Tolstoj, deriva il suo titolo dall’omonima sonata per violino e pianoforte di Beethoven.

Durante un viaggio in treno si accende una discussione tra alcuni viaggiatori. L’argomento della controversia è il matrimonio: mentre una moderna e liberale signora sostiene che l’unico fondamento dell’unione matrimoniale debba essere l’affinità sentimentale, un anziano signore dalle idee maschiliste e bigotte si dichiara sostenitore di tutt’altro partito.
A favore della tesi sostenuta dall’attempato mercante si schiera un passeggero di nome Pòzdnyshev che, qualche pagina più avanti, racconterà la propria storia ad un altro viaggiatore.

Pòzdnyshev è un uxoricida assolto dalla giuria, ritenuto non colpevole in quanto marito tradito che agì per difendere il proprio onore oltraggiato.
La sua storia ebbe inizio quando da giovane commise l’errore di sposare una ragazza solo per la sua avvenenza.
Ben presto il matrimonio si rivelò una schiavitù per entrambi e iniziarono i litigi che si ripeterono con sempre maggiore frequenza.
La nascita dei figli non fece che peggiorare il rapporto tra loro e le divergenze diventarono presto incolmabili.
Il marito provava una gelosia smisurata nei confronti della moglie, non tanto dettata dall’amore che ormai si era completamente dissolto, quanto piuttosto da un ossessivo desiderio di possesso. Lei, da parte sua, per lui provava solo fastidio e irritazione.
Il caso volle che Pòzdnyshev presentasse alla moglie un vecchio conoscente, un musicista.
Un giorno la donna e l’amico eseguirono, lei al piano e lui al violino, la sonata a Kreutzer di Beethoven, e dall’intesa che sbocciò tra loro, dall’espressione dei loro volti nacque in Pòzdnyshev il sospetto del tradimento della moglie, sospetto che lo porterà a compiere l’estremo gesto.

In “La Sonata a Kretuzer” Tolstoj descrive in modo preciso la rovina del rapporto amoroso: dalla passione iniziale, all’indifferenza, alla gelosia, all’odio sino al delitto.
La psicologia degli amanti è indagata minuziosamente, psicologia che l’autore aveva già analizzato nel suo celebre romanzo Anna Karenina, pubblicato nel 1877.

Il tema centrale del romanzo è la perdizione dell’uomo in balia dei suoi sensi.
Scritta dopo la cosiddetta “conversione ai Vangeli” di Tolstoj, l’opera, intrisa di religiosità, è un invito a liberarsi dei piaceri della carne che inducono l’uomo a comportarsi come le bestie allontanandolo dalla sua vera natura.

“La sonata a Kreutzer” è un romanzo autobiografico, Tolstoj si rifà alle proprie esperienze personali: il tradimento, le liti famigliari, lo schierarsi dei figli a favore di uno o dell’altro genitore nelle contese di tutti i giorni.
Tolstoj, nell’incipit di Anna Karenina, scriveva “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”; ora questo concetto sembra essere ormai superato, in queste pagine di denuncia e accusa Tolstoj afferma che la felicità famigliare non può esistere perché i rapporti sono inevitabilmente destinati ad un tragico degenerare.  

“La sonata a Kreutzer” contrariamente alle altre opere di Tolstoj è un romanzo breve e pertanto di più facile approccio per ogni tipo di lettore.

Il racconto è intenso e ricco di pathos; il lettore riesce a sentirsi così partecipe del tormento interiore del protagonista tanto da avere l’impressone, pagina dopo pagina, di viaggiare egli stesso su quel treno e ascoltare in prima persona il racconto di Pòzdnyshev.

Pòzdnyshev chiede perdono alla moglie sul letto di morte e chiede perdono al compagno di viaggio quando questi, arrivato a destinazione, si congeda da lui.
Nella sua pazzia riesce a comprendere davvero la gravità del crimine commesso solo alla vista del cadavere.

In un’epoca in cui un uomo era ritenuto innocente di un delitto d’onore anche solo per un sospetto di tradimento, al lettore resta il dubbio: la moglie aveva tradito davvero Pòzdnyshev?

È vero che lui sorprese la moglie a cena con il violinista, è vero che all’epoca non era decoroso per una signora ricevere un uomo da sola di sera nella propria casa, ma è pur vero che i figli dormivano nelle stanze accanto, che la servitù era in servizio. La moglie poteva davvero scegliere di consumare un tradimento in tale situazione?
Pòzdnyshev non colse mai in fragrante la moglie per cui sarebbe plausibile che tutto fosse stato generato esclusivamente dalle sue ossessioni.

Ai lettori l’ardua sentenza….






mercoledì 7 giugno 2017

“Lettera al padre” di Franz Kafka (1883 – 1924)

