sabato 31 marzo 2012

"Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo


Ugo Foscolo (1778 - 1827)

L’idea del romanzo risale al 1796 e la pubblicazione della prima versione con il titolo “Laura, lettere” inizia nel 1798. Nel 1799 Foscolo sconfessa però questa prima stampa e la prima edizione completa vedrà la luce nel 1802, anch’essa in seguito lungamente rivista ed aggiornata nelle versioni successive del 1816 e del 1817.
Considerato il primo romanzo epistolare della letteratura italiana, l’opera ebbe come modelli la “Nuova Eloisa” di Rosseau e “I dolori del giovane Werther” di Goethe.
La vicenda trae origine da un fatto realmente accaduto (il suicidio di uno studente universitario, Girolamo Ortis) poi rielaborato sulla base delle esperienze biografiche del Foscolo: i suoi innamoramenti, le sue crisi politiche ed esistenziali, le peregrinazioni attraverso l’Italia contesa e tradita dagli stranieri.

Jacopo Ortis, un giovane intellettuale veneto, costretto dopo il trattato di Campoformio (1797) a fuggire da Venezia, scrive dall’esilio le sue dolorose vicende all’amico Lorenzo Alderani, l’immaginario “editore” delle sue lettere postume.
Jacopo si rifugia sui Colli Euganei dove conosce un altro esule, il signor T***, e si innamora, ricambiato, della figlia di quest’ultimo, Teresa.

L’ho veduta ,o Lorenzo, la Divina Fanciulla

Non sono felice! Mi disse Teresa; e con questa parola mi strappò il cuore.
(…) Non sono felice! Io aveva concepito tutto il terribile significato di queste parole, e gemeva dentro l’anima, veggendomi innanzi la vittima che doveva sacrificarsi a’ pregiudizi ed all’interesse.

La ragazza è però già promessa sposa ad Odoardo, un giovane onesto e ricco ma privo di ogni slancio emotivo.

Buono – esatto – paziente! E nient’altro? Possedesse queste doti con angelica perfezione, s’egli avrà cuore sempre così morto, e quella faccia magistrale non animata mai né dal sorriso dell’allegria, né dal dolce silenzio della pietà, sarà per me uno di que’ rosaj senza fiori che mi fanno temere le spine. Cos’è l’uomo se tu lo abbandoni alla sola ragione fredda, calcolatrice?

Odoardo sa di musica; giuoca bene a scacchi; mangia, legge, dorme, passeggia, e tutto con l’oriuolo alla mano.

C. D. Friedrich
 Un uomo e una donna che guardano la luna 
1824, Berlino, Nationalgalerie 
Quello tra Jacopo e Teresa è un amore lacerante, emotivamente irrazionale, intenso e romantico, ma nonostante il forte sentimento che li unisce, il loro è un amore impossibile.
Il padre di Teresa non può accettare quest’unione, nonostante stimi molto Jacopo e lo ritenga un ragazzo colto, intelligente, capace di grandi passioni, deve tener conto che l’esistenza di quest’ultimo è un’esistenza inerte fatta di dubbi sociali ed esistenziali.
Le persecuzioni della polizia austriaca e le pressioni continue del signor T*** costringono Jacopo a partire ed ad allontanarsi così dalla donna amata, unico conforto per la sua disperazione politica.
Ortis inizia a viaggiare senza meta per tutta l’Italia: Bologna, Firenze, Roma, Milano, Genova... ovunque vede la tragedia dell’oppressione straniera e non riesce a trovare alcuna consolazione.

(…) e il domani viene, ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre più questo stato di esilio e di solitudine.

Così noi tutti Italiani siamo fuoriusciti e stranieri in Italia: e lontani appena dal nostro territoriuccio, né ingegno, né fama, né illibati costumi ci sono di scudo: e guai se t’attenti di mostrare un dramma di sublime coraggio! (…) Spogliati dagli uni, scherniti dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da’ nostri medesimi concittadini, i quali anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari tutti quegl’Italiani che non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le stesse catene.

Quando apprende la notizia del matrimonio di Teresa con Odoardo, decide di tornare in Veneto per rivederla un’ultima volta.
Jacopo, recandosi a casa del signor T***, lo incontra mentre passeggia con la figlia e il genero ma i saluti sono freddi e distaccati.
Ormai deluso dall’amore, dalla vita, dalla politica e dai suoi compatrioti si uccide pugnalandosi al petto e trovando così la liberazione nell’unico modo ormai per lui possibile.

Lo seppi: Teresa è maritata. Tu taci per non darmi la vera ferita – ma l’infermo geme quando la morte il combatte, ma non quando lo ha vinto.

Veggo la meta: ho già tutto fermo da gran tempo nel cuore – il modo, il luogo – né il giorno è lontano.
Cos’è la vita per me? il tempo mi divorò i momenti felici: io non la conosco se non nel sentimento del dolore: ed or anche l’illusione mi abbandona – medito sul passato; m’affiso su i dì che verranno; e non veggo che nulla.

Pentimenti sul passato, noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita: La sola morte, a cui è commesso il sacro cangiamento delle cose, promette pace.

Ultime lettere di Jacopo Ortis
(Mondadori , 2010 Cles TN)
Non c’è uno sviluppo avvincente nello svolgersi del romanzo, la vera sostanza del racconto sono le riflessioni del protagonista, alter ego del Foscolo, ed una compiaciuta autocommiserazione, tratto tipico del romanticismo.
“Ultime lettere di Jacopo Ortis” è un libro per appassionati di letteratura romantica, per idealisti sensibili e per utopisti.
Non si può che rimanere sorpresi davanti alla triste attualità di alcune meditazioni del Foscolo:
                           
Questa università è per lo più composta di professori orgogliosi e nemici fra loro, e di scolari dissipatissimi. Sai tu perché fra la turba de’ dotti gli uomini sommi sono così rari?

