martedì 11 novembre 2014

“Terra ignota” di Vanni Santoni HG


“Terra ignota” è una saga fantasy scritta da Vanni Santoni. Per distinguere la sua produzione di testi fantastici dagli altri suoi romanzi, l’autore ha scelto di aggiungere al suo nome la sigla “HG” in omaggio a Guido Morselli.

“Terra ignota” è una trilogia di cui Mondadori ha pubblicato nel 2013 il primo volume “Risveglio” e recentemente  il secondo intitolato” Le figlie del rito”.

“Le figlie del rito” è da considerarsi il volume conclusivo della saga poiché il terzo, di prossima pubblicazione, sarà a tutti gli effetti un prequel che, come anticipato dall’autore stesso, tratterà esclusivamente dei fatti antecedenti alle vicende narrate nei primi due libri.

Tutti i libri possono essere tranquillamente letti come singoli romanzi, infatti, Vanni Santoni ha optato volutamente per un taglio della narrazione che permettesse al lettore di poter scegliere se leggere tutti i romanzi od uno solo senza vincoli cronologici.
                                                                                        
Ho letto entrambi i libri e personalmente ritengo che il finale di “Risveglio” renda quasi obbligatoria la lettura del secondo romanzo; diversamente “Le figlie del rito” grazie anche ad una dettagliata ed interessante introduzione nella quale vengono presentati tutti i personaggi e viene dato, seppur a grandi linee, un più che esaustivo compendio della storia generale, può essere letto tranquillamente da solo come un romanzo a sé.

Detto ciò il consiglio è ovviamente di leggere entrambi i libri per non perdere neppure un passaggio di quella che a tutti gli effetti risulta essere una convincente e suggestiva saga.

Addentriamoci ora in quanto viene narrato nei singoli volumi.

TERRA IGNOTA
RISVEGLIO
di Vanni Santoni HG
MONDADORI
Libro primo: “Risveglio” – Dopo un giorno e una notte di festa, il Villaggio Alto subisce un attacco da parte di cavalieri spietati. Essi appartengono al Cerchio d’Acciaio, il più nobile ordine dell’impero del quale fanno parte i più fedeli servitori dell’Imperatrice.
A comandare la spedizione è il Primo dei Dodici in persona, Aydric Reinhare, tanto bello quanto letale.
Durante l’attacco il villaggio viene dato alle fiamme, gli abitanti sterminati e la giovane Vevisa, la figlia dello shultz locale, viene rapita.
Vevisa ha il dono di poter comunicare a distanza inviando sogni. E’ proprio attraverso l’invio di un sogno che Ailis, la più cara amica di Vevisa, riuscita a mettersi in salvo perché non presente al villaggio al momento dell’attacco, viene a conoscenza di quanto accaduto.
Ailis decide di andare alla ricerca di Vevisa per liberarla e di Aydric Reinhare per vendicare la morte dei genitori e dell’amico Breu, anch’egli creduto morto.
Ailis è una ragazzina di solo dodici anni, per nulla portata allo studio, ma dotata di una forza straordinaria per la sua età.
Durante il suo viaggio farà molte esperienze, sarà fatta schiava, combatterà come un gladiatore, incontrerà molte persone e verrà a conoscenza delle sue vere origini.
Visiterà molti luoghi tra cui alcune delle Cinquantaquattro Città, attraverserà il mare e attraverserà anche la foresta di Broceliande, un luogo incantato e popolato da esseri fantastici.

Un luogo sognato così presto che ancora cova braci del primo sogno, e si può dire che in virtù di ciò continui a sognare per conto proprio.
(da "Le figlie del rito").

Facciamo un passo indietro per inquadrare meglio i luoghi e il contesto in cui si svolgono gli eventi raccontati in “Terra ignota”.

Il regno in cui tutti questi avvenimenti hanno luogo è un regno generato dal Sogno dell’Imperatrice. L’imperatrice dorme nelle sue stanze situate nelle profondità della Capitale delle Terre Occidentali e attraverso il suo sonno genera il Sogno che a sua volta genera il mondo.
A proteggere il sonno dell’Imperatrice sono preposti i cavalieri dell’Ordine del Cerchio d’Acciaio. Il cerchio interno, quello formato dai cavalieri più nobili e potenti, i più vicini all’Imperatrice è formato da 12 cavalieri o maestri.
Uno di questi è investito di maggiori poteri ed è per questo definito il Primo dei Dodici.
Al di sopra di tutti vi è poi il Gran Maestro.