LETTERA AL PADRE
di Franz Kafka
SE Studio Editoriale
Franz Kafka nacque nel 1883 a Praga in una famiglia ebraica di agiate condizioni.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento Praga offriva un vivacissimo ambiente culturale ed artistico. Fu proprio questo ambiente praghese in cui si confrontavano tre culture diverse (quella ceca, quella tedesca e quella ebraica) ad influire sulla crescita e sull’evoluzione artistica e personale di Franz Kafka.
Terminati gli studi liceali, il giovane Kafka conseguì, come da imposizione paterna, la laurea in legge. Il suo primo impiego fu presso le assicurazioni Generali e successivamente presso l’Istituto di assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro.
Kafka non si rassegnò mai alla monotona e triste vita impiegatizia e continuò pertanto a coltivare la sua passione per la letteratura, passione che si era in lui manifestata sin dai primi anni di scuola.
Dal 1917 al 1924, anno della sua morte, lo scrittore, affetto da una violenta tubercolosi, abbandonò definitivamente il lavoro.
Tra le varie opere di Kafka il suo racconto più celebre è senza dubbio “La metamorfosi”, ovvero la storia di un uomo, tale Gregor Samsa, che una mattina si sveglia e realizza con orrore di essersi trasformato in uno scarafaggio. Un essere repellente e superfluo, qualcosa di ripugnante persino per i suoi stessi familiari che vedranno la sua morte come una liberazione.
Nel 1924 Kafka morì in sanatorio lasciando il compito all’amico Max Brod di distruggere tutta la una produzione. Questi contravvenne alle sue ultime volontà e al contrario curò un’edizione postuma di tutta la sua produzione che usci nel 1927.

“Lettera al padre” fu scritta nel 1919 ma non fu mai consegnata al suo destinatario. L’originale è battuto a macchina con correzioni a mano tranne le due ultime pagine che sono scritte interamente a mano.
“Lettera al padre” è un violento atto d’accusa in cui Kafka esprime il difficile e controverso rapporto con il genitore. A lui infatti attribuiva la colpa per essere stato condannato ad una vita fatta di isolamento e di contraddizioni.
Kafka disapprova il padre per la durezza dei modi, la poca sensibilità, l’irascibilità ma ne è allo stesso tempo affascinato.
Non può fare a meno di confrontare il proprio aspetto fisico ed il proprio carattere con quelli paterni, uscendone sempre purtroppo irrimediabilmente sconfitto.
Anche in età avanzata il fisico del genitore risulta agli occhi di Kafka ancora prestante, alto, imponente; il suo è invece un fisco malaticcio, debole, magro.
Il carattere del padre è tenace, combattivo, dotato di presenza di spirito, Franz invece percepisce se stesso come un essere ansioso, titubante, inquieto.
Kafka in cuor suo sa che, se anche il padre fosse stato meno dispotico, meno tirannico, forse il suo carattere non ne avrebbe beneficiato molto, ma l’accusa che rivolge al genitore è quella di non aver mai cercato di provare a comprenderlo, di non aver mai provato, almeno una volta, a capire le sue inclinazioni e le sue ragioni.

Franz Kafka visse tutta la sua esistenza come un escluso, combattuto tra il desiderio di voler partecipare alla vita attiva degli “adulti” ed allo stesso tempo senza volervi mai veramente prendere parte; desideroso in verità di restare ai margini di quella società industriale e commerciale che lo affascinava e al tempo stesso rifiutava sentendola completamente estranea alle sue più profonde inclinazioni.
Colpa e condanna governano le vicende umane, condizioni che divengono tema dominante nei suoi scritti.

L’uomo secondo Kafka è costretto ad un’esistenza sperduta e disperata e, nonostante provi a riscattarsi, i suoi tentativi sono destinati inevitabilmente al totale fallimento.
Kafka stesso si sente uno straniero, un emarginato condannato ad essere per sempre escluso da un’esistenza felice e libera.
Percepisce suo padre come l’uomo dell’autorità, un uomo sicuro di sé, un self made man. Suo padre rappresenta tutto ciò che lui non sarà mai in grado di essere. Ma lo scopo di vita del padre, quello a cui si attiene la maggior parte del mondo degli adulti, non è lo scopo che persegue Franz Kafka.
Kafka avrebbe voluto essere compreso dal padre ma non avrebbe mai voluto far veramente parte di quel suo mondo commerciale che egli sentiva completamente estraneo.
Il padre era un uomo solido, quadrato, intransigente e il giovane Kafka fu irrimediabilmente condannato alla fuga, all’amarezza, all’afflizione e alla lotta interiore, a quel “male di vivere” a cui sono condannati tutti i protagonisti kafkiani.

“Lettera al padre” è un’opera di appena una settantina di pagine che si leggono molto velocemente grazie ad una scrittura scorrevole e piacevole.
Il testo è un testo intimo nel quale Kafka raccontando se stesso al padre, si racconta in prima persona anche al lettore rivelando di possedere una personalità estremamente contemporanea.
In “Lettera al padre” Kafka esprime se stesso, il suo sentire, i suoi sentimenti, le sue angosce, il suo pensiero e tutto ciò rende la lettura di questo scritto una lettura indispensabile per meglio comprendere non solo l’autore Franz Kafka ma tutta la sua produzione letteraria.





sabato 13 maggio 2017

“Il vecchio barone inglese” di Clara Reeve (1729 – 1807)

IL VECCHIO BARONE INGLESE
di Clara Reeve
SuperBEAT
Ambientato nell’Inghilterra di Enrico VI (1421 – 1471), Il vecchio barone inglese (titolo originale dell’opera The champion of virtue, a gothic story, intitolato solo nella seconda versione The Old English Baron), è il libro più famoso di Clara Reeve.
Scritto nel 1777 è oggi considerato un classico della letteratura gotica.