Nella società si legge molto, non si medita e si copia; parlando sempre si svapora quella bile generosa che fa sentire, pensare, e scrivere fortemente: per balbettar molte lingue, balbetta anche la propria, ridicoli a un tempo agli stranieri e a noi stessi:dipendenti dagl’interessi, dai pregiudizi, e dai vizj degli uomini fra’ quali si vive, e guidati da una catena di doveri e di bisogni, si commette alla moltitudine la nostra gloria, e la nostra felicità: si palpa la ricchezza e la possanza, e si paventa perfino di essere grandi perché la fama aizza i persecutori, l’altezza di animo fa sospettare i governi; e i principi vogliono gli uomini tali da non riuscire né eroi, né incliti scellerati mai.

venerdì 23 marzo 2012

"La sovrana lettrice" di Alan Bennett


"La sovrana lettrice", Alan Bennett
Adelphi (2007- Cusano MI)
“La sovrana lettrice” (titolo originale “The Uncommon Reader”) è un racconto di circa un centinaio di pagine ironico e piacevole.
Alan Bennett, con il suo consueto stile brioso e conciso, ci regala un romanzo brillante e originale; un libro davvero godile e divertente.

Fu tutta colpa dei cani. Di norma, dopo aver scorazzato in giardino salivano da veri snob i gradini dell’ingresso principale, e generalmente li faceva entrare un valletto in livrea.
E invece quel giorno, per qualche ragione, si precipitarono di nuovo giù dai gradini, girarono l’angolo e la regina li sentì abbaiare a squarciagola in uno dei cortili.
La biblioteca circolante del distretto di Westminster, un grande furgone come quelli dei traslochi, era parcheggiata davanti alle cucine.

Da qui prende via il racconto che vede come protagonista Elisabetta II d’Inghilterra nei panni della “sovrana lettrice” la quale, del tutto casualmente, scopre il piacere della lettura. Piacere che diventa ben presto un’ossessione ed il tempo trascorso senza leggere diventa irrimediabilmente perso. Assistiamo così a tutta una serie di scene esilaranti nelle quali Elisabetta cerca di nascondere il vizio della lettura, affinando la sua abilità a parlare in pubblico o a salutare la folla mentre i suoi occhi cadono sulla pagina del libro.
Il rapporto con la lettura diviene talmente travolgente ed incontrollabile che per la regina diventa sempre più difficile mantenere un equilibrio tra questa passione e gli impegni ufficiali, mentre l’intera corte è gettata nello scompiglio e la nazione inizia a preoccuparsi.

Certamente, –  disse  la regina – ma ragguagliare non è leggere. Anzi, è l’esatto contrario. Il raggiungimento è succinto, concreto e pertinente. La lettura è disordinata, dispersiva e sempre invitante. Il ragguaglio esaurisce la questione, la lettura la apre.

Passare il tempo? – esclamò la regina. I libri non sono un passatempo. Parlano di altre vite. Di altri mondi.

Un libro è un ordigno per infiammare l’immaginazione.

Ad un certo punto però la situazione precipita, Elisabetta si rende conto che leggere e prendere appunti non è più sufficiente.

Leggere non avrebbe cambiato le cose… Scrivere magari sì.
Dovendo rispondere alla domanda se la lettura le avesse arricchito la vita, avrebbe risposto di sì, salvo aggiungere con altrettanta certezza che l’aveva vuotata di qualsiasi scopo. In passato era stata una donna risoluta che conosceva i suoi doveri e intendeva compierli fin quando possibile. Adesso si sentiva troppo spesso scissa in due. Leggere non era agire, quello era il problema. Anche a ottant’anni, lei era una donna d’azione.
Riaccese la luce, prese il taccuino e annotò: “Non si mette la vita nei libri. La si trova”.

Dopo le innumerevoli letture confuse e disordinate Elisabetta alla fine raggiungerà una più profonda conoscenza di sé e, fatto un bilancio della sua vita, arriverà a compiere un gesto estremo ed inaspettato.

A volte mi sono sentita come una candela mangiafumo mandata qua è là per profumare delle dittature: al giorno d’oggi la monarchia è solo un deodorante governativo.
Io sono la regina d’Inghilterra, ma negli ultimi cinquant’anni me ne sono vergognata spesso.

Consiglio questo racconto a tutti coloro che amano leggere, a coloro ai quali piace l’odore delle vecchie pagine ingiallite così come quello delle pagine fresche di stampa, a tutte quelle persone che quando arrivano all’ultima pagina di un buon libro si sentono perse e smarrite come se avessero perso un amico…

sabato 17 marzo 2012

“Una storia tra due città” di Charles Dickens


Charles Dickens (1812 – 1870) scrisse soltanto due romanzi storici “Barnaby Rudge” (1841) e “A Tale of Two Cities” pubblicato a puntate nel 1859.
Ambientato tra Parigi e Londra nel burrascoso periodo che va dagli anni immediatamente precedenti alla rivoluzione francese ed il regno del Terrore, “Una storia tra due città” narra le vicende private di un gruppo di persone attraverso un susseguirsi di colpi di scena.
Sebbene l’ambientazione differisca notevolmente dall’Inghilterra vittoriana tipica dei romanzi di Dickens, questo romanzo contiene tutti i temi classici dell’opera dickensiana: la povertà, la nobiltà d'animo, il riscatto e il sacrificio.
L’incipit del romanzo chiarisce immediatamente il collegamento tra il passato che sta per essere raccontato ed il presente che viene vissuto:

Erano i giorni migliori, erano i giorni peggiori, era un’epoca di saggezza, era un’epoca di follia, era tempo di fede, era tempo di incredulità, era una stagione di luce, era una stagione buia, era la primavera della speranza, era l’inverno della disperazione, ogni futuro era di fronte a noi, e futuro non avevamo, diretti verso il paradiso, eravamo incamminati nella direzione opposta. A farla breve, era quello un tempo così simile al nostro che alcune fra le voci più autorevoli, quelle che più strillavano, insistevano a giudicarlo, nel bene e nel male, solamente per superlativi.

