sabato 8 gennaio 2022

“A sud dell’Inferno” di Claudio Giovanardi

Maria e Luigi partecipano al funerale del padre, ma già dalle prime righe si percepisce che l’atmosfera opprimente non è dovuta, come sarebbe naturale, alle circostanze bensì a qualcosa che travalica la contingenza. Maria e Luigi sono anime avare nessuna partecipazione, nessuna commozione traspare dai loro gesti, dalle loro parole per quel padre che, accusato ingiustamente di uno dei crimini più orribili, aveva trascorso da innocente ben tredici anni in carcere e ora si è suicidato senza lasciare loro neppure un rigo perché possano comprendere il motivo di un gesto tanto estremo.

Dopo aver assolto il loro compito come indifferenti automi, terminate le esequie, rientrando a casa trovano ad attenderli dinnanzi al portone tre loschi individui che senza mezzi termini minacciano loro e le loro famiglie: se non restituiranno quando loro sottratto dal padre defunto non si faranno scrupolo di ricorrere alle maniere forti finanche all’assassinio.

Inizia così una corsa contro il tempo per racimolare quanto richiesto, ma il denaro da trovare è davvero troppo. Maria e Luigi faranno una scelta sbagliata dietro l’altra, imboccando un pericoloso sentiero che li condurrà sempre più giù verso l’Inferno.

Il sottotitolo del libro recita enigma in quattro quadri e quattro sono, infatti, le parti in cui è suddiviso il romanzo. Un racconto a ritroso che lentamente svela tutto lo squallore di quattro vite rovinate dall’avidità, dalla lussuria, dall’incapacità di amare e dall’inettitudine.

Se il quarto quadro è dedicato al funerale di Umberto Albani, epilogo della storia, gli atti precedenti lo vedono protagonista: nel terzo, appena uscito di prigione, tenta di rifarsi una vita, ma viene nuovamente ingannato; il secondo è dedicato agli anni del carcere e all’incontro con gli altri detenuti colpevoli del crimine di cui lui, ingenua vittima di una squallida trappola ordinata ai suoi danni, era stato invece ingiustamente accusato.

Il primo quadro, quello conclusivo, racconta come tutto sia iniziato: l’incontro con una ragazza bellissima e provocante che diverrà sua moglie, la nascita dei due figli, insomma quella che all’apparenza doveva essere l’esistenza perfetta e che invece per tutti e quattro si è rivelata essere un vero inferno o piuttosto tanti piccoli inferni personali contrassegnati da amori malati, ossessioni, rancori e vendette.

Nel romanzo di Claudio Giovanardi non esiste riscatto, il perdono non è salvifico, ma serve solo a sprofondare colui che perdona nel girone più profondo.

Non esistono carnefice e vittima, anche colui che potrebbe sembrare il più innocente ha scheletri inconfessati e inconfessabili nell’armadio.

“A sud dell’Inferno” è una storia amara e perversa. Non può esserci empatia nei confronti dei protagonisti, troppo squallore. L’unico personaggio che forse suscita una qualche compassione è la figura dell’anziana Elisa Loyola con il suo misero e fallimentare tentativo di ritrovare un po’ di serenità mettendo a disposizione della famiglia di Umberto la propria villa.   

Il libro di Claudio Giovanardi è un libro particolare, dove la prosa si alterna alla rima dalla quale nascono lugubri filastrocche dal ritmo cadenzato foriero di sventura e dove al linguaggio popolare e al dialetto romanesco si alterna spesso un linguaggio elegante e dalle parole ricercate. 

Un racconto crudo dove Umberto è l’antieroe per eccellenza, un anti-Ulisse soggiogato da una Circe spietata a sua volta vittima di un altro terribile carnefice senza scrupoli.

Numerosi sono i richiami alla mitologia all’interno del romanzo così come alla letteratura per citarne uno su tutti la sventata rispose di manzoniana memoria.

Una storia senza via di uscita, senza possibilità di redenzione, un racconto tra il kafkiano e il pirandelliano, pervaso da un profondo senso di claustrofobia che raggiunge la sua acme nel momento in cui i cancelli della prigione si chiudono alle spalle di Umberto e al lettore sembra di venire richiuso assieme a lui in quella piccola cella dove muoversi sembra impossibile così stretti tra la sedia, la branda, il lavabo e l’armadietto.  