Sir Philip Harclay, dopo una lunga assenza dall’Inghilterra, rientra in patria e al suo ritorno deve purtroppo fare i conti con diversi cambiamenti.
Decide di intraprendere un viaggio per scoprire cosa sia accaduto al suo vecchio amico Lord Lovel dal quale da anni non riceve più notizie.
Giunto al castello dei Lovel apprende la triste notizia che l’amico e la moglie, in attesa del loro primo figlio, sono deceduti anni prima.
Titolo e proprietà di Lord Lovel sono passati a un cugino che, dopo aver vissuto qualche tempo al castello, ha venduto la proprietà al cognato, il barone Fitz-Owen
Al castello il barone vive ora con i suoi tre figli e due suoi nipoti.
Sir Philip Harclay ricevuto con ogni rigurado dal barone Fitz-Owen, fa la conoscenza di un interessante giovane, Edmund Twyford, che questi ha preso a vivere stabilmente in casa.
Edmund, nonostante le sue umili origini, egli è infatti figlio di un contadino, si contraddistingue per la sua intelligenza oltre ad essere un ragazzo brillante e imbattibile nel tiro con l’arco.
All’inizio è ben voluto da tutti, ma con il passare degli anni Edmund cade in disgrazia a causa dell’invidia dei parenti del barone.
Il barone però quando si rende conto che l’astio nei confronti del ragazzo è totalmente ingiustificato, propone che Edmund trascorra tre notti in un’ala abbandonata del castello che si dice sia infestata dai fantasmi prima di lasciare la casa e cercare la sua fortuna altrove.
Proprio in queste stanze però Edmund apprenderà molte cose sul suo passato e sulle sue origini, riportando alla luce un segreto che è ormai tempo che venga svelato.

Vorrei spendere pochissime parole per inquadrare brevemente l’epoca in cui fu scritto il romanzo.
Nel 1765 fu pubblicato il libro che creò il genere gotico ovvero Il castello di Otranto (The castle of Otranto) di Horace Walpole (1717-1797).
Molti furono gli imitatori del genere e tra questi appunto ritroviamo la nostra Clara Reeve la quale, a differenza di Walpole, cercò nonostante l’elemento fantastico di rendere la storia più verosimile possibile e lo vediamo ad esempio nel tentativo di dare delle precise coordinate storiche alla vicenda.
Il vecchio barone inglese ebbe tra l’altro una notevole influenza anche sulla stesura di Frankenstein di Mary Shelley (1797 -  1851).
L’autrice di maggior successo nel genere gotico sarà poi Anne Radcliffle (1764-1823) di cui possiamo ricordare il libro di maggior successo I misteri di Udolpho (The mysteries of Udolpho).

Il personaggio di Edmund Twyford, l’eroe del romanzo, incarna tutti gli ideali della cavalleria cortese: egli possiede senso dell’onore, è un prode, un coraggioso; seguace dei dettami dell’amor cortese tratta con profondo rispetto e deferenza la donna da lui amata, Emma la figlia del barone Fitz-Owen.

La storia del romanzo risulta piuttosto elementare e scontata; i sentimentalismi sono spesso esagerati, il sentimento di pietas poi che caratterizza alcuni personaggi può risultare a volte esasperante agli occhi di un lettore moderno, così come il confidare ciecamente nella Provvidenza con la P maiuscola dei protagonisti può apparire troppo stucchevole.
La verità è che bisogna amare il genere e l’epoca in cui fu scritto il romanzo per apprezzarne davvero lo spirito.

Il libro, tra l’altro molto breve sono appena 150 pagine, racchiude in sé tutti gli elementi del romanzo gotico: un castello buio e spaventoso, atmosfera cupa, il malvagio usurpatore, il giovane eroe ignaro delle sue nobili origini, stanze infestate dai fantasmi.

Per gli appassionati del romanzo gotico è un classico da non perdere che spingerà inevitabilmente il lettore ad andare a scovare altri testi di autori dimenticati dell’epoca.




domenica 2 aprile 2017

“Demelza” di Winston Graham

DEMELZA
di Winston Graham
SONZOGNO
“Demelza” è il secondo episodio della saga che, come già anticipatovi nel mio post dedicato al primo volume “Ross Poldark”, si sviluppa in un arco di tempo che va dal 1783 al 1820. Questa fortunata ed avvincente serie storica è composta da ben dodici romanzi.

Questo secondo episodio inizia con la nascita della bambina di Demelza e Ross, Julia Poldark.
Lo scandalo suscitato dalle nozze del gentiluomo con la bella e brillante figlia di un semplice minatore non si è ancora affievolito.
Demelza, nonostante faccia il possibile per assumere i modi eleganti del suo nuovo rango, fatica a conciliare le sue umili origini con i modi altezzosi della società a cui appartiene il marito.
Non è però nella natura di Demelza arrendersi; lei è una donna forte e,  grazie alla sua capacità di essere flessibile, riesce a trovare sempre la forza ed il coraggio di stare vicina al marito che si trova ora più che mai in difficoltà.
L’industria del rame è sull’orlo del collasso a causa di banchieri senza scrupoli come George Warleggan, i minatori sono ridotti alla fame e dalla Francia soffiano i venti della rivoluzione.
Ross Poldark si trova sull’orlo della bancarotta, ma nonostante il rischio di perdere tutto ciò che ha costruito, decide di sfidare i potenti nel tentativo di riportare giustizia e prosperità nella terra che ama con tutto se stesso.

Spesso accade che, dopo un primo episodio brillante, la storia perda intensità; non è questo il caso di “Demelza”. Il secondo libro della saga nata dalla penna di Winston Graham è perfettamente in linea con il primo volume: appassionante, avvincente e romantico.