Dickens lancia attraverso il tempo passato, un monito al tempo presente in cui è ancora viva la minaccia della ripetizione dell’antico. Si deve, infatti, tener conto che nel 1859 (anno di pubblicazione del romanzo) è ancora ben vivo il ricordo dei tumulti e delle agitazioni dovute all’approvazione della Corn Law e quello dei moti rivoluzionari a seguito del movimento cartista, che con la sua richiesta di una radicale riforma elettorale, rievocava i fantasmi del Terrore francese.
Per Dickens la rivoluzione è una malattia, è febbre e delirio di autodistruzione il cui contagio si propaga a velocità spaventosa.
La società è continuamente minacciata a causa degli squilibri della distribuzione della ricchezza e la folla sottoposta a continui soprusi diventa facilmente crudele e incontrollabile:

a quel tempo la folla era un mostro molto temuto e che non si fermava davanti a nulla

Tra le molteplici vicende umane che si intrecciano in queste pagine spiccano quelle di Lucie Manette, donna virtuosa, che ispira amore e lealtà negli altri personaggi e quelle di suo padre, un medico ingiustamente incarcerato.
Il romanzo è soprattutto la storia del Dottor Alexandre Manette: la storia inizia, infatti, con il suo rilascio dalla Bastiglia e alla fine sarà proprio la lettura della sua lettera che, per un destino beffardo, decreterà la condanna a morte del genero Darnay, obbligando così Sydney Carton a sacrificare la propria vita.
Alexandre Manette, dottore di belle speranze in gioventù, è uno dei personaggi più complessi del racconto: da prigioniero che medita vendetta - attraverso un difficile percorso che alterna follia e lotta contro i propri fantasmi – riesce alla fine, per amore della figlia e della nipote, a mettere da parte l’odio e la rabbia e diventare egli stesso simbolo di perdono.
La tematica del “dualismo” si avverte in diversi personaggi: Lucie filo d’oro della vità di famiglia è contrapposta a Madame Defarge che lavora a maglia il filo dell’odio. Lucie, avrebbe le stesse ragioni di rancore di Madame Defarge, la cui famiglia è stata sterminata dall’arroganza e dalla prepotenza aristocratica, ma Lucie incarna la quintessenza dell’ideale femminile piccolo-borgese (dolcezza, amore e compassione). Madame Defarge, sanguinaria e vendicativa, è l’incarnazione di una femminilità sfigurata, è l’incarnazione della rivoluzione stessa e della perversione.
Il marito di Lucie, Charles Darnay (giustizia e senso del dovere), aristocratico francese espatriato in Inghilterra, indiscriminatamente accusato durante il Terrore, è il doppio di Sydney Carton, personaggio dalla vita dissoluta e dedito all’alcol. Carton riscatterà la sua apatica esistenza sacrificando la sua vita per amore di Lucie e della sua famiglia, diventando così un “eroe”.
Tema ricorrente è dunque anche quello della rinascita, della resurrezione: il Dottor Manette, Sydeny Carton e Darnay/Evrémonde sono tutti personaggi che sono stati “richiamati alla vita” anche se in modi diversi.
Lo stesso Jerry Cruncher, figura minore nell’economia del racconto, diviene forte simbolo di redenzione quando, pentendosi, rinuncerà al furto di cadaveri al quale era dedito riconciliandosi con la religione.
Considerato da Dickens stesso uno dei suoi romanzi più riusciti,  “A Tale of Two Cities” è un testo che appassiona fin dalla prima pagina per il suo mescolare verità storica e finzione.


Bibliografia
Dickens Charles, Una storia tra due città, Ed. Mondadori (2012 Cles -TN)
Mario Domenichelli, Introduzione in Dickens Charles, Una storia tra due città, Ed. Mondadori (2012 Cles -TN)




sabato 10 marzo 2012

A se stesso (Giacomo Leopardi)


Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l'inganno estremo,
Ch'eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, nè di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T'acqueta omai. Dispera
L'ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l'infinita vanità del tutto.
(XXVIII, Canti)

 “A se stesso” chiude il gruppo di componimenti a cui appartiene il cosiddetto “ciclo di Aspasia” ispirato dalla passione intensa e non corrisposta da parte del poeta per Fanny Targioni Tozzetti, una nobildonna conosciuta durante un soggiorno a Firenze.
Le liriche appartenenti a questo ciclo sono tipiche della poesia anti-idilliaca dell’ultimo periodo della poetica leopardiana; in esse viene meno il tono elegiaco degli idilli suggerito dalla dolcezza dei ricordi e della giovinezza e si afferma un tono più energico, eroico e di ribellione. Il poeta raggiunge la consapevolezza della propria dignità morale che lo porta ad assumere coraggiosamente la propria condizione di uomo e contrapporla al mondo cieco e crudele della natura.

Il componimento rappresenta il congedo da ogni illusione e dalla vita stessa. L’ultima e disperata illusione di potersi aggrappare alla vita attraverso l’amore espressa da Leopardi nella lirica “Il pensiero dominante” è svanita per sempre. Il disinganno porta con sé il crollo dell’ultima speranza del poeta - Perì l'inganno estremo, Ch’eterno io mi credei - quella felicità in terra che per un istante l’amore appassionato per Fanny Targioni Tozzetti gli aveva fatto credere possibile.
Leopardi senza un attimo di commozione, attraverso un ritmo martellante e aspro, invita il suo cuore a non cedere mai più alle lusinghe dell’amore e procedendo con una brevità epigrafica, fatta di dichiarazioni nichilistiche - Amaro e noia La vitae fango è il mondo – gli chiede di rinunciare definitivamente ad ogni speranza poiché la natura, il potere malvagio e invisibile – a comun danno impera – mentre – l’infinita vanità del tutto – si allarga a dismisura.
“Vanitas vanitatum et omnia vanitas” (Ecclesiaste 1,2) è la locuzione a cui si richiama l’ultimo verso del componimento della lirica: ma mentre nell’Ecclesiaste l’invito è a disprezzare le cose terrene per volgere lo sguardo verso quelle divine, in Leopardi diventa espressione della consapevolezza della vanità delle illusioni che sono negate agli uomini dalla natura, per cui alla vita è preferibile il nulla eterno.

sabato 3 marzo 2012

Bright Star (John Keats)


Bright star! Would I were stedfast as thou art— 
Not in lone splendour hung aloft the night
And watching, with eternal lips apart,
Like nature's patient, sleepless Eremite,

The moving waters at their priestlike task
Of pure ablution round earth's human shores,
Or gazing on the new soft-fallen mask
Of snow upon the mountains and the moors—

No—yet still stedfast, still unchangeable,
Cheek-pillow'd on my fair Love's ripening breast,
To touch, for ever,  its wam sink and swell,
Awake for ever in a sweet unrest,

Still, still to hear her tender-taken breath,
And so live ever—or else swoon to death.