Con queste premesse secondo voi È ancora possibile amare a sud dell’Inferno? Questa la domanda che campeggia sulla quarta di copertina, a voi l’ardua sentenza…

 

 

giovedì 6 gennaio 2022

“Don Antonio de’ Medici. Un principe alchimista nella Firenze del ‘600” di Paola Maresca

Don Antonio de’ Medici (1576-1621) era figlio del Granduca di Toscana Francesco I e della sua seconda moglie Bianca Cappello. Quando nacque però il padre era ancora sposato con la prima moglie Giovanna d’Austria che morì solo due anni più tardi nell’aprile del 1578.

Don Antonio, sebbene fosse stato riconosciuto dal genitore, rimaneva di fatto un figlio illegittimo. Con le seconde nozze del padre e con la morte dell’erede designato Filippo, figlio di Francesco I e di Giovanna d’Austria, Antonio mutò la sua condizione. L’istruzione che gli venne impartita fu quindi consona al ruolo di principe ereditario quale egli era di fatto divenuto.

La vicenda di Bianca Cappello e di Francesco I è ricordata come una delle pagine più oscure della storia medicea.

Ferdinando I, non vide mai benevolmente la relazione prima e le nozze poi del fratello con la bella veneziana. Quando entrambi morirono a poche ore di distanza l’uno dall’altra durante un soggiorno nella Villa di Poggio a Caiano dove si trovava ospite lo stesso Ferdinando si pensò subito che entrambi fossero stati da lui avvelenati, ipotesi che resta ancora oggi tra le più accreditate anche se ci sono studi che lo assolverebbero.

Antonio, ancora undicenne, era comunque un ostacolo per Ferdinando il quale per liberarsi del legittimo erede si affidò a prezzolati testimoni affinché dichiarassero che il ragazzo non era figlio del fratello e di Bianca Cappello, ma che questa aveva ingannato Francesco facendo passare per suo il figlio di una popolana, una certa Lucia.

Tolto di mezzo lo scomodo nipote e condannata alla damnatio memoriae la tanto detestata cognata, Ferdinando, abbandonato l’abito cardinalizio, salì al trono granducale e sposò Cristina di Lorena.

Vuoi per mettersi al riparo da eventuali rivendicazioni da parte del nipote, vuoi a causa di un semplice senso di colpa, Ferdinando non abbandonò il giovane Antonio, ma lo accolse in seno alla famiglia alla condizione che, raggiunta la maggiore età, egli pronunciasse i voti come Cavaliere di Malta rinunciando in tal modo per sempre alla possibilità di avere eredi a cui poter trasmettere le proprie sostanze.

Gli venne così assegnato un appartamento a Palazzo Pitti e gli venne riconosciuto l’usufrutto di alcune ville oltre che del Casino di San Marco che ospitava ancora l’officina alchemica di Francesco I.

Don Antonio che aveva ereditato proprio dal padre la passione per le scienze alchemiche e la spagirica ne fece il suo quartier generale e, facendo eseguire ingenti lavori per renderlo consono alle sue esigenze abitative, lo trasformò in una splendida reggia.

Don Antonio fu un personaggio che dal nonno Cosimo I e dal bisnonno Giovanni dalle Bande Nere aveva ereditato la passione per le armi, combatté per mare riportando nette vittorie contro i pirati e si recò anche in aiuto di Rodolfo II che si trovava in difficoltà contro i Turchi che premevano ai confini dell’Impero.

A causa delle numerose ferite riportate in battaglia il suo stato di salute subì un peggioramento e dovette quindi abbandonare la carriera militare e ripiegare su quella diplomatica.

Ebbe così molto più tempo da dedicare alla sua vera passione: l’opera alchemica.

L’aver pronunciato i voti come Cavaliere di Malta non gli impedì di avere quattro figli, ma nonostante le suppliche che rivolse al cugino Cosimo II, divenuto nel frattempo il nuovo Granduca di Toscana, gli fu negata ogni possibilità di lasciare loro alcun bene.

Don Antonio de’ Medici è uno dei personaggi forse meno conosciuti e meno indagati della famiglia Medici, ma dal libro di Paola Maresca si intuisce chiaramente che fu una figura dal fascino non comune, intelligente e intraprendente, appassionato di musica ed arte, fece del Casino di San Marco un centro di riferimento per la cultura musicale oltre che uno dei principali centri di diffusione delle teorie di Paracelso non solo della Toscana ma di tutta l’Italia.

Paola Maresca riesce mirabilmente a condensare in appena un centinaio di pagine moltissime notizie sulla vita di Don Antonio, sulla sua famiglia, sugli studi da lui condotti, sulla ristrutturazione del Casino di San Marco e non ultimo su tutte quelle figure che ruotarono intorno al suo personaggio e lo affiancarono nella sua ricerca.