Uno dei punti di forza del romanzo è la capacità dell’autore di ampliare il racconto con l’introduzione di nuovi personaggi che interagiscono con i protagonisti.
Queste figure, solo apparentemente secondarie, da un lato riescono a dare vivacità alla narrazione e dall’altro a regalare più ampio respiro alle figure principali.
La storia infatti, grazie a questi nuovi personaggi, non si ripiega mai su stessa, evitando così quello che spesso accade nelle saghe, ovvero un ripetersi monotono della narrazione che vede sempre i medesimi protagonisti al centro di vicende che tendono sempre a ripetersi uguali a se stesse.

La storia di Keren Smith e Mark Daniel, che occupa gran parte del secondo libro, è un chiaro esempio della maestria di Graham di ampliare gli orizzonti della sua storia.
Keren e Martin, pur essendo personaggi apparentemente secondari all’interno della saga dei Poldark, diventano coprotagonisti a tutti gli effetti di questo secondo volume.
Questa loro centralità è inoltre fondamentale per introdurre e delineare il carattere di un nuovo e attraente personaggio che entra a far parte della saga in questo episodio: il dottor Dwight Enys.

Nel secondo volume, grazie al provvidenziale intervento di Demelza, Verity, la cugina di Ross, riesce finalmente a coronare il suo sogno d’amore con il capitano Blamey.
Verity si conferma il personaggio austeniano della saga e forse per questo a me particolarmente caro.

A differenza degli episodi televisivi tratti dalla saga dei Poldark, il libro riesce ad entrare più in profondità nel modo di sentire dei personaggi e a scandagliare meglio il loro animo umano.

Nel libro, ad esempio, si avverte maggiormente l’intensità con cui Ross si sente eternamente diviso tra le due donne della sua vita.
Nonostante l’amore che l’uomo prova per la moglie, la vivace e volubile Demelza, sempre guidata in ogni sua azione dall’istinto, egli non è mai riuscito veramente a dimenticare del tutto il suo primo amore: la bella ed elegante Elizabeth, la donna raffinata, aristocratica, abituata alle comodità e così suscettibile alla fatica.
Ogni volta che le due entrano in contatto Ross non riesce a fare a meno di paragonarle tra loro:

Entrambe avevano qualcosa che all’altra mancava.

Le vicende narrate in “Demelza” si chiudono appena qualche fotogramma prima della conclusione dell’ultimo episodio della prima serie del period drama prodotto dalla BBC (2015).

Come per il primo volume, nonostante il finale rimanga aperto, il libro, al contrario della serie televisiva, non impone al lettore l’obbligo di proseguire la lettura dei volumi successivi.
Nonostante questo però il lettore resterà in trepidante attesa dell’uscita del successivo episodio; troppo difficile, infatti, riuscire a lasciar andare certi personaggi ai quali ci si è inevitabilmente così tanto affezionati.





domenica 5 febbraio 2017

"La marchesa von O. – Il trovatello” di Heinrich von Kleist

LA MARCHESA VON O.
IL TROVATELLO
di Heinrich von Kleist
IL SOLE 24 ORE
Heinrich von Kleist (Francoforte 1777 – Berlino 1811) è considerato uno dei massimi drammaturghi e scrittori vicini al movimento romantico tedesco. Il suo capolavoro più conosciuto è forse il dramma “Il principe di Homburg”. Tra i suoi più celebri racconti invece possiamo ricordare uno tra i tanti  “La marchesa von O.”  di cui parleremo proprio in questo post.
Heinrich von Kleist visse una vita piuttosto travagliata, segnata da una persistente angoscia esistenziale, sempre alla costante ricerca di una illusoria felicità ideale impossibile da raggiungere.
La sua instabilità psichica lo portò a togliersi la vita insieme alla sua amica Henriette Vogel, malata terminale. La uccise infatti con un colpo di pistola, lei consenziente, per poi spararsi egli stesso un colpo alla testa.

L’edizione da me scelta è un volume della collana “I classici della domenica” in uscita con Il Sole 24 ORE.
In realtà il titolo fa riferimento al solo racconto “La marchesa von O.” ma, a sorpresa, terminata la lettura ci si imbatte inaspettatamente in un altro più breve racconto intitolato “Il trovatello”.

“La marchesa von O.” è ambientato in una città del nord Italia di cui l’autore volutamente non riporta il nome, ma ne indica solo la lettera iniziale “M”.
Gli stessi personaggi sono individuati solo attraverso una lettera puntata: il conte F., il signor G., il generale K. e via di seguito. Quasi che la vicenda narrata sia un fatto realmente accaduto e che l’autore voglia salvaguardare la privacy dei protagonisti della storia.
La marchesa, giovane vedova e madre di due bimbi piccoli, ha appena messo un annuncio sul giornale nel quale chiede al padre del bambino che sta aspettando di presentarsi poiché intenzionata a sposarlo.
Un annuncio quanto mai singolare che, oltre a stupire l’opinione pubblica, sfida ogni decoro e regola imposti dalla buona società.
Attraverso la tecnica del flashback l’autore inizia il racconto dell’antefatto che ha portato la marchesa a compiere questo gesto quanto mai singolare.
Qualche mese prima, mentre dimorava presso la fortezza del colonnello, suo padre, scoppiò improvvisamente una guerra ed il bastione venne conquistato dai soldati russi.
Durante l’assalto la marchesa era stata accerchiata da un manipolo di soldati pronti ad usarle violenza, ma questi furono messi in fuga da un ufficiale in comando dei russi, il conte F., che dopo averla condotta in salvo nell’ala destra del palazzo, la lasciò lì svenuta dove venne raggiunta in seguito dalla sue cameriere.
Alla marchesa ed ai suoi familiari venne permesso, come consuetudine in questi casi, di lasciare la fortezza incolume.
Dopo qualche tempo a Giulietta (questo il nome di battesimo della marchesa) ed alla sua famiglia giunse voce che il conte F. era purtroppo morto in battaglia.
Un giorno però egli si ripresentò, nello stupore generale, a casa della marchesa per chiedere la sua mano, impaziente di ottenere risposta positiva e disposto pure a rischiare la corte marziale, disobbedendo agli ordini, pur di non lasciare la casa finché non avesse raggiunto il suo scopo.
Rassicurato sul fatto che nessun altro pretendente sarebbe stato preso in considerazione fino al suo ritorno, si lasciò convincere a partire alla volta di Napoli.
Al rientro però trovò una situazione completamente mutata: la marchesa era stata cacciata di casa, ripudiata dal padre perché in attesa di un figlio illegittimo.
La marchesa, sconvolta dal suo stato, non ricordava assolutamente nulla; da qui il suo sconsiderato gesto di rendere pubblica la sua situazione purché venisse riconosciuta la sua innocenza.
Stranamente proprio il conte F. sembra non far caso a quanto accaduto e a credere all’innocenza della marchesa. E’ infatti lui il padre del bambino e, nonostante la marchesa acconsenta al matrimonio, dovrà passare un anno prima che Giulietta accetti la validità della loro unione.