Fulgida stella, come tu lo sei
fermo foss'io, non in solingo
splendore alto sospeso nella notte
con rimosse le palpebre in eterno
a sorvegliare come paziente
ed insonne Romito di natura
le mobili acque in loro puro ufficio
sacerdotale di lavacro intorno
ai lidi umani della terra, oppure
guardar la molle maschera di neve
quando appena coprì monti e pianure.
No, - eppur sempre fermo, sempre senza
mutamento sul vago seno in fiore
dell'amor mio, come guanciale; sempre
sentirne il su e giù soave d'onda, sempre
desto in un dolce eccitamento
a udire sempre sempre il suo respiro
attenuato, e così viver sempre,
- o se no, venir meno nella morte.


La poesia fu scritta da John Keats per Fanny Brawne, la fulgida stella che lo aveva abbagliato, colei che lo aveva completamente “assorbito”.
In una lettera del 13 ottobre 1819 alla sua “dolce fanciulla” il poeta scriveva:
Il mio credo è Amore; e tu ne sei il dogma. Mi hai rapito grazie a un potere cui non posso resistere; eppure fui capace di resistere finché non ti vidi, e anche dopo averti vista mi sono sforzato spesso di “ragionare contro le ragioni del mio amore”. Ora non ne sono più capace. Il dolore sarebbe troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te.
Il loro fu un amore impossibile, commovente e tormentato, casto ed appassionato, come nella letteratura lo furono gli amori altrettanto intensi e drammatici di personaggi quali “Romeo e Giulietta” e “Tristano e Isotta”.
John Keats morì giovanissimo all’età di 26 anni di tubercolosi, non ritornò mai in patria dall’Italia dove si era recato su consiglio dei medici e degli amici, sperando in una guarigione.
Morì a Roma nel 1821 dove tutt’oggi riposa. Non fece mai ritorno dalla sua Fanny per coronare il loro sogno di una radiosa vita insieme.



Consiglio di leggere, ovviamente oltre a tutte le opere di Keats, i seguenti due volumi:

“Bright Star. La via autentica di John Keats” di Elido Fazi ( Fazi Editore)
Il testo ripercorre proprio gli ultimi anni di vita del poeta caratterizzati dalle difficoltà economiche e dalle travagliate vicende familiari e sentimentali. E’ una lettura a più livelli, al tempo stesso un epistolario, un diario e un romanzo.








“Leggiadra stella. Lettere a Fanny Brawne” (ed. Archinto)
Come si evince dal titolo stesso del libro si tratta di una raccolta di lettere che il poeta scrisse  alla donna amata. Molto interessante la prefazione di Nadia Fusini.








Nel 2010 è stato distribuito in Italia il film "Bright Star" (2009) scritto e diretto da Jane Campion. Una storia delicata, basata sugli ultimi tre anni di vita di Keats. Visione naturalmente consigliata a tutti coloro che hanno un animo romantico e poetico...
Chi volesse vedere il trailer del film può cliccare qui

domenica 26 febbraio 2012

"Nord e Sud" di Elizabeth Gaskell




Elizabeth Gaskell (1810 – 1865) è una famosa scrittrice di epoca vittoriana che ha riscosso notevole successo sia presso il pubblico dell’epoca (fu molto apprezzata anche da scrittori quali Charles Dickens) che presso quello contemporaneo soprattutto in Gran Bretagna.
Si occupò di aspetti quali i preconcetti sociali contro le ragazze madri, ma anche dei contrasti determinati in Inghilterra dal carattere industriale del Nord e agricolo del Sud.




Proprio questi contrasti sono il tema principale del suo capolavoro “Nord e Sud”, romanzo solo recentemente tradotto in italiano e pubblicato dalla casa editrice Jo March, forse anche a seguito della grande richiesta del pubblico dopo il successo dell’adattamento televisivo della BBC in quattro puntate che auspichiamo venga presto trasmesso anche dalla televisione italiana.

Protagonista del romanzo è la diciannovenne Margaret, figlia di Mr Hale, un pastore anglicano di Helstone che, assalito da forti dubbi di fede ed in contrasto con il suo Vescovo, decide di abbandonare la Chiesa e trasferirsi a Milton, città industriale del Nord, con la famiglia per dedicarsi all’insegnamento. Proprio qui Margaret farà la conoscenza di esponenti della classe operaia, in particolare di Bessy e di suo padre Mr Higgins, ma anche dei proprietari industriali tra cui Mr Thorton “il padrone” del cotonificio di Marlborough Mills nonché primo allievo di Mr Hale. 
John Thorton, uno dei personaggi più interessanti del romanzo, è l’uomo che si è risollevato dalla miseria solo con le proprie forze, riuscendo a costruire un impero. E’ la personificazione “positiva” dell’uomo del Nord: tenace, combattivo, onesto, rigoroso e tutto teso verso la “produttività”. 
Margaret deve affrontare notevoli difficoltà per adattarsi alla nuova vita, ma soprattutto per accettare di vivere in una città frenetica, sporca, rumorosa, malsana così diversa dalla bucolica Helstone, da quell’ambiente quasi fiabesco della campagna del Sud dell’Inghilterra dove è cresciuta e dove il ritmo della vita scorreva lento e tranquillo. 
Mr Thorton, uomo di larghe vedute, nonostante non abbia ricevuto un’educazione classica vittoriana,  subisce quasi immediatamente il fascino della bella e altezzosa Margaret rimanendo disorientato ed al tempo stesso attratto dal suo essere così fiera e indipendente. 
A sua volta la ragazza si trova ben presto, nei confronti di John Thorton, combattuta tra l’ammirazione per l’uomo che si è fatto da solo, forte e rispettabile e l’ostilità verso l’industriale che lei ritiene responsabile delle miserie dei suoi operai.

“Quando vedo lavoratori violenti e ostinati nella ricerca dei propri dirititti, posso indubbiamente dedurre che il padrone è come loro; e ignora quell’anima che è magnanima, e benevola, e non cerca il suo interesse”.
“Siete proprio come tutti i forestieri che non capiscono come funziona il nostro sistema, signorina Hale” disse frettolosamente .
“Credete che i nostri lavoratori siano delle marionette di pasta, pronte a lasciarsi plasmare nella forma che più ci piace. Dimenticate che abbiamo a che fare con loro solo per meno di un terzo della loro vita; e sembrate non accorgervi che i doveri di un industriale son ben più grandi di quelli di un semplice datore di lavoro. Noi abbiamo un importante ruolo commerciale da sostenere, che fa di noi i grandi pionieri della civiltà”. 