Il volume è corredato da una discreta bibliografia e da un’ampia e interessante documentazione fotografica.

Un valido volume per chi si accosti per la prima volta alla figura di Don Antonio e un buon punto di partenza per chi desideri approfondirne la conoscenza.

Se siete interessati all’argomento “alchimia e Medici” vi ricordo un altro libro di Paola Maresca di cui vi avevo parlato qualche tempo fa intitolato “Alchimia,magia e astrologia nella Firenze dei Medici” sempre edito da Angelo Pontecorboli Editore.



sabato 1 gennaio 2022

“Gian Gastone un trono di solitudine nella caligine di un crepuscolo” di Alberto Bruschi

Il romanzo si apre con l’immagine di Anna Maria Luisa che al capezzale del fratello morente con il quale si è da poco riconciliata lo assiste cristianamente nell’ora del trapasso.

Giuliano Dami che fino a poco tempo prima spadroneggiava senza alcuna moderazione sul Palazzo e su Firenze si presente ora timidamente nella stanza di Gian Gastone, ma ne viene scacciato con un solo duro sguardo dall’Elettrice Palatina. Per lui, il corruttore dell’anima dell’ultimo Granduca Medici, è finita, esiste solo la paura dell’incerto futuro che l’attende.

Gian Gastone ormai vicino alla morte ripercorre la sua triste e solitaria esistenza fin da quando ancora giovassimo cercava riparo nei luoghi più appartati dei giardini di Boboli dove si fermava a ragionare con se stesso sul senso della vita e sul significato della felicità. Scorrono così gli anni come in una lenta e triste pellicola d’altri tempi, come malinconica e solitaria fu la vita di questo mite e illuminato Principe che non era nato per regnare, ma che il fato volle vedere seduto sul trono del Granducato di Toscana, ultimo della sua stirpe.

Tanta solitudine e poco amore così si potrebbe riassumere la vita di Gian Gastone de’ Medici, il figlio minore, quello meno amato da un padre bigotto, frustrato da un matrimonio fallimentare e amareggiato per la mancanza di un nipote e dimenticato dalla madre che, dopo averlo abbandonato ancora bambino, non ebbe per lui neppure una tenerezza quando da adulto si recò a farle visita in Francia.

Il matrimonio al quale il giovane Gian Gastone da figlio ubbidientemente si sottomise per assecondare il volere paterno e la fredda ragion di stato si rivelò fin da subito un totale disastro. Un solo lampo di fugace felicità squarciò la fredda e solitaria esistenza del principe cadetto allorquando si imbatté nel bellissimo e sfrontato Giuliano Dami, ma quello che Gian Gastone volle credere un benigno dono del destino, si rivelò invece essere la tomba per la sua anima, l’inizio della sua discesa agli inferi ancora in vita.

Particolarmente suggestiva l’immagine dell’ultimo Medici che nel corso della sua esistenza si trova più volte a discorrere con una cutrettola fino alla conversazione finale quando il piccolo uccello si posa sul davanzale della finestra della camera del Granduca per congedarsi definitivamente da lui.

Alberto Bruschi partendo dalla consultazione delle numerose carte presenti negli archivi, analizzando le coeve opere d’arte e visitando i luoghi vuole restituire a noi contemporanei, sotto forma di romanzo, una nuova immagine di Gian Gastone, un’immagine più umana e senza dubbio più vicina alla verità storica.

Complici prima i Lorena che cercarono in ogni modo di legittimare la loro posizione sminuendo il loro predecessore e poi il perbenismo ottocentesco, la storia ha trasmesso dell’ultimo Granduca Medici l’immagine di un uomo inetto, corrotto e depravato. Gian Gastone è vero era omosessuale e poco importa se l’iniziativa quel giorno l’avesse presa il Dami, come viene scritto nel romanzo, o invece il timido Principe, questo non è una colpa, l’amore non è mai una colpa, quindi non può valergli alcuna condanna. Fu un uomo molto solo, afflitto dalla melanconia e dalla mancanza di affetti sinceri.

Detto questo, non è però neppure possibile ignorare la nefasta influenza che il Dami ebbe sul suo signore il quale non avrebbe potuto donare il proprio amore a nessuno meno meritevole di lui.

Ma tutto ciò non giustifica che si possa dimenticare che l’ultimo Granduca fu un principe liberale e illuminato, amante delle arti e della filosofia, che ebbe a cuore le sorti del suo popolo tanto da sgravarlo fin da subito dei numerosi balzelli che il padre Cosimo III aveva imposto persino dal letto di morte.