Un tempo lontano, durante un rito organizzato dal Cerchio D’Acciaio, l’Imperatrice si unì con i quattro Re, i quattro serpenti, e generò le quattro figlie del rito che furono partorite da quattro schiave di palazzo, assassinate subito dopo il parto.

Ma ciò che non era stato previsto era il tradimento di alcuni cavalieri, in particolare di Aydric Reinhare, poi divenuto Primo dei Dodici, e di H.H. a sua volta investito della carica di Gran Maestro.
Le quattro figlie del rito furono rapite e portate lontano da quattro cavalieri per essere cresciute lontano dalla corruzione che aveva colpito il Cerchio d’Acciaio. Insieme alle figlie del rito furono sottratte anche la coppa e la spada, simboli di legittimità dell’impero.

Gahalad però pentito del gesto blasfemo compiuto da Odilon, ovvero l’aver sottratto la coppa e la spada, tornò sui suoi passi riportando Morigan, la figlia che gli era stata affidata, nella capitale.
Morigan venne quindi allevata e istruita sotto il controllo e la guida del Gran Maestro H.H.

TERRA IGNOTA
LE FIGLIE DEL RITO
di Vanni Santoni HG
MONDADORI
Libro secondo: “Le figlie del rito”Ailis, figlia della terra, Brigid, figlia dell’Aria, Lorlei, figlia dell’Acqua, Morigan, figlia del Fuoco sono ormai pronte.
Entrate tutte in contatto con la magia e con i loro rispettivi serpenti ovvero il Cromcruac (essenza della Terra), lo Shahrukh (essenza dell’Aria), lo Jormungang (essenza dell’Acqua) e il Drago (essenza del Fuoco), sono finalmente pronte a rivendicare il posto che spetta loro di diritto. Sono pronte, se necessario alla loro causa, persino a combattere tra loro.
Tutte però dovranno fare i conti con Vevisa, la protetta del Gran Maestro H.H. che, dopo anni di studio e applicazione, vuole tutto il potere per sé e non ha nessuna intenzione di indietreggiare neppure di fronte a quattro dee o meglio cinque dee, perché una quinta figlia del rito si nasconde tra le mura del Palazzo-Cattedrale.
L’elemento della piccola Nin è l’Etere, il cui signore è il Melektaus, il signore degli interstizi, colui che circonda gli altri quattro elementi.

“Terra ignota” è quello che viene comunemente definito un pastiche letterario. Moltissimi sono i richiami ad altre opere da quelle classiche a quelle moderne, potremmo elencarle all’infinito, potremmo citare Ariosto, Tolkien, Platone, Calvino così come i testi sacri tra cui la stessa Bibbia, o fare riferimento alla mitologia nordica, celtica, greca e romana.

Moltissime poi sono le citazioni dirette e indirette di altri autori oltre che di personaggi storici e leggendari.
Potrei sottolineare ad esempio il nome Yorick, di derivazione shakespeariana (Amleto) o i nomi di città che richiamano alla memoria famosi personaggi della storia come Ipazia, celebre filosofa, matematica e astronoma vissuta nella seconda metà del IV secolo d.C., oppure Boudica, leggendaria regina della tribù degli Iceni che guidò la più grande rivolta anti-romana della Britannia.
Inoltre non possono certamente passare inosservati passaggi come uno “studio matto e disperatissimo” famosissima citazione leopardiana.

I richiami all’Impero Romano sono espliciti soprattutto nel primo libro “Risveglio” laddove Ailis, dopo essere stata venduta come schiava, viene acquistata da un lanista per il proprio ludus e istruita nel combattimento per dare spettacolo nell’arena.
Nel secondo Ailis compie invece imprese che rimandano alle mitiche fatiche di Eracle, la cattura di un enorme cinghiale ricorda senza dubbio la cattura del cinghiale di Erimanto da parte dell’eroe greco.