“Non sono certo io la persona che può decidere chi sia un gentiluomo e chi no, signorina Hale. Voglio dire, non capisco molto l’uso che fate del termine. Ma devo ammettere che questo Signor Morison non è uomo leale. Non so chi sia; sto giudicando semplicemente da quello che ha detto il signor Horsfall”.
“Sospetto che il mio gentiluomo includa il vostro uomo leale.”
“E’ molto di più, sembrate suggerire. Non sono d’accordo con voi. Per me un uomo è un essere umano più nobile e completo di un gentiluomo.”
“Cosa volete dire?” chiese Margaret. “Abbiamo modi diversi di intendere i termini”.
“Dal mio punto di vista gentiluomo è un termine che descrive una persona solo nel suo modo di relazionarsi agli altri; ma quando parliamo di questa persona chiamandola uomo, non la consideriamo solamente in relazione ai suoi simili, ma in relazione a se stessa, alla vita, al tempo, all’eternità. (…) Sono piuttosto stanco di questa espressione da gentiluomo, che a me sembra venga spesso usata a sproposito, e spesso, inoltre, con tale esagerata distorsione del significato… mentre la piena semplicità del nome uomo, dell’aggettivo umano, viene ignorata, il che mi induce a classificarli come termini del gergo quotidiano. 

La storia d’amore tra Margaret e Mr Thorton può ricordare per alcuni aspetti la storia d’amore tra Elizabeth Bennet e Mr. Darcy in “Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Asten pubblicata circa una quarantina di anni prima, nonostante la diversa ambientazione geografica e i diversi aspetti della società in cui la storia si sviluppa. Margaret però a tratti incarna entrambi i protagonisti del romanzo della Austen: è Darcy, quando resta arroccata sulle sue posizioni, chiusa nel suo altezzoso orgoglio e lo è nel finale quando risolve i problemi finanziari di lui, ma è anche Elizabeth quando, dopo aver rifiutato la prima proposta di matrimonio di Mr Thorton, realizza che è innamorata di lui e per questo il giudizio negativo che lui potrebbe avere di lei la tormenta ogni giorno.

Per chi volesse vedere le puntate del period drama della BBC ecco di seguito i link:

venerdì 24 febbraio 2012

Blues in memoria (W.H. Auden)


Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono,
fate tacere il cane con un osso succulento,
chiudete i pianoforti, e tra un rullio smorzato
portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

Incrocino aeroplani lamentosi lassù
e scrivano sul cielo il messaggio Lui E’ Morto,
allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni,
i vigili si mettano guanti di tela nera.

Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest,
la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica,
il mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio canto;
pensavo che l’amore fosse eterno: e avevo torto.

Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte;
imballate la luna, smontate pure il sole;
svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco;
perché ormai più nulla può giovare.


Questa poesia è state resa celebre dal film "Quattro matrimoni e un funerale". 
Chi volesse rivedere la scena del funerale in cui in cui Matthew la dedica al "suo Gareth " può cliccare qui

giovedì 23 febbraio 2012

L’albatros (Charles Baudelaire)


Spesso, per dilettarsi, gli uomini della ciurma
Catturano gli albatros, grandi uccelli marini
Che seguono, indolenti compagni di viaggio,
la nave che scivola sugli amari flutti.
 
Appena deposti sulle assi della tolda
Questi re dell’azzurro, maldestri e vergognosi
Lasciano pietosamente le grandi ali bianche
Trascinarsi come remi accanto a sé.

Quant’è goffo e fiacco questo viaggiatore alato!
Lui, prima così bello, quant’è comico e brutto!
Uno tormenta il suo becco con un mozzicone acceso,
l’altro mima, zoppicando, l’infermo che volava.

Il Poeta assomiglia al principe delle nubi
che sfida la tempesta e sbeffeggia l’arciere;
esiliato al suolo in mezzo al baccano
le sue ali di gigante gli impediscono il cammino.

“Morte nell’arena” di Federica Guidi


In principio, nel III secolo a.C., si chiamarono munera, cioè obblighi verso i defunti. Poi il nome rimase, ma via via i combattimenti gladiatorii persero il carattere di cerimonia funebre e acquisirono quello di festività offerte da personalità politiche e dall'imperatore per procurarsi consenso, secondo la nota espressione di Giovenale: panem et circenses. Una tradizione che durò oltre sette secoli nel segno dell'intrattenimento grandioso, esotico, violento e globale. Vero e proprio spettacolo interattivo cui il pubblico partecipava non solo con le incitazioni ai contendenti, ma anche decidendo il destino dei vinti. In questo libro l'autrice descrive la scena e i retroscena di un costume che ha attraversato i secoli.
(Source: IBS)



E’ vero il tema trattato non è nuovo, molto si è scritto sull’argomento e numerosi sono i film ed i documentari in merito.  Le descrizioni del libro però sono molto accurate ed il risultato è un saggio molto piacevole e di scorrevole lettura. Certo che in 2.000 anni quanto poco è cambiato!!!

"Che dire poi del fascino che i gladiatori esercitavano sul gentil sesso? Più che alle specifiche di combattimento, le signore erano ovviamente interessate alla prestanza fisica dei combattenti; ma non è solo questo: il fascino del gladiatore nasce proprio dal suo essere tale, dal ruolo che questa figura riveste nell’arena, dalla sua lotta con la morte e dall’immaginario che da questo si sviluppa. A riprova ascoltiamo Giovenale:
Eppia, moglie di un senatore, ha seguito una compagnia di gladiatori fino a Faro, fino al Nilo e alle mura malfamate dei Lagidi, facendo inorridire persino Canopo per l’incredibile immoralità romana. Dimenticati a casa, marito e sorella, senza un pensiero per la sua città, quella depravata ha abbandonato i figli in lacrime e, ciò che più stupisce, persino il suo Paride e il Circo. Pur allevata tra le piume di una culla intarsiata e nel lusso della casa paterna, non ebbe orrore d’affrontare il mare: aveva già affrontato il disonore, che per chi dispone di comode poltrone è danno rilevante. Navigando di mare in mare, ha attraversato i flutti del Tirreno e la distesa fragorosa dello Ionio con cuore intrepido: son donne, queste, che solo se devono correre un rischio per una causa onorevole e giusta cadono in preda alla paura con il cuore che si fa ghiaccio, le gambe tremanti; ma se compiono malefatte, ostentano un coraggio senza pari. Se vuole il marito, è un dramma salire sulla tolda: l’odore della stiva le sconvolge e svengono. Ma quella che segue l’amante ha stomaco di ferro. La prima vomita addosso al marito, questa mangia coi marinai, scorrazza per il ponte e gode nel maneggiare ruvide gomene. Ma di quale bellezza, di qual fiore di giovinezza si è invaghita Eppia? Cosa ha mai visto in lui per sopportare la nomea di “gladiatrice”?
In verità il suo Sergino ormai aveva cominciato a radersi la barba e sperare nel congedo per quel suo braccio rotto; senza contare gli sfregi del viso, il naso escoriato dall’elmo con una gran bozza nel mezzo, e uno sgradevole malanno che gli faceva lacrimare di continuo gli occhi. Ma un gladiatore era! Quanto basta per farne un Giacinto, per preferirlo a figli, patria, sorella e marito: è il ferro che amano le donne. Se il suo Sergio avesse già ricevuto il bastone del congedo, all’istante non le sarebbe apparso diverso da un qualsiasi Veientone. (Giovenale, Satira VI, 82-113)" 
 