Leggere gli scritti di Alberto Bruschi è sempre un immenso piacere. La sua prosa è raffinata ed elegante; ogni frase, ogni citazione sono frutto di un’assoluta padronanza della lingua e della materia così come perfetta è la scelta di ogni singola parola. 

Gli incipit dei suoi libri che si tratti di saggi o di romanzi così come le prime pagine sono di una bellezza quasi commovente e l’empatia dell’autore verso i propri personaggi si riversa sull’affascinato lettore che ne resta completamente conquistato.

Alberto Bruschi non fa sconti a Gian Gastone, non edulcora la pillola quando deve raccontare dello stato in cui il Granduca trascorse gli ultimi anni, non si tira indietro, ma la sua penna riesce a farlo sempre con estrema delicatezza anche quando deve raccontare i fatti più penosi e squallidi.

La prima volta che incontrai la figura di Gian Gastone fu in occasione della lettura di “L’ultima regina di Firenze” di Luca Scarlini, libro che ho riletto, cosa che faccio molto raramente, non molto tempo fa per fare chiarezza sul mio sentire alla luce di tutte le successive letture.

Il racconto di Scarlini è un racconto dissacrante, le descrizioni riprendono molto dal testo di Giuseppe Conti e dai vecchi manoscritti tra cui il famoso manoscritto Moreniano n. 352. Ricordo che, pur non sapendo nulla di Gian Gastone, mi ero ribellata a quelle descrizioni e a quelle pagine, qualcosa di risultava troppo stonato e forzato. Così, per caso, è iniziato il mio viaggio alla ricerca del vero volto dell’ultimo Granduca. Quando poco tempo fa mi sono imbattuta nei libri del compianto Alberto Bruschi ho trovato finalmente tra le sue pagine un sentire comune e quell’immagine di Gian Gastone de’ Medici che avevo solo incidentalmente avvertito mi si è da ultimo palesata rivelandomi la fondatezza delle mie iniziali sensazioni. 

Il volume pubblicato nel 1995 da SP 44 Editore è ormai purtroppo fuori catalogo. Ho dato la caccia a questo libro per parecchio tempo perché non risultava di facile reperibilità neppure sul mercato dell’usato, ma direi che la fatica fatta per rintracciarlo è stata oltremodo ben ricompensata dal piacere della lettura.



domenica 26 dicembre 2021

Il soggiorno di Gian Gastone de’ Medici a Genova (giugno 1691)


Ritratto di Gian Gastone de' Medici 
di Niccolò Cassana (1690 circa) 


Il 6 maggio 1691 Anna Maria Luisa de’ Medici lasciava Firenze per raggiungere il suo sposo. Il matrimonio con l’Elettore Palatino era stato celebrato per procura a Firenze il giorno 26 aprile dello stesso anno.

Ad accompagnare la sorella per una parte di viaggio troviamo il principe Gian Gastone con un piccolo seguito, appena una quindicina di persone. Le spese erano tutte a carico del figlio cadetto del Granduca di Toscana Cosimo III pertanto il viaggio non si sarebbe potuto protrarre a lungo né tanto meno essere troppo dispendioso.

Sulla via del ritorno Gian Gastone ebbe modo di trascorre alcuni giorni a Genova nel mese di giugno.  Vittoria della Rovere scriveva al figlio Francesco Maria de’ Medici di essere sicura che il nipote avrebbe lasciato Genova il giorno del Corpus Domini (14 giugno).

Gian Gastone però fu sempre alquanto imprevedibile nel corso della sua vita, non amò mai seguire rigidi itinerari preferendo piuttosto lasciarsi trasportare dall’ispirazione del momento.

Dalle fonti sembra comunque che il principe fosse rientrato a Firenze con molta probabilità il 22 giugno 1691.

Il marchese Salviati scriveva a Francesco Maria de’ Medici sul soggiorno del principe “a Genova si è molto ben divertito delle allegrie che li anno fatte godere”.

Ad accendere la mia curiosità l’intervento di Patrizia Urbani con il suo articolo “Il principe nelle reti” in “Gian Gastone (1671-1737). Testimonianze e scoperte sull’ultimo Granduca de’ Medici” di cui vi ho parlato tempo fa e da cui ho tratto queste notizie sul viaggio.

Dunque, Gian Gastone a Genova dove aveva alloggiato e quali gli intrattenimenti per lui allestiti? Alla seconda domanda non ho ancora trovato risposte e chissà mai se le troverò.