Il mondo creato da Vanni Santoni si rifà sopratutto all’epoca medievale sia a quella leggendaria del ciclo arturiano (la cerca dei cavalieri, la tavola dello scacchiere che ricorda la tavola rotonda…) sia a quella più propriamente storica legata al mondo dei Templari (la figura del Gran Maestro, il richiamo all’idolo pagano Bafometto …).

Insomma come avrete capito c’è di che sbizzarrirsi e divertirsi a scovare richiami, citazioni e quant’altro; sarebbe davvero impossibile riuscire a farne un resoconto completo.
Io mi sono limitata ad anticiparvi qualcosa per farvi intravedere cosa vi aspetta tra le pagine di questa saga.
                                                                                                 
Entrambi i libri sono una piacevole lettura.
Personalmente in “Risveglio” ho apprezzato soprattutto la prima parte, mentre “Le figlie del rito” mi ha coinvolta completamente, in questo secondo volume la tensione narrativa non viene mai meno e la lettura scorre davvero veloce.
                                                                                                           
Vanni Santoni si è rivelato una gradita sorpresa tra gli autori fantasy italiani. L’avvincente trama, i personaggi ben riusciti e l’interessante universo creato dal suo autore, fanno di “Terra ignota” una saga stimolate ed affascinante.





domenica 2 novembre 2014

“La carezza leggera delle primule” di Patrizia Emilitri

LA CAREZZA LEGGERA DELLE PRIMULE
di Patrizia Emilitri
SPERLING & KUPFER
Un romanzo, tre storie o meglio la storia di tre donne che in apparenza non hanno nulla in comune ma che pagina dopo pagina rivelano al lettore l’arcano mistero per cui i loro destini sono indissolubilmente legati.

Febbraio anno 2000. Claudia Montini ha appena perso la madre. Un malore improvviso e per Agnese Catelli non c’è stato nulla da fare, a nulla sono valsi i soccorsi immediati, Claudia non è neppure riuscita a salutarla per l’ultima volta.
Claudia vive a Milano, una laurea in lettere e un progetto in corso all’università. E’ una ragazza ambiziosa, ha un solo desiderio nella vita ed una sola certezza quella di diventare una scrittrice famosa.
Ha lavorato sodo per questo suo obiettivo ed è determinata a fare in modo che nulla la possa ostacolare.
Non permetterà mai che qualcosa o qualcuno possa frapporsi tra lei e la sua notorietà, perché è questo che lei vuole per se stessa: la fama.
Lei sarà ricordata per le sue opere, scriverà un best seller, la sua vita non passerà nell’anonimato come quella dei suoi genitori, accontentarsi della normalità non fa per lei.

Per lei ordinario significava invisibile, mentre lei voleva che il mondo si accorgesse della sua presenza e non se ne scordasse più. Avrebbe fatto tutto quanto fosse necessario per emergere. Avrebbe fatto il possibile e l’impossibile.

A Varese, nella Residenza Villa Maria, Clorinda Cataldi festeggia i suoi 182 anni. Le autorità presenti alla festa così come tutti gli invitati ne ignorano ovviamente la vera data di nascita.
Linda è una donna ancora lucida che ama la lettura ed è molto colta. Grazie alla sua età può permettersi di esprimere i propri pensieri senza giri di parole tanto da apparire spesso spietata, scortese ed insolente.

Gioia per questa festa e malinconia per chi non è qui a festeggiare con me.

Linda ha vissuto a lungo, più a lungo di quanto sia umanamente possibile, non ha più una famiglia, nessuno di coloro che ha amato è ancora in vita, può solo ricordarli nelle sue preghiere.

Clorinda sa che è giunto il momento di raccontare la propria storia a qualcuno e sa che la persona a cui deve raccontarla è Claudia Montini.
Il racconto giungerà a Claudia per posta. A consegnare le grandi buste marroni ci penserà il suo fedele amico, l’ormai anziano Bartolomeo.

La storia della vita di Linda, se la ragazza vorrà, diventerà il best seller di Claudia Montini, potrà pubblicarlo a suo nome, perché Linda è disposta a regalarglielo e a rinunciare da subito ad ogni diritto sul manoscritto.