(Ed. Mondadori - 2006 Cles TN)
Ma siamo sicure che tutte le donne fossero interessate solo alla “prestanza fisica” dei gladiatori? Nessun reale interesse per il combattimento? Quando oggi guardiamo una partita di calcio, siamo proprio tutte interessate solo  ai tipi che corrono dietro alla palla? Io non credo proprio...



domenica 19 febbraio 2012

Ti vidi piangere (George Byron)


Ti vidi piangere: la grande lacrima lucente
Coprì quell'occhio azzurro
E poi mi parve come una viola
Stillante rugiada.

Ti vidi sorridere: la vampa di zaffiro
Accanto a te cessò di brillare;
Non poteva eguagliare i raggi che affollavano
Vividi quel tuo sguardo.

Come le nubi dal sole lontano
Ricevono un colore intenso e caldo
Che a stento l'ombra della sera vicina
Può cacciare dal cielo,

Quei sorrisi infondono nell'animo
Più triste gioia pura;
Il loro sole lascia dietro un fuoco
Che risplende sul cuore.

Cime Tempestose di Emily Brontë (1818- 1848)


Unico romanzo scritto da Emily  Brontë, “Wuthering Heights” è un romanzo selvaggio, strano e unico nel suo genere; la critica lo tacciò di immoralità e la buona società inglese lo accolse con perplessità.
Ciò che colpisce in questo romanzo è l’intensità delle passioni dei protagonisti: amore, furia, vendetta, odio. Heathcliff con la sua terribile forza di volontà ha qualcosa di demoniaco; la sua origine misteriosa, quel desiderio di distruggere ciò che ama ne fanno un eroe quasi byroniano.
Grandissimo pregio del libro sono poi le descrizioni del paesaggio. Le selvagge, desolate brughiere che circondano Wuthering Heights sono rappresentate meravigliosamente nel variare delle stagioni.


 A che scopo esisterei, se fossi tutta contenuta in me stessa? I miei grandi dolori, in questo mondo, sono stati i dolori di Heathcliff, io li ho tutti indovinati e sentiti fin dal principio. Il mio gran pensiero, nella vita, è lui. Se tutto il resto perisse e lui restasse, io potrei continuare ad esistere; ma se tutto il resto durasse e lui fosse annientato, il mondo diverrebbe, per me, qualche cosa di immensamente estraneo: avrei l'impressione di non farne più parte. Il mio amore per Linton è come il fogliame dei boschi: il tempo lo trasformerà, ne sono sicura, come l'inverno trasforma le piante. Ma il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce nascoste ed immutabili; dà poca gioia apparente ma è necessario. Nelly: io sono Heathcliff! Egli è stato sempre, sempre nel mio spirito: non come un piacere, allo stesso modo ch'io non sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere. Così, non parlar più di separazione: ciò è impossibile e...

Possa svegliarsi fra i tormenti! - gridò Heathcliff con una spaventosa veemenza, picchiando i piedi, ruggendo di dolore in un improvviso parossismo d'irresistibile passione. - Sì, sì, bugiarda fino alla fine! Dov'è dunque? Non là... non in cielo... scomparsa, dove? Ah, tu dicevi che non t'importava nulla delle mie sofferenze! Ed io faccio una preghiera, e la ripeterò fin che la mia lingua si secchi: Catherine Earnshaw, possa tu non trovar mai riposo fin ch'io vivo! Tu dici che io ti ho uccisa: tormentami, allora. Le vittime perseguitano i loro assassini, io credo. Io so di fantasmi che hanno errato sulla terra. Sta sempre con me... prendi qualunque forma... rendimi pazzo! Ma non lasciarmi in questo abisso, dove non ti posso trovare! Oh Dio, è impossibile! Non posso vivere senza la mia vita, non posso vivere senza la mia anima!
  

Tante sono state le trasposizioni cinematografiche del romanzo, ma quella a me più cara, e forse più famosa, resterà sempre l’adattamento diretto da William Wyler nel 1939 (titolo in italiano “La voce nella tempesta”) in cui recitarono Laurence Olivier nella parte di “Heathcliff”, David Niven “Edgar Linton” e Merle Oberon interpretò “Cathy”.

“You said I killed you - haunt me, then! The murdered do haunt their murderers, I believe. I know that ghosts have wandered on earth. Be with me always - take any form - drive me mad! only do not leave me in this abyss, where I cannot find you!”



Sonetto XCII - William Shakespeare


Fai pure del tuo peggio per sottrarti a me,
ma per tutta la vita mi apparterrai:
vita che non durerà più a lungo del tuo amore,
perché essa completamente da quell'amore dipende.
Non devo perciò temere il massimo dei mali,
dal momento che il minimo di essi mi può causare la fine;
esiste per me un più felice stato
di questo continuo dipendere dai tuoi umori!
Tu non puoi torturarmi con la tua incostanza,
ne va della mia vita col tuo disdegno.
Oh, quale titolo alla felicità posseggo:
pago di avere il tuo affetto, contento di dover morire!
C'è cosa tanto bella che non tema macchia?
Tu potresti ingannarmi e io non saperlo.