Sulla prima invece ho iniziato a fare qualche ricerca e a formulare qualche ipotesi che potrebbe essere facilmente smentita da qualcuno più informato di me, ma vorrei comunque condividere con voi lettori del blog che ormai sarete stanchi di sentirmi parlare di questo ultimo Granduca Medici la cui storia tanto mi ha affascinato negli ultimi mesi.

Da quello che ho scoperto finora posso dire che tra i rappresentanti incaricati dalla Repubblica di Genova per l’accoglienza di Gian Gastone vi fu Francesco Maria Sauli, futuro 134° doge della Repubblica di Genova (dal 19 settembre 1697 al 26 maggio 1699).

Proprio a Francesco Maria Sauli toccò il privilegio di ospitare il principe cadetto del Granducato di Toscana, ma dove? 

A Genova esisteva dal 1576 un sistema di pubblica accoglienza conosciuto con il nome di Rolli ossia un elenco di dimore nobiliari che, suddivise in base a diversi parametri, tra cui il prestigio della famiglia di appartenenza, erano scelte per ospitare i visitatori nobili. 

L’ultimo elenco stilato è del 1664 e quella che a mio avviso potrebbe essere stata la dimora in cui venne ospitato Gian Gastone era iscritta a quel tempo nel bussolotto n. 3. Che cosa erano i bussolotti? Ad ogni residenza veniva attribuita una categoria che ne indicava l’idoneità ad ospitare visitatori di rango più o meno elevato. Le dimore assegnate al bussolotto n. 1 erano ovviamente quelle atte ad ospitare i personaggi di rango più alto tra cui anche i sovrani.


Palazzo Bendinelli Sauli - Genova

A mio avviso quindi Gian Gastone, quale figlio cadetto del Granduca di Toscana, potrebbe essere stato ospitato nel palazzo di famiglia più di rappresentanza della famiglia Sauli, attribuito alla terza categoria, ossia Palazzo Bendinelli Sauli vicino al Duomo, poco distante da Palazzo Ducale e a due passi dal porto.

Il palazzo si trova al n. 12 di Via San Lorenzo. La residenza fu ampliata nel corso dei secoli accorpando altre abitazioni fino a raggiungere l’aspetto attuale con l’ultimo accorpamento avvenuto nel XIX secolo.


Via San Lorenzo con scorcio sulla Cattedrale

Nel maggio 1684 il palazzo subì pesanti danneggiamenti per i bombardamenti della flotta francese di Luigi XIV, il Re Sole, cugino di primo grado proprio di Marguerite Louise d’Orleans, madre di Gian Gastone de’ Medici.

Il palazzo venne restaurato nel 1686. Tra le opere di pregio da ricordare ci sono in particolare gli affreschi di pittori genovesi quali Domenico Piola, Paolo Girolamo Piola e Lorenzo Ferrari.


La facciata sulla Cattedrale di San Lorenzo dopo gli ultimi accorpamenti

Per quanto riguarda la storia del palazzo vi rimando comunque agli Atti della Società Ligure di Storia Patria, nuova serie, LIII (CXXVII, fasc. I) e XLIX (CXXIII, fasc. II).

Speravo di trovare qualche accenno della visita di Gian Gastone a Genova nel manoscritto di Filippo Casoni, “De gli annali di Genova del secolo decimo settimo”, redatti proprio in quegli anni, ma non ne viene fatta menzione. Temo che la visita di un principe cadetto di un granducato come quello di Toscana non avesse molta rilevanza per la politica della Repubblica di Genova. Credo quindi che sarebbe forse più produttivo provare a cercare qualche riferimento tra la corrispondenza più che nelle cronache ufficiali dell’epoca.

La ricerca è appena iniziata e, se mai troverò il tempo di portarla avanti, vi terrò aggiornati…



lunedì 20 dicembre 2021

“Una lama nel cuore” di Winston Graham

La guerra è terminata e lo sconfitto Napoleone si trova confinato all’Elba. Non è un mistero però che in Francia molti gradirebbero un suo ritorno e per questo il governo britannico decide di inviare a Parigi Ross Poldark. Il suo compito sarà quello di cercare di carpire informazioni su eventuali movimenti bonapartisti tra le file dell’esercito francese.

Per dare maggiore copertura a questa sua missione Ross è stato invitato a portare con sé la famiglia. Dopo qualche attimo di esitazione Demelza accetta di accompagnare il marito insieme ai figli minori, la tredicenne Isabella-Rose e il piccolo Henry.

Mentre il primogenito Jeremy Poldark, arruolatosi tra le file dell’esercito britannico, si trova in Belgio insieme alla sua novella sposa Cuby; sua sorella Clowance è l’unica della famiglia ad essere rimasta in Cornovaglia.