Quando Claudia inizia a ricevere le prime pagine, battute a macchina per facilitarle la lettura, rimane ovviamente spiazzata dal racconto, ma ne è talmente affascinata da restarne intrappolata nella trama.
Non può fare a meno di chiedersi se quel quaderno di ricette e di pozioni magiche di cui parla Clorinda esista davvero ed interrogarsi su come possa essere possibile che una donna sia stata condannata a vivere per sempre solo per averne sfogliato le pagine.
Claudia vive nel terzo millennio, per lei tutto ha una spiegazione, non crede alla magia, crede solo nella conoscenza.

Nonostante il panico che spesso la coglie perché questa donna misteriosa e sconosciuta sa di eventi della sua vita di cui solo i suoi familiari più stretti possono essere a conoscenza, non può fare a meno di andare avanti con la lettura ed esserne conquistata.

C’è una terza donna che fa parte del racconto, una donna la cui storia viene raccontata da Clorinda nelle prime pagine del manoscritto inviato a Claudia.
E’ la storia di Marta, una giovane vissuta alla fine del Seicento.
Marta era una guaritrice come lo erano state sua nonna e sua madre prima di lei.
Le erbe per lei non avevano segreti e la sua missione era aiutare e curare tutte le persone del suo villaggio.
Ma Marta viveva in tempi bui: la giovane venne accusata ingiustamente di stregoneria e, dopo essere stata a lungo torturata, fu condannata e bruciata sul rogo.

Cosa lega tra loro queste tre donne vissute in epoche così lontane? Qual è il misterioso segreto che Clorinda Cataldi nasconde? E perché Claudia Montini è proprio la persona a cui questo mistero deve essere rivelato?

Il libro di Patrizia Emilitri è un romanzo davvero originale sia per la particolarità della storia sia per il modo in cui viene sviluppato l’intreccio del racconto in cui ogni pezzo si incastra perfettamente a tempo debito come le tessere di un puzzle.

Pur trattandosi di una storia irreale e fantastica per i fatti da cui la storia prende vita e per i suoi successivi sviluppi, le tematiche affrontate sono tremendamente reali ed attuali: la vita è fatta di scelte, quanto siamo disposti a spingerci per ottenere ciò che vogliamo? Egoisticamente quanto è importante la nostra libertà? A quante cose siamo disposti a rinunciare? Quali sono le vere priorità nella nostra vita?
Ma soprattutto siamo sicuri di aver colto quale sia la vera differenza tra “vivere” ed “esistere”?

Ognuno di noi è sempre pronto a cercare scuse per i propri errori, ad addossare ad altri le colpe dei propri insuccessi, ma quante volte in realtà dovremmo biasimare solo noi stessi?

Ci sono mille decisioni giuste da prendere in ogni situazione… e ce ne sono mille sbagliate.

Una frase mi ha colpita particolarmente tra le tante che sarebbero da sottolineare in questo libro:

Perché un uomo può essere cattivo, ma una donna sa essere feroce.

Non so se possa essere considerata una verità assoluta, certo è che ci sono donne, che sanno essere particolarmente vendicative e meschine soprattutto nei confronti di altre donne.

L’autrice si limita a raccontare i fatti reali o fantastici che siano, senza prendere posizione.
Il suo è un racconto il più oggettivo possibile degli eventi.
Patrizia Emilitri lascia che sia il lettore a riflettere, confrontare ed eventualmente giudicare le azioni delle protagoniste del romanzo.

“La carezza leggera delle primule” è un inno alla lettura ed alla letteratura, come svago ed evasione oltre che come un indispensabile mezzo per l’arricchimento culturale dell’essere umano, per accrescere il proprio modo di esprimersi e come fonte di informazione.

Le citazione di libri ed autori sono tantissime: da Coelho alla Fallaci, da Euripide a Shakespeare, dalle sorelle Bronte a Victor Hugo, da Poe a Joyce solo per citare alcuni degli autori menzionati tra le pagine del romanzo.