Ode su un'Urna Greca - John Keats


Tu, ancora inviolata sposa della quiete,
Figlia adottiva del tempo lento e del silenzio,
Narratrice silvana, tu che una favola fiorita
Racconti, più dolce dei miei versi,
Quale intarsiata leggenda di foglie pervade
La tua forma, sono dei o mortali,
O entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia?
E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose?
Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata?
E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia?

Sì, le melodie ascoltate son dolci; ma più dolci
Ancora son quelle inascoltate. Su, flauti lievi,
Continuate, ma non per l'udito; preziosamente
Suonate per lo spirito arie senza suono.
E tu, giovane, bello, non potrai mai finire
Il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli;
E tu, amante audace, non potrai mai baciare
Lei che ti è così vicino; ma non lamentarti
Se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire,
E tu l'amerai per sempre, per sempre così bella.

Ah, rami, rami felici! Non saranno mai sparse
Le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera;
E felice anche te, musico mai stanco,
Che sempre e sempre nuovi canti avrai;
Ma più felice te, amore più felice,
Per sempre caldo e ancora da godere,
Per sempre ansimante, giovane in eterno.
Superiori siete a ogni vivente passione umana
Che il cuore addolorato lascia e sazio,
La fronte in fiamme, secca la lingua.

E chi siete voi, che andate al sacrificio?
Verso quale verde altare, sacerdote misterioso,
Conduci la giovenca muggente, i fianchi
Morbidi coperti da ghirlande?
E quale paese sul mare, o sul fiume,
O inerpicato tra la pace dei monti
Ha mai lasciato questa gente in questo sacro mattino?
Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre,
E mai nessuno tornerà a dire
Perché sei stato abbandonato.

Oh, forma attica! Posa leggiadra! con un ricamo
D'uomini e fanciulle nel marmo,
Coi rami della foresta e le erbe calpestate -
Tu, forma silenziosa, come l'eternità
Tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale!
Quando l'età avrà devastato questa generazione,
Ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori
Non più nostri, amica all'uomo, cui dirai
"Bellezza è verità, verità bellezza," - questo solo
Sulla terra sapete, ed è quanto basta.

sabato 18 febbraio 2012

Riflessioni di una lettrice...


Leggere un libro è come fare un viaggio... 
Ogni libro ha una sua storia da raccontare ed alla fine che questa sia stata di nostro gradimento o meno, che ci abbia emozionato o no, ci lascerà comunque qualcosa su cui riflettere… una pagina… una frase…o forse anche solo una parola, ma ne sarà valsa la pena...
E’ stata una casualità a far sì che io leggessi “Il tiranno” di Valerio Massimo Manfredi perché non è decisamente il mio genere di lettura, ma da quel libro…

ecco di seguito le righe che ho scelto:

La Storia è un mistero, un impasto di passioni, orrori, speranze, entusiasmi, meschinità; è sorte e casualità, così come è anche il prodotto di volontà precise e caparbie come la tua, certo. La Storia è il desiderio di superare la nostra miseria di uomini, è l’unico monumento che ci sopraviverà. Anche quando i nostri templi e le nostre mura saranno caduti in rovina, quando i nostri dei e i nostri eroi saranno solo fantasmi, immagini sbiadite dal tempo, statue mutilate e corrose, la Storia ricorderà ciò che abbiamo fatto e il ricordo che sopravviverà di noi è l’unica immortalità che ci è concessa (…)

Io ho già fatto la mia scelta e sono pronto a dannare la mia memoria per i secoli a venire, a essere ricordato come un mostro capace di qualunque nefandezza, ma anche come un vero uomo, un uomo in grado di piegare gli eventi al proprio volere. Solo questo tipo di uomini somiglia agli dei. Solo se sei davvero grande la gente ti perdonerà di avere limitato la sua libertà, altrimenti ti farà a pezzi e ti calpesterà appena avrai mostrato la minima debolezza.”

venerdì 17 febbraio 2012

Sonetto CXVI – William Shakespeare


Non sarà mai ch'io ponga impedimento all'unione di due anime fedeli. Amore non è amore se muta quando trova un mutamento nell'altro o se è pronto a recedere quando l'altro s'allontana.
Oh! no, esso è un faro sempre fisso che domina le tempeste senza mai esserne scosso: esso d'ogni barchetta errante è la stella il cui valore non si conosce sebbene se ne possa misurare l'altezza.
Amore non è lo zimbello del tempo, quantunque labbra e guance di rosa passino sotto la sua falce ricurva; Amore non muta con le brevi ore e con le settimane, ma dura eterno fino all'estremo giorno del giudizio.
Se questo ch'io scrivo è un errore e sarà dimostrato tale coll'esempio mio, dite pure ch'io non ho mai scritto, né che alcun uomo ha mai amato.

(traduzione di L. Darchini)

giovedì 16 febbraio 2012

“Orgoglio e pregiudizio” di Jane Austen (1775 – 1817)


Pubblicato nel 1813 “Pride and Prejudice” è l’opera più popolare della Austen. Il romanzo ha come protagonisti l'orgoglio di classe del signor Darcy e il pregiudizio di Elizabeth Bennet nei confronti di questo. Il romanzo si concentra sulla famiglia del Signor Bennet un uomo non stupido, ma distratto e superficiale affiancato da una moglie invece decisamente stupida e volgare il cui unico scopo è quello di vedere sposate le cinque figlie: Jane, Elizabeth, Mary, Catherine e Lydia. Le figlie minori sventate e frivole sono fonte di biasimo nonché di preoccupazione per le sorelle maggiori Jane ed Elizabeth.
Il romanzo ha avuto anche molte trasposizioni cinematografiche. Le mie preferite:

1940: Orgoglio e pregiudizio, di Robert Z. Leonard, con Laurence Olivier nel ruolo di Darcy e Greer Garson come Elizabeth.
1995: Orgoglio e pregiudizio, miniserie televisiva con Colin Firth nel ruolo di Darcy e Jennifer Ehle nel ruolo di Elizabeth, sceneggiatura di Andrew Davies.

e non dimentichiamo la versione “indiana” del 2004: Matrimoni e pregiudizi, con Aishwarya Rai e Martin Henderson.