“Il trovatello” è il secondo racconto del libro. Antonio Piachi, agiato mercante di Roma, parte alla volta di Ragusa, portando con sé il figlio Paolo, avuto dalla prima moglie. Lascia a casa ad attenderlo Elvira, la sua giovane seconda sposa.
Poco prima di arrivare a Ragusa, giunge la voce che la città sta per essere messa in quarantena a causa di un’epidemia.
La paura per l’incolumità del figlio vince su ogni interesse commerciale e Piachi decide quindi di tornare indietro.
Durante il viaggio di ritorno però un ragazzino malato, Nicolò, colpito dalla malattia gli chiede aiuto e quando sviene davanti a lui, Antonio non se la sente di abbandonarlo a se stesso.
Le guardie però li scoprono nell’albergo dove alloggiano e li scortano fino al lazzaretto a Ragusa. Qui si ammalano di peste sia il Piachi che il figlio Paolo, il primo riuscirà a guarire ma il bambino purtroppo non sopravvivrà.
Antonio Piachi torna quindi a casa portando con sé il giovane Nicolò, anch’egli guarito, che viene accolto come un figlio anche dalla sua giovane moglie.
Antonio ed Elvira riversano su di lui l’amore e le speranze che avevano un tempo riposto in Paolo, e sono molto orgogliosi del loro figliolo non fosse per la sua eccessiva passione per le donne e per la sua bigotteria che lo porta sempre più spesso ad intrattenere strette relazioni con il vicino convento dei monaci carmelitani.
Elvira custodisce però un segreto. La donna aveva perso l’amore della sua vita in giovanissima età, era infatti molto legata ad un giovane genovese che, quando lei era appena tredicenne, era rimasto gravemente ferito nell’impresa eroica di salvarla dalle fiamme. Per tre anni Elvira aveva assistito il giovane, dal nome Colino, presso la casa del marchese suo padre, ma nonostante le sue amorevoli cure il giovane morì. Proprio nella casa del marchese, Antonio conobbe Elvira e dopo la morte di Colino decise di portarla via con sé e sposarla.
Elvira non dimenticherà mai Colino tanto da tenerne un’immagine a grandezza naturale nella sua stanza.
Un giorno, al ritorno da una delle sue fughe notturne, Nicolò rientra abbigliato da antico patrizio genovese e la sua somiglianza con Colino è talmente forte che la povera Elvira crede che questi sia  tornato dal regno dei morti.
Nicolò scopre così il segreto della donna e, desideroso di vendicarsi perché crede che questa voglia allontanarlo dalle grazie di Antonio, decide di giocarle un brutto tiro.
In realtà il padre adottivo che a lui aveva intestato ormai tutto, cerca il modo di tornare sui suoi passi, non perché sobillato da Elivia, ma semplicemente perché irritato dalla condotta immorale del figlio.
Nicolò una sera cerca di approfittare della madre adottiva, ma viene colto sul fatto dal padre.
I genitori vorrebbero cacciarlo da casa, ma lui andandosene gli ricorda che in realtà ormai è lui il solo proprietario di tutti i loro beni.
Elvira muore a seguito della disperazione provata quella notte e Piachi, sconvolto dagli avvenimenti e dal fatto che lo stesso magistrato abbia dato ragione a Nicolò riguardo alle proprietà, affronta il figlio e lo uccide.
Condannato a morte, Antonio Piachi, arriverà addirittura a rinunciare per tre giorni all’assoluzione pur di essere sicuro di poter incontrare nuovamente il figlio adottivo all’inferno dove è sicuro che questi sia andato.

I racconti sono caratterizzati da una prosa scorrevole, frasi brevi e abbondanza di dialoghi. In entrambi Von Kleist usa sapientemente la tecnica del flashback: nel primo per narrare l’antefatto che ha portato la protagonista a mettere l’annuncio sul giornale e nel secondo per ricordare la vicenda di Elvira tredicenne.