Ammettere la propria ignoranza è combatterla. Imparare è il più grande atto di umiltà per un uomo, e anche per una donna. Non smettere di imparare, stimolare se stessi è la più grande forma di intelligenza. Convincersi di qualcosa e poi cambiare idea, grazie a nuove informazioni. Non fermarsi al primo giudizio, non fissare il pensiero su un unico punto e rifuggire da chi crede di avere tutto il sapere tra le mani, tutte le risposte.

Il libro di Patrizia Emilitri è un romanzo piacevolissimo dai mille spunti di riflessione; la lettura scorrevole insieme all’originale trama sospesa tra magia e realtà ne fanno un romanzo da leggere tutto d’un fiato.
                                                                                                                





domenica 26 ottobre 2014

“Il palazzo d’inverno” di Eva Stachniak

IL PALAZZO D’INVERNO
di Eva Stachniak
SUPERBEAT
Elizaveta Petrovna salì al trono nel 1741 con un colpo di stato e, dopo aver fatto imprigionare l’infante Ivan VI e la madre di lui, la reggente Anna Leopoldovna, assunse la guida dell’impero.
Nel 1743 la zarina Elisabetta di Russia non avendo figli, decise di designare come suo erede il nipote Karl Peter Ulrich, duca di Holstein, che ribattezzerà con il nome di Pietro Fedorovic.
                                                               
“Il palazzo d’inverno” racconta gli intrighi di corte e le cospirazioni che ebbero luogo negli anni che vanno dal 1741 al 1764.
A narrarci in prima persona la storia romanzata degli eventi storici è la protagonista del romanzo Varvara “Barbara” Nikolaevna.
                
Varvara è figlia di un semplice legatore di libri nato in Polonia e giunto alla corte di Russia per mettere le proprie abilità al servizio della famiglia imperiale.
I genitori di Varvara muoiono lasciandola sola al mondo. Ha solo sedici anni quando diventa “una protetta della corona” ovvero una di quelle ragazze orfane e abbandonate accolte sotto l’ala protettrice della zarina e impiegate al suo servizio.
Varvara Nikolaevna viene assegnata al guardaroba imperiale e qui viene da subito presa in antipatia e tiranneggiata dall’altezzosa capo cameriera di corte, madame Kluge.

Grazie all’interessamento del cancelliere di Russia, il conte Bestuzev, Varvara resterà ben poco confinata tra le domestiche assegnate al guardaroba della zarina e, istruita a dovere dal suo nuovo protettore, diventerà una spia di palazzo.

Io ero una “lingua”, una “gazzetta”, la portatrice della “verità” dei sussurri. Sapevo tutto di libri cavi, bauli con doppio fondo, meandri di corridoi segreti. Sapevo come aprire i cassetti nascosti nel tuo secretaire, staccare la ceralacca alle tue lettere e far sì che non ti accorgessi che erano state manomesse. Se fossi entrata nella tua stanza, avrei rimesso a posto il capello che avevi avvolto intorno alla serratura. Se ti fossi fidato del silenzio della notte, io avrei origliato i tuoi segreti.

Grazie al suo carattere intraprendente ed alle sue innate capacità Varvara diventerà ben presto, grazie ai suoi racconti, indispensabile non solo al conte ma alla zarina stessa.

Tra gli insegnamenti di Bestuzev ci sono però importanti regole da rispettare come non provare mai a tradirlo né cercare di ingannarlo, non abbassare mai la guardia, non fidarsi di nessuno e mai, mai per nessun motivo affezionarsi e legarsi a qualcuno.

Un giorno però giunge alla corte di Russia, la giovanissima principessa Sofia Federica Augusta Anhalt-Zerbst, che la zarina Elisabetta ha scelto come futura moglie del proprio successore.

Sofia, che cambierà il suo nome in Caterina, con la sua dolcezza ma soprattutto con la sua solitudine e le sue paure, farà breccia nel cuore di Varvara che per lei abbandonerà la sua prudenza sostenendola anche contro la volontà dello stesso Bestuzev che, contrario alla scelta della zarina, trama nell’ombra per mandare a monte il matrimonio e rispedire in patria la principessa.

Negli anni la scelta di sostenere Caterina da parte di Varvara si rivelerà una scelta coraggiosa, difficile e pericolosa, ma si rivelerà per certi versi anche la scelta vincente.