Il rapporto tra Clowance e Stephen è sempre stato piuttosto burrascoso e anche se ora sono sposati il loro legame sembra non conoscere pace. Molto presto Clowance infatti verrà a conoscenza di un particolare del passato del marito che metterà ancora una volta a dura prova la sua fiducia in lui.

Mentre Ross e Demelza si trovano a Parigi, Napoleone riesce a fuggire dall’Elba e, sbarcato in Francia, muove verso la capitale deciso più che mai a riconquistare il potere. Bonaparte verrà sconfitto nella sanguinosa battaglia di Waterloo, ma i Poldark pagheranno a caro prezzo questa vittoria e le vite di tutti loro ne usciranno stravolte e segnate per sempre. 

Con “Una lama nel cuore” siamo giunti al penultimo capitolo dell’avvincente saga nata dalla penna di Winston Graham. Inutile sottolineare come, ancora una volta, anche questo undicesimo libro sia in grado di appassionare il lettore fin dalle sue prime pagine.

Come per i precedenti volumi infatti non mancano tanti colpi di scena, storie parallele che vivacizzano il racconto e nuovi personaggi pronti a scombinare gli equilibri preesistenti mentre le nuove generazioni coinvolgono il lettore con le loro avventure.

Se Ross Poldark e George Warleggan restano più o meno fissi nelle loro caratterizzazioni, lo stesso non si può dire per Demelza. Il suo è il personaggio che più di qualunque altro è cresciuto nel corso degli anni: una crescita lenta e costante che raggiunge la sua consacrazione proprio in questo penultimo capitolo muovendosi a suo agio negli eleganti salotti parigini. Lei, figlia di un minatore, ha ormai acquisito quella consapevolezza e quella fiducia in se stessa che ne fanno, a mio avviso, il personaggio più completo dell’intera saga.

Un’altra figura che conquista l’affetto dei lettori in questo romanzo è senza dubbio quella di Cuby che, affrancatasi finalmente dalle aspettative della propria famiglia, può finalmente muoversi libera esprimendo tutta la sua esuberante e al tempo stesso composta personalità.

Devo ammettere che non sono riuscita a provare alcuna simpatia per Stephen neppure leggendo questo nuovo episodio, mentre resto in attesa dell’ultimo capitolo della saga per sciogliere definitivamente ogni mia riserva su Lady Harriet Warleggan e Clowance Poldark.

In effetti di riserve da sciogliere ne restano parecchie così come restano da svelare diversi vecchi segreti che già da queste pagine si percepisce quanto ormai siano vicini ad esplodere

Quali saranno le conseguenze quando certe cose taciute per tanti anni verranno definitivamente rese pubbliche? Non ci resta che attendere il capitolo finale.




sabato 4 dicembre 2021

“La camicia bruciata” di Anna Banti

Nel castello di Blois le giornate si susseguono tutte uguali, ma la giovane Marguerite Louise è più che mai decisa a conquistarsi il suo posto nel mondo. Lei, figlia di Gastone d’Orleans e della seconda moglie Margherita di Lorena, non può contare su un ricco appannaggio; pur essendo una principessa del sangue, infatti, i mezzi della famiglia non sono purtroppo all’altezza del suo lignaggio. Lei che un tempo si pensava potesse era destinata a salire addirittura sul trono di Francia accanto al cugino Luigi XIV è ora costretta ad accettare che questi le trovi un marito degno del nome che porta e dell’illustre parentela.

È la stessa Marguerite Louise, una piccola zanzara, che in cerca di un riscatto impone la sua presenza alla scrittrice pretendendo che venga raccontata la sua storia. 

I suoi comportamenti, i suoi desideri, le sue bizze ai giorni nostri non avrebbero nulla di scandaloso, ma all’epoca crearono non poco scompiglio e ben più di un incidente diplomatico.

Avrete già capito che il malcapitato che fu scelto per la bella e capricciosa francese fu il figlio di Ferdinando II Granduca di Toscana e di Vittoria della Rovere. Sfortunatamente per il povero Cosimo Marguerite accettò le nozze impaziente di potersi finalmente dedicare a tutti quei divertimenti che a Blois le erano preclusi ma, ahimè, mai matrimonio fu più malamente assortito.

“La camicia bruciata” è però la storia anche di un’altra infelice principessa giunta nel Granducato di Toscana, Violante di Baviera la moglie del Gran Principe Ferdinando.

Marguerite Louise e Violante furono due donne dai caratteri profondamente differenti, in comune solo il triste destino di essersi legate agli ultimi protagonisti della dinastia medicea.