“La marchesa von O.” affronta un argomento gradito all’autore ovvero il conflitto tra la rigida morale borghese ed il mondo delle passioni umane. La marchesa rimuove ciò che le è accaduto perché essa stessa vittima delle convezioni sociali, la colpa commessa è talmente grave da non poterne sopportare il peso.
Pur di riuscire a riabilitare se stessa però trova il coraggio di compiere un gesto estremo, scegliendo il rischio di compromettere irrimediabilmente la sua reputazione.
Lo stesso conte F., vittima di quelle stesse ipocrite convenzioni, ha un solo pensiero ovvero quello di sanare l’errore commesso attraverso un matrimonio riparatore.
Il tema affrontato fa von Kleist è il tema del contrasto tra le passioni forti e la razionalità; non c’è posto per il sentimento, perché in un mondo dove regna sovrana la rigida e bigotta morale borghese, dove l’ipocrisia fa da padrona, tutto deve esser ridotto al raziocinio ed alla forma.
Il racconto ha però uno sviluppo divertente e leggero e, nonostante la tematica, il risultato è una piacevole avventura al limite del credibile e dal finale piuttosto prevedibile.

“Il trovatello” invece ricorda molto le novelle boccaccesche, vuoi per la presenza della peste, vuoi per la stessa storia dell’amato morto la cui immagine Elvira tiene nella sua camera, quasi una novella Lisabetta da Messina che sospira sul vaso di basilico dove è sepolta la testa del suo Lorenzo.
Ma questa novella rivela molto di più del suo autore: per esempio ci fa capire  quanto la cultura classica abbia influenzato von Kleist.
Come non ricordare ad esempio il mito greco di Pigmalione? Egli scolpì la statua di Galatea innamorandosene perdutamente e, solo grazie all’intervento divino di Afrodite che le fece prendere vita, Pigmalione riuscì a coronare il suo sogno d’amore e sposare la sua fanciulla.
Nonostante la brevità della novella lo studio psicologico dei protagonisti è davvero moto accurato, vedi ad esempio le reazioni nervose che bloccano Elvira, il modo di elaborare il lutto per la perdita del figlio Paolo trasponendo l’amore per questi sul trovatello Nicolò, il rapporto di amore-odio che Nicolò prova nei confronti della madre adottiva.

L’indagine psicologica dei personaggi è il punto di forza delle opere di von Kleist. In entrambi i racconti i sentimenti ed i comportamenti dei protagonisti vengono studiati ed analizzati fin nei minimi particolari. Egli è ossessionato dalla mente umana e dalla sua follia, così come dai contrasti e dall’illusorietà della vita.
Ossessione che, non dimentichiamo, lo porterà a compiere un gesto estremo quale il suicidio.

“La marchesa von O.” al contrario de “Il trovatello” ha un esito positivo. Ai personaggi del primo racconto è concesso infatti il lieto fine: Giulietta è una donna forte che riesce a ribaltare la situazione a suo favore e ad uscirne vincitrice.
Nel secondo racconto non c’è invece salvezza per nessuno, né in questo mondo né nel al di là; addirittura Piachi vuole seguire Nicolò all’inferno.

Nonostante “La marchesa von O.” sia uno dei racconti più famosi di von Kleist “Il trovatello” è secondo me un racconto più riuscito rispetto al primo.
L’esito positivo della prima vicenda, il voler far credere al lettore che esista sempre una via d’uscita nella vita, sembra quasi una forzatura da parte dell’autore che ho avvertito più vero nel finale senza speranza e cupo del secondo racconto, un finale che sembra decisamente più vicino alle sue corde.

Heinrich von Kleist è un genio tormentato il cui modo di sentire e la sua familiarità con quel male di vivere così contemporaneo, lo fa risultare un autore moderno nonostante la sua data di nascita risalga a più di due secoli fa.





lunedì 26 dicembre 2016

“Il Principe” Niccolò Machiavelli (1469 – 1527)

IL PRINCIPE
di Niccolò Machiavelli
versione in italiano contemporaneo
di Piero Melograni
OSCAR MONDADORI 
Niccolò Machiavelli, storico, scrittore, drammaturgo, politico e filosofo italiano, è considerato il fondatore della scienza politica moderna.

Nato nel 1469, anno in cui Lorenzo il Magnifico divenne signore di Firenze, Machiavelli visse in un’epoca straordinariamente florida per la sua città.

Compose “Il Principe” nel 1513 quando, con il ritorno dei Medici a Firenze, accusato di aver preso parte alla congiura ordita da Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, fu allontanato dagli incarichi pubblici.

L’opera doveva essere dedicata in un primo momento a Giuliano de’ Medici, ma dopo la morte di questi sopraggiunta nel 1516, venne dedicata a Lorenzo de’ Medici, figlio di Piero de’ Medici  e omonimo del famoso Lorenzo il Magnifico.

“Il Principe” fu divulgato per circa vent’anni esclusivamente sotto forma di manoscritto e vide la stampa per la prima volta solo nel 1532, cinque anni dopo la morte del suo autore.

Nel 1552 l’opera era inclusa nel primo “Indice” dei libri proibiti dalla Chiesa.

L’opera si apre con la dedica a Lorenzo de’ Medici, nella quale Niccolò Machiavelli, con la speranza di non essere accusato di presunzione, dichiara la sua intenzione di voler mettere al servizio del Principe la sua conoscenza della dottrina politica, frutto di studi attenti e meticolosi eseguiti operando confronti tra le vicende antiche e quelle contemporanee.

Il libro è diviso in 26 capitoli. Ogni capitolo affronta un argomento specifico con l’intento di tracciare quelle linee guida necessarie al Principe per poter raggiungere il potere, esercitarlo nel migliore dei modi e soprattutto mantenerlo a lungo.