Caterina, infatti, è destinata ad un grande futuro, sarà ricordata da tutti come Caterina la Grande, una sovrana illuminata.
Una sovrana che amava dedicarsi alla lettura e amava leggere gli scritti di Voltaire, Diderot e Montesquieu.  
Sotto la sua guida la Russia conobbe uno dei periodi di maggiore riconoscimento a livello europeo.

Il romanzo di Eva Stachniak pur rifacendosi alle numerose biografie di Caterina II è a tutti gli effetti un’opera di pura finzione letteraria con una buona base di verità storica.

Varvara Nikolaevna è quindi solo un personaggio di fantasia, ma è così ben delineato da sembrare davvero reale e riuscire a creare con il lettore una straordinaria empatia.
E’ infatti un personaggio capace di catturare e affascinare il lettore, trascinandolo e rendendolo partecipe della sua storia sin dalle prime pagine.

Le descrizioni della corte con i suoi intrighi e le sue passioni, la sete di potere, i tradimenti sono inoltre talmente minuziose e perfette da risultare del tutto credibili.
Attraverso di esse il lettore può rivivere i fasti e gli inganni alla corte di Russia di metà Settecento come se egli stesso, in prima persona, potesse origliare le conversazioni da dietro qualche paravento o sbirciare incontri segreti attraverso le fessure tra le assi sconnesse del pavimento di una soffitta.

“Il palazzo d’inverno” è un romanzo storico avvincente e ben costruito; una lettura assolutamente imperdibile per gli appassionati del genere.




domenica 12 ottobre 2014

“L’ultimo fiore dell’anima” di Anna Melis

L’ULTIMO FIORE DELL’ANIMA
di Anna Melis
FRASSINELLI
Il romanzo è ambientato in Sardegna alla fine degli anni Trenta. 
L’azione si svolge tra Nuoro, all’epoca poco più di un paese, e l’Ortobene, un’altura granitica che si eleva ad est della città e sulla cui sommità nel 1901 fu posta la grande statua del Redentore.

Matilde Zedda è considerata da tutti un’istranza, una straniera. E’ figlia di una donna dell’isola e di un deportato.
Ilde, con la sua carnagione chiara e le trecce bionde, è diversa dalle altre donne dell'isola non solo per l’aspetto fisico, ma anche per la sua mente in quanto soggetta a frequenti crisi epilettiche.
I suoi concittadini per ignoranza e superstizione, ritengono che le convulsioni ed il delirio di cui la ragazza è spesso vittima a causa della malattia, siano invece da considerarsi tipici segni di possessione demoniaca.

Ilde è stata allevate dalle suore, ma all’età di 23 anni, su decisione del vescovo in persona, è data in moglie, senza che venga celebrato alcun matrimonio, al figlio maggiore della famiglia Caria, Giovanni Antonio.

La giovane è da sempre vista come una sciagura per il paese, una donna capace di ammaliare gli uomini per la sua bellezza, considerata da tutti una janua ovvero una fattucchiera.

Zuannantoni, il marito che è stato scelto per lei, è fisicamente un gigante, un uomo rude ed ignorante:

Non c’era poesia, né delicatezza nel marito, e spesso aveva il dubbio che non ci fosse nemmeno l’anima.

Inizia così per Ilde una vita fatta di violenze fisiche e psicologiche.
La giovane è costretta a subire i soprusi e gli insulti della suocera e di tutte le donne della famiglia Caria che la temono e la invidiano per la sua bellezza; ogni giorno è vittima della rozzezza e della forza del marito oltre ad essere violentata impunemente dai fratelli di lui ogni volta che questi decidono di trascorrere la notte a casa di Zuannantoni.

Ilde conduce una vita di sofferenze e di miseria, nonostante i begli abiti che il marito le fa indossare per mostrare a tutti di possedere la donna più bella del paese.
Alla ragazza non è concesso neppure di parlare con il figlio, deve nutrirlo, curarlo ma  le è severamente proibito qualunque altro tipo di rapporto con lui.
Ilde si rifugia così nei sogni, sogna di essere finalmente libera, libera di decidere per se stessa, libera di fuggire, libera di uscire di casa. Sogna l’amore, l’amore di un uomo che possa capire i suoi bisogni e che sia in grado di interpretare i suoi desideri.