La francese fu tanto ambiziosa, irriverente e irrequieta quanto la tedesca fu accondiscende, pacata e sempre attenta alle necessità altrui.

Cosimo III e il figlio Ferdinando furono due figure diametralmente opposte, nel libro Anna Banti fa dire a Marguerite Louise del marito che fu un inetto, ipocrita e sempre pronto a scaricare i propri torti sugli altri.

Di sicuro Cosimo III, cresciuto da una madre iperprotettiva e devota fino al parossismo quale fu Vittoria della Rovere, non poteva essere l’uomo adatto ad una donna dal temperamento forte e bizzoso come quello di Marguerite Louise. Le ambizioni deluse non poterono che acuire l’inevitabile strappo che si produsse tra Cosimo e la moglie la quale, avendo come metro di paragone lo splendore della Corte del Re Sole, non poteva che detestare quella granducale che le appariva ogni giorno sempre più gretta, bigotta e claustrofobica.

Il Gran Principe Ferdinando molto aveva in comune con la madre, come l’essere alla continua ricerca di piaceri e svaghi, ma Violante considerava la sua una spensieratezza troppo ostentata per essere genuina.

Violante di Baviera era profondamente innamorata del marito ed era disposta a perdonagli ogni cosa. Era una donna mite e sensibile, l’unica che cercò persino di avvicinare il cognato Gian Gastone, dipinto dalla Banti come l’emarginato della famiglia, proprio lui che per beffa del destino siederà sul trono granducale come ultimo della sua stirpe.

Gian Gastone sembrava aver ereditato dalla madre il profondo desiderio di essere amato, come Marguerite Louise però non riuscì mai ad essere compreso e accettato, cosa che segnerà inevitabilmente la sua vita. Abbandonato dalla madre all’età di otto anni, lasciato ai margini dal resto della famiglia, al contrario di Marguerite Louise che cercava sempre in ogni modo, da zanzare qual era, di imporsi anche se con modi molto discutibili, Gian Gastone preferì sempre defilarsi dalla scena e dedicarsi ai suoi studi circondato dalle gabbie dei suoi amati uccelli esotici.

Violante, quella ragazza che aveva la facoltà di percepire immagini di persone assenti, una specie di maledizione che aveva dovuto assolutamente mascherare per non essere accusata di stregoneria, rimasta vedova riuscì a dedicarsi finalmente a se stessa e, come Governatrice di Siena, amata dai senesi per la sua buona amministrazione, trovò proprio in quella città il modo di rendere un po’ di giustizia al nome tanto vituperato della suocera grazie al ritrovamento di alcuni documenti lasciati lì dal fratello dallo zio di suo marito, Mattias de’ Medici.   

Il libro di Anna Banti è un romanzo estremamente piacevole e ben orchestrato. L’autrice ci restituisce lo spirito della corte granducale del tempo rendendo vivi davanti ai nostri occhi i suoi personaggi. Il taglio della narrazione è ironico, ma mai irriverente; il racconto disincantato, ma mai grottesco.

La storia è pensata e studiata nei minimi particolari e il realistico affresco dell’epoca che emerge dalle pagine del romanzo è l’evidente frutto di un vasto lavoro di ricerca e consultazione di fonti storiche.

Non ho mai amato particolarmente il personaggio Marguerite Louise e nonostante tutto neppure leggendo il libro della Banti la sposa di Cosimo III, pur con tutte le attenuanti del caso, è salita molto nel mio indice di gradimento. Ammetto invece di aver provato molta simpatia, sebbene mai lo avrei creduto possibile, per Violante di Baviera. Simpatia dovuta al suo interesse nei confronti del cognato Gian Gastone che si conferma ancora una volta uno dei miei personaggi preferiti, ma soprattutto per il suo modo di riuscire ad affrancarsi dal ruolo impostole dalla Corte dopo la morte dell’amato Ferdinando.

Il libro di Anna Banti è purtroppo fuori catalogo e l’unico modo per procurarvelo è come ho fatto io ricorrere al mercato dei libri usati, eppure meriterebbe davvero di essere ristampato.





sabato 27 novembre 2021

“Il cavaliere, la morte e il diavolo” di Luigi De Pascalis

Papa Leone X sul letto di morte consegna al suo buffone Fra’ Mariano Fetti un libro in tedesco intitolato Gespräch Büchlin opera di Ulrich von Hutten chiedendogli di tenerlo al sicuro, neppure suo cugino il cardinale Giulio Zanobi, futuro Clemente VII, dovrà esserne informato.