Sono evidenziati i vari tipi di principati (ereditari, misti, civili, ecclesiastici), i rapporti che intercorrono tra il principe e i propri eserciti (propri, mercenari, ausiliari, misti), i metodi per conquistare un principato e infine le qualità del Principe, le doti che devono essere sue proprie così come le capacità, i comportamenti da tenere e i sentimenti che il Principe deve essere in grado di suscitare nei sudditi.

Riuscire a riassumere il tutto in un semplice post di sole poche righe è davvero impresa impossibile e, ancora più impensabile, sarebbe riuscire a sviscerare ogni argomento a livello storico e letterario che quest’opera inevitabilmente ci pone innanzi.

Per questo preferisco lasciare alle varie antologie e agli assai numerosi saggi la trattazione più rigorosa e critica dell’argomento e portare invece alla vostra attenzione altri aspetti, primi tra tutti il valore di questa bella versione de “Il Principe” edita da Mondadori e pubblicata per la prima volta da Rizzoli nel 1991.

Piero Melograni (1930 – 2012) è autore sia dell’introduzione sia della versione del trattato di Machiavelli in italiano contemporaneo.

Il lettore è solito accostarsi agli scritti del Machiavelli leggendolo nella sua propria lingua ovvero il fiorentino cinquecentesco, lingua alquanto ostica per la maggior parte dei contemporanei.
In questa edizione invece il testo italiano a fronte rende decisamente più fruibili i contenuti facilitando il lettore nella comprensione degli stessi.
Il mio vivo consiglio però è sempre quello di leggere prima il capitolo in versione originale, per non perdere nulla della piacevole, concreta ed avvincente scrittura del Machiavelli.

L’introduzione affascinante e coinvolgente, scritta da Melograni, è la premessa ideale per avvicinarci al testo.

Piero Melograni, grazie alla sua straordinaria capacità di sintesi, è riuscito in poco meno di una trentina di pagine a riassumere gli aspetti principali della vita privata e politica del Machiavelli e, nello stesso tempo, a darci un quadro completo della fortuna delle sue opere e di come il suo pensiero abbia influenzato quello dei posteri nel corso dei secoli.

Ricorda inoltre come Jean-Jacques Rousseau nel suo “Contratto sociale” ritenesse il Machiavelli semplicemente un “buon cittadino” che aveva usato un artifizio per dare una lezione ai poveri, ovvero che il suo vero intento non fosse quello di ingraziarsi il Principe, ma piuttosto quello di mettere in guardia il popolo dalle miserie e dalle malefatte dei potenti.

L’intento vero di Niccolò Machiavelli in realtà era quello scaturito dal piacere di spiegare le regole della politica e formulare tesi che nessuno prima di lui aveva enunciato con tanta chiarezza e coraggio, senza ovviamente tralasciare l’idea di far cosa gradita, con il suo omaggio, a Lorenzo de’ Medici così da poter tornare quanto prima alla vita politica attiva.

Perché rileggere “Il Principe”? A costo di essere scontata e banale, non posso che rispondere: perché è un classico sempre attuale, un trattato profondo, inquietante ed estremamente “vero”.

Rileggendolo si ritrova tutta la forza e il fascino di un Machiavelli che purtroppo, nello studio scolastico, tende troppo spesso a ridursi a una mera sequenza di frasi fatte.

Rileggendolo avrete modo di fare vostri molti concetti che, alla luce di un percorso scolastico completo e grazie alle esperienze di vita vissute nel corso degli anni, assumeranno accezioni completamente diverse e molto più profonde.

Ho letto per la prima volta “Il Principe” all’età di 13 anni e questa rilettura è stata per certi versi una vera sorpresa. Ad una così giovane età non mi ero ovviamente soffermata sugli esempi storici che sono una parte importante del trattato, ma troppo noiosi per una ragazzina; sono quindi rimasta molto stupita da quanto alcuni concetti fossero rimasti, senza che me fossi mai resa conto, così radicati nella mia mente.

Ho letto molti libri da allora e alcuni li ricordo con estremo piacere, ma nessuno come “Il Principe” credo abbia attecchito così profondamente nella mia mente da lasciare, a distanza di numerosi anni, un’eco così forte dei suoi insegnamenti.

“Il Principe” è un libro da leggere lentamente per avere il tempo di assimilarne meglio i concetti e le idee.
E' una di quelle opere da leggere più volte  nel corso degli anni e perché no? magari tenerne una copia sul comodino per rileggerne un passo ogni tanto.

E’ necessario che un principe sappia servirsi
dei mezzi adatti sia alla bestia sia all’uomo.
Il principe è dunque costretto a saper essere bestia
e deve imitare la volpe e il leone.
Dato che il leone non si difende dalle trappole
e la volpe non si difende dai lupi,
bisogna essere volpe per riconoscere le trappole,
e leone per impaurire i lupi.

martedì 1 novembre 2016

“Amo la notte con passione” Guy De Maupassant

AMO LA NOTTE CON PASSIONE
di Guy De Maupassant
IL SOLE 24 ORE
Guy De Maupassant (1850 – 1893) è autore conosciuto soprattutto per i suoi romanzi, tra cui forse i più famosi sono Una Vita e Bel-Ami.
L’erede spirituale di Flaubert in realtà fu anche un prolifico autore di racconti, sono infatti più di trecento quelli che vennero pubblicati.