Un giorno, dopo essere stata nuovamente vittima della violenza di Zuannantoni, rimasta sola in casa con il piccolo Jaccheddu, riceve la visita di un uomo e scambiandolo per il marito, stanca delle continue violenze, gli spara ferendolo gravemente.
Luigi Sanna, l’uomo che giace sanguinante ai suoi piedi, è un’anima dannata propria come lei.
Ha l’aspetto di un bellissimo giovane di soli ventisette anni, ma in realtà è un uomo molto pericoloso, un bandito evaso e ricercato.
Sarà lui il balente? il valoroso che Ilde ha sognato di poter incontrare un giorno, colui che la libererà dalla sua terribile schiavitù?

“L’ultimo fiore dell’anima” è una storia insolita, spietata e dalle immagini fortissime.
Racconta di una Sardegna dove regnano ancora le superstizioni e l’ignoranza. 
Una terra dove la violenza e la forza la fanno da padrone, dove anche chi dovrebbe difendere la legge spesso non è degno di indossare la divisa, dove le faide tra le famiglie si protraggono all’infinito trascinando con sé lutti e disperazione.

Su questo scenario si staglia la figura di Ilde, una donna dal carattere forte, una combattente che pur se in un primo momento si rifugia in se stessa, nelle sue visioni, nel suo linguaggio fatto non di parole ma di segni e sguardi, in seguito riesce a riappropriarsi della propria vita, ritrova la parola, anche se sulle prime quelle parole sembrano vuote e prive di significato a lei che, a solo poco più di vent’anni, ha già vissuto terribili esperienze.

Nel romanzo della Melis, come anche lei stessa segnala nella sua “nota dell’autrice” al termine del libro, ci sono precisi riferimenti a diversi artisti.
Non possiamo, leggendo le pagine del romanzo, non richiamare alla memoria le opere di una grande scrittrice sarda come Grazia Deledda, così come è impossibile non riconoscere l’omaggio che la Melis fa, descrivendo la cicatrice sul volto di Mariano Collu, al cantautore Fabrizio De Andrè:

e aveva un solco lungo il viso
come una specie di sorriso
(da “Il pescatore”)

“L’ultimo fiore dell’anima” pur ambientato quasi un secolo fa stupisce per l’attualità della sua storia, un'attualità che troppo spesso ancora oggi riempi le pagine dei quotidiani e ci viene sbattuta in faccia dai telegiornali.
Una società, la nostra, che nonostante il progresso e la cultura, è costretta a fare i conti ancora oggi con una realtà che vede ogni giorno i diritti delle donne troppo spesso calpestati, una realtà dove ci sono ancora troppe donne vittime di violenze fisiche e psicologiche ed incapaci di ribellarsi ai propri aguzzini.
Un mondo, il nostro, dove la paura del “diverso” è ancora fortemente radicata tanto che questi continua ad essere un emarginato, una vittima di insensati pregiudizi.

Un racconto che fa riflettere, una scrittura evocativa e una protagonista combattuta tra il desiderio di assecondare la propria natura ribelle ed il dovere di rispettare le convenzioni, fanno di “L’ultimo fiore dell’anima” un romanzo estremamente appassionante e toccante, assolutamente consigliato.

E non c’è vento e non c’è pioggia,
né abbastanza tormento nell’anima
per partorire l’ultimo fiore.



sabato 4 ottobre 2014

“Agnes” di Peter Stamm

AGNES
di Peter Stamm
BEAT
(Edizione originale Neri Pozza)
Agnes è morta. L’ha uccisa un racconto. Di lei non mi è rimasto nulla, se non questo racconto.

Questo l’incipit del romanzo, indubbiamente un inizio particolare ed intrigante.

Il protagonista del libro, io narrante della storia, scrive libri divulgativi.
Ha pubblicato volumi sui più svariati argomenti dai sigari alle biciclette. Al momento è impegnato a scrivere un libro sulle vetture ferroviarie di lusso.

Lui è svizzero di madrelingua tedesca e si trova a Chicago per condurre le ricerche per la sua prossima pubblicazione.
Un giorno in biblioteca conosce una ragazza molto più giovane di lui, ma nonostante l’evidente differenza d’età, la giovane potrebbe essere infatti sua figlia, ne rimane immediatamente colpito.