Ed ora qualche pagina del libro tratte dall’edizione Garzanti del 1980, traduzione a cura di Isa Maranesi:
 
“E’ cosa nota e universalmente riconosciuta che uno scapolo in possesso di un solido patrimonio debba essere in cerca di moglie.
E benché poco sia dato sapere delle vere inclinazioni e dei proponimenti di chi per la prima volta venga a trovarsi in un ambiente sconosciuto, accade tuttavia che tale convinzione sia così saldamente radicata nelle menti dei suoi nuovi vicini da indurli a considerarlo fin da quel momento appannaggio dell’una o dell’altra delle loro figlie”


“E così ebbe fine quella passione,” tagliò corto Elizabeth. “Non sarà stata l’unica a finire a quel modo. Mi chiedo chi sia stato il primo a scoprire l’efficacia dei versi come rimedio contro l’amore.”
“Ho sempre creduto che la poesia fosse il nutrimento dell’amore,” obiettò Darcy.
“Di un grande amore, forse; purché sia vigoroso e ben in salute. Tutto serve a nutrire ciò che è già forte. Ma se non è che una debolezza, una leggera inclinazione, niente di meglio di un buon sonetto per farla morire di fame.”


“Ho lottato invano. Non c’è rimedio. Non sono in grado di reprimere i miei sentimenti. Lasciate che vi dica con quanto ardore io vi ammiri e vi ami”.


“Sin dall’inizio, direi quasi dal primo momento che vi vidi, i vostri modi mi colpirono rivelandomi in pieno tutta la vostra arroganza, la vostra presunzione il vostro egoistico disprezzo dei sentimenti altrui, così da creare quella base di disapprovazione sulla quale gli eventi successivi hanno costruito una così irriducibile avversione; non era passato un mese dacché vi conoscevo, e già sentivo che eravate l’ultimo uomo al mondo che avrei potuto sposare.”
“Basta così, signorina. Comprendo perfettamente i vostri sentimenti, e non mi rimane che vergognarmi di averne provato altri. Perdonatemi per avervi rubato tanto tempo, ed accettate i miei migliori auguri di buona salute e felicità.”


“Se proprio volete ringraziarmi,” rispose egli, “fatelo a nome vostro. Non posso negare che il desiderio di farvi felice abbia aggiunto forza alle altre considerazioni che mi hanno spinto ad agire. Ma la vostra famiglia non mi deve nulla. Con tutto il rispetto che porto ai vostri cari, credo di aver pensato solo a voi.” (…) “Siete troppo generosa per prendervi gioco di me. Se i vostri sentimenti sono ancora quelli dello scorso aprile, ditemelo subito. Il mio affetto, i miei desideri sono immutati, ma basta una vostra parola perché questo discorso sia chiuso per sempre.”

Lettera d'amore di John Keats a Fanny Brawne (13 ottobre 1819)



Mia cara ragazza

In questo momento mi sono messo a copiare dei bei versi. Non riesco a proseguire con una certa soddisfazione. Ti devo dunque scrivere una riga o due per vedere se questo mi concede di escluderti dalla mia mente anche per un breve momento. Dentro la mia anima non so a pensare a null'altro.Tempo fa avevo la forza di ammonirti contro la poco promettente mattina della mia vita. Il mio amore mi ha reso egoistico. Non posso esistere senza di te. Scorderei tutto pur di vederti ancora. La mia vita sembra fermarsi qui, non vedo oltre. Mi hai assorbito. In questo preciso momento ho la sensazione di essermi dissolto. Sarei profondamente infelice senza la speranza di vederti presto. Sarei spaventato di dovermi allontanare da te. Mia dolce Fanny, cambierà mai il tuo cuore? Mio amore cambierà? Ora il mio amore è senza limiti... Tuo biglietto è arrivato proprio qui. Non posso essere felice lontano da te. È più ricco di una nave di perle. Non mi trattare male neanche per scherzo. Mi sono meravigliato che gli uomini possano morire martiri per la loro religione. Ho avuto un brivido. Ora non rabbrividisco più. Potrei essere un martire per la mia religione - la mia religione è l'amore - potrei morire per questo. Potrei morire per te. Il mio credo è l'amore e tu sei il mio unico dogma. Mi hai incantato con un potere al quale non posso resistere; eppure potevo resistere fino a quando ti vidi; e perfino dopo averti visto ho tentato spesso "di ragionare contro le ragioni del mio amore". Non posso più farlo. Il dolore sarebbe troppo grande. Il mio amore è egoista. Non posso respirare senza di te.

Tuo per sempre
John Keats

mercoledì 15 febbraio 2012

Se a volte quando mi trovo tra la gente (da Pezzi d’occasione di George Byron)



Thomas Phillips - Portrait of Lord Byron (1788-1824)
Se a volte, quando mi trovo tra la gente,
La tua figura svanisce dal mio cuore,
L’ora solitaria mi riporta
L’immagine della tua ombra gentile:
Quell’ora triste e silenziosa adesso
Molto di te può ancora restituirmi
E non visto il dolore osa effondersi
Nel lamento prima senza voce.

Oh perdona se per poco tra la folla
Sciupo un pensiero che devo solo a te
E, condannandomi, sembro sorridere
Infedele al tuo ricordo: non credere
Che quel ricordo mi sia meno caro
Perché non sembro affliggermi: non voglio
Che gli sciocchi sorprendano uno solo
Dei sospiri che devo tutti a te.

Se avidamente vuoto il calice che passa,
Io non bevo per scacciare l’affanno;
Deve avere bevanda più mortale
La coppa che dà un Lete a chi dispera.
Se l’Oblio liberasse la mia anima
Dalle visioni inquiete, spezzerei
La coppa più dolce che affogasse
Anche un solo pensiero di te.

Se tu mi fossi svanita dalla mente
Dove si volgerebbe il cuore vuoto?
E chi vorrebbe attardarsi ad onorare
La tua Urna abbandonata? No no,
E’ vanto del mio dolore adempiere
Questo caro ultimo ufficio:
Anche se tutto il mondo dimentica,
E’ giusto che io ricordi ancora.

Perché so bene che altrettanto cortese
Sarebbe stata la tua attenzione per chi ora
Lascerà illacrimato questa scena mortale
Dove nessuno, tranne te, se ne curava:
E sento che in ciò m’era concessa
Una grazia a me non destinata;
Sembravi troppo ad un sogno del Cielo
Perché un Amore terreno ti meritasse.