“Amo la notte con passione” è una raccolta di sei brevissimi racconti che, come si evince dal titolo stesso, hanno in comune l’ambientazione notturna.

“La notte” primo racconto con cui si apre la raccolta inizia con una dichiarazione d’amore alle ore notturne:

Amo la notte con passione. L’amo come si ama il proprio paese o la propria amante, d’un amore istintivo, profondo, invincibile. L’amo con tutti i miei sensi, con i miei occhi che la vedono, il naso che la respira, le orecchie che ne ascoltano il silenzio, con tutto il mio corpo che le tenebre accarezzano.

La notte ammalia il protagonista del racconto che vaga affascinato per le strade della città sedotto dalle mille luci dei caffè concerto.
Quando però le luci dei lampioni vengono spente, egli si ritrova solo per le buie e solitarie vie di Parigi e tutto improvvisamente muta.
Egli avverte su di sé tutto il peso della solitudine e mentre passeggia lungo la Senna, sente salire il freddo glaciale dall’acqua, e capisce che non sarà mai più in grado di trovare la forza di risalire.

“La solitudine” è il tema della seconda storia. Due amici dopo un’allegra cena tra uomini, decidono di fare una passeggiata prima di tornare a casa. Complice la notte, l’uno rende partecipe l’altro dei suoi pensieri sulla sua solitudine e sulla condizione umana.
L’uomo è un essere isolato, infelice;  con l’amore si illude di poter trovare conforto in un altro essere, si aggrappa a lui con forza, ma è tutto inutile, tutto si riduce alla fine solo ad una vana illusione.
Come Flaubert scrisse ad un’amica ”Siamo tutti in un deserto. Nessuno capisce nessuno”, così il protagonista del racconto:

Ebbene, allo stesso modo l’uomo non sa cosa succede in un altro uomo. Noi siamo lontani gli uni dagli altri più di quegli astri, e più isolati, soprattutto, perché il pensiero è impenetrabile.

Ma la vita umana non è solo incomunicabilità e solitudine, ma anche infinita monotonia.

Lerac è il protagonista del terzo racconto dal titolo “Passeggiata”.
Egli è un anziano contabile, sono quarant’anni che fa lo stesso lavoro nello stesso negozio. Da quarant’anni trascorre tutte le sue giornate nello stesso stanzino buio e cupo anche in piena estate.
Una sera come tante, dopo aver chiuso il negozio, decide di fare una passeggiata. Nella sua solitudine inizia a ripercorre con la mente la sua esistenza e si rende conto con raccapriccio che la sua vita è stata un’esistenza monotona, ogni giorno uguale all’altro, senza emozioni, senza avvenimenti, senza speranze, senza amore.

E di colpo, come se un fitto velo si fosse strappato, Leras si rese conto della miseria, dell’infinita e monotona miseria della sua esistenza: la miseria passata, quella presente e quella futura; vedeva gli ultimi giorni uguali ai primi, senza niente davanti a sé, niente dietro di sé, niente attorno a sé, niente nel cuore, niente ovunque.

Lerac verrà trovato impiccato al mattino ad un ramo di un albero.

Il quarto racconto si intitola “Una serata a Parigi”. Dei sei racconti che compongono la raccolta è quello goliardico e spiritoso.
Protagonista del racconto è Savan, notaio a Vernon, appassionato di musica e amante della vita di Parigi, sempre a caccia di eventi mondani e della possibilità di conoscere personaggi famosi del mondo della letteratura, della musica e della pittura.
Un giorno riesce a farsi invitare ad una festa da un famoso pittore, ma la serata che prometteva per lui ogni sorta di gioia e delizia, si trasformerà in un’amara delusione. Invece di tornare a casa soddisfatto ed orgoglioso, Savan vi farà ritorno ferito nell’orgoglio e della dignità.

Protagonista del quinto racconto intitolato “Un’avventura parigina”, è una giovane donna, calma solo in apparenza, che trascorre le sue giornate tra le mura domestiche prendendosi cura della casa, del marito e dei figli.
La donna è un’avida lettrice di articoli di cronaca mondana e sogna incessantemente “un’avventura parigina”; poter prender parte a “quell’apoteosi di lusso magnifico e corrotto” è il suo più grande desiderio.
Ma proprio perché i sogni a volte si avverano, la donna riuscirà a coronare il suo e la sua grande occasione avrà le sembianze del famoso scrittore Varin.
Come spesso accade quando si ottiene quello che tanto a lungo si è desiderato, la delusione per la realtà avrà il sopravvento, la donna tornerà nel suo appartamento di provincia e, non appena nella sua stanza, scoppierà in singhiozzi.

Ho voluto conoscere il… il vizio… e… e insomma, non è divertente.

Chiude la raccolta il racconto intitolato “I boulevard”: una cronaca delle strade di Parigi e dei suoi abitanti, brevi frammenti di vita vissuta.

Grazie alla sua magistrale capacità di creare atmosfere, Guy De Maupassant ci regala profonde emozioni con le descrizioni della notte e della città di Parigi.
In questi racconti l’autore dimostra tutta la sua abilità nell’indagare l’animo umano porgendoci una visione tormentata e travagliata della condizione umana.
Attraverso i suoi racconti inoltre leggiamo la forte denuncia della società borghese e della cupidigia e crudeltà degli uomini.

Con questi racconti Guy De Maupassant si rivela essere un autore molto moderno, l’indagine dei malesseri dell’uomo ottocentesco che egli indaga sono infatti gli stessi dell’uomo di oggi.