L’autore è uno dei più ferventi sostenitori delle tesi luterane e quel volumetto racchiude un segreto per il quale alcune persone sono morte e altre sarebbero disposte a morire. Seppur perplesso e spaventato Fra’ Mariano è costretto a farsi carico del pesante lascito e rendersi disponibile a consegnare il libro quando sarà il momento a colui che il Cielo gli indicherà come persona degna di fiducia.

Sonno passati quasi sei anni dalla morte di Leone X, dopo il breve papato di Adriano VI nel 1523 al soglio di Pietro è salito un altro Medici, Clemente VII. Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1527 i Lanzichenecchi di Carlo V irrompono in città dando inizio a quella triste e terribile pagina di storia che sarà ricordata come il Sacco di Roma.

Clemente VII si barrica con i suoi fedeli dentro Castel Sant’Angelo mentre la Città Eterna viene messa a ferro e fuoco dalle truppe imperiali senza controllo, tutto è devastazione e violenza. 

Il papa manda a chiamare Benvenuto Cellini per affidargli una pericolosa missione. Ad affiancare in questa missione il Cellini, musico per volere paterno, orafo e scultore per passione e bombardiere per necessità, troviamo un soldato spagnolo di nome José Garcìa. Insieme i due dovranno smascherare il mandante di una serie di assassinii conosciuto come il Bagatto.

Restare vivi in mezzo a quell’orrore fatto di violenza e devastazione non sarà facile tanto più che i pericoli sembrano giungere da ogni dove alimentati da strane vicende legate ad arcani segreti e antiche profezie. 

“Il cavaliere, la morte e il diavolo” è un avvincente noir dal ritmo molto serrato e dagli innumerevoli colpi di scena.

La narrazione è scorrevole e coinvolgente ma talmente densa di avvenimenti e misteri che al lettore non è concesso distrarsi neppure per qualche riga perché perdere il filo del racconto è davvero un attimo e si è costretti a tornare indietro per recuperare.

Benvenuto Cellini è un protagonista ricco di fascino, coraggioso e impavido, ma anche enigmatico e sfuggente laddove affiorano le sue insicurezze emotive e lo attanaglia il dubbio di non riuscire un giorno a realizzare quel suo grande sogno di diventare scultore.

Accanto a questa figura così carismatica una girandola di personaggi popola il grande affresco ricreato dalla penna di De Pascalis, un affresco vivido e realistico che coinvolge il lettore trascinandolo in prima linea a percorrere le strade di quella Roma dove follia e brutalità sembrano non avere mai fine.

Tutti i personaggi sono caratterizzati fin nei minimi dettagli ed emergono dalle pagine, vivi dinnanzi a nostri occhi, con tutte le loro sfaccettature in un mondo dove tutto è capovolto, dove la crudeltà umana sembra affiorare anche nelle persone più miti come nel caso di Rebecca, la figlia del medico ebreo Tobia.

Eppure, anche in un mondo dove la pietà e la compassione non sembrano poter più trovare rifugio all’improvviso anche nel più sordido luogo, tra le peggiori schiere, ci sono storie che lasciano aperto uno spiraglio di speranza come nel caso dell’amicizia di Barbara ed Entgen o in quello del rispetto dimostrato da Carl nei confronti di Faustina o ancora in quello dell’aiuto prestato da Mastro Latz il birraio al nemico di un tempo.

Due sono principalmente i punti di forza del romanzo: una trama ben costruita, emozionante, mai scontata e i numerosi personaggi, molti dei quali documentati da fonti certe e altri di pura fantasia, che insieme rappresentano il genere umano in ogni suo aspetto da quello più gentile a quello più spietato, da quello più grottesco a quello più armonioso.

La raffinata veste grafica è impreziosita da numerose illustrazioni relative alla città di Roma, a dipinti e a figure di personaggi tratte da fonti iconografiche del periodo a cui si riferiscono le vicende narrate nel romanzo.

Come scritto nella prefazione del libro la scelta delle illustrazioni è responsabilità dell’autore stesso la cui curiosità e passione per le immagini risulta evidente anche nella stessa scelta del titolo, “Il cavaliere, la morte e il diavolo” è infatti una delle più celebri incisioni di Albrecht Dürer, datata 1513.

Viviamo, Babbo Santo, che tutto il resto è burla!



Se siete interessati all’autore qui trovate il post dedicato ad un altro libro di Luigi De Pascalis, il primo di una trilogia, sempre edito da La Lepre Edizioni, di cui vi avevo parlato qualche tempo fa intitolato “Il signore delle furie danzanti”.