Agnes ha venticinque anni ed è laureata in fisica, al momento è impegnata a scrivere la sua tesi e lavora part-time come assistente all’Istituto di Matematica di Chicago; suona il violoncello e fa parte di un quartetto d’archi tutto femminile.
E’ una ragazza particolare, soffre di claustrofobia, detesta gli ascensori e gli appartamenti ai piani alti, inoltre:

in lei era insita una strana gravità, le sue opinioni erano inflessibili

Il loro incontro è un incontro normalissimo, durante una pausa in biblioteca, scambiano quattro parole e si incontrano nuovamente nei giorni successivi, iniziano a frequentarsi dapprima solo come amici ma poi tra loro nasce una storia vera e propria.

Tutto sembra procedere per il meglio fino a quando Agnes chiede al suo compagno di scrivere un racconto su di lei così da poter capire attraverso quelle pagine che cosa lui pensi veramente di lei e della loro situazione sentimentale.

Da qui la narrazione si sdoppia: abbiamo il racconto dell’autore, il romanzo vero e proprio, e quello scritto dal protagonista del romanzo stesso ovvero “il racconto di Agnes”.

La situazione precipita quando Agnes, leggendo la sua storia, sembra considerarla una via da seguire e la fa diventare una sorta di copione da interpretare e rendere reale…

La trama del romanzo è di una semplicità disarmante, la storia è una storia come tante: due persone si incontrano per caso, si conosco, si piacciono, si innamorano ma, come spesso accade, la vita le allontana.

Giorno dopo giorno nasce qualche incomprensione, una parola non detta o una parola di troppo e la storia d’amore inevitabilmente naufraga.

Sarà per l’idea particolare del racconto nel racconto o per la scrittura limpida e asciutta che rende la lettura piacevolissima, ma il romanzo di Stamm è decisamente un libro intenso e sorprendente; la storia che ci racconta scivola via come sabbia tra le dita.

La vita quotidiana logora il rapporto dei protagonisti come la classica goccia che giorno dopo giorno scava la roccia.

La fragilità e l’insicurezza di Agnes sono sentimenti che appartengono a tutti così come reali e comuni sono le paure di lui, la sua voglia di vivere un’intensa storia d’amore ed allo stesso l’ansia per l’impegno che questo comporterebbe:

Se adesso vado da Agnes, pensai, è per sempre. E’ difficile da spiegare; sebbene l’amassi e fossi stato felice con lei, solo senza di lei avevo la sensazione di essere libero. E per me la libertà era sempre stata più importante della felicità. Forse era questo che le mie compagne avevano chiamato egoismo.

Peter Stamm ha la capacità di saper raccontare la vita, la vita vera, quella di tutti i giorni e di saper sviscerare i sentimenti con una semplicità e una linearità senza eguali.

Con “Agnes”, Stamm riesce a coinvolgere il lettore parlandogli delle sue stesse emozioni, della continua e disperata ricerca della felicità, dell’ansia di vivere, dell’angoscia e del desiderio che si provano dinnanzi all’idea di legarsi ad un’altra persona, della voglia di libertà e della sensazione di estraneazione dal resto del mondo che spesso si prova.

Un romanzo, quello di Stamm, semplice solo ad una lettura superficiale, ma che in verità indaga profondamente la mente ed il cuore dell’uomo.






lunedì 29 settembre 2014

“Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)” di Giancarlo Giannini

SONO ANCORA UN BAMBINO
(ma nessuno può sgridarmi)
di Giancarlo Giannini
LONGANESI
Giancarlo Giannini nasce a La Spezia nel 1942. Nella città ligure trascorre la sua infanzia fino all’età di otto anni quando il padre viene trasferito a Napoli per lavoro.
Il padre di Giannini è un padre piuttosto assente e così egli trascorre le sue ore soprattutto con il nonno, il suo primo maestro di vita.
Un ruolo fondamentale nella sua infanzia lo hanno anche la nonna e le zie, le sorelle della madre; proprio nella cucina della nonna nasce la passione di Giannini per il cibo.
L’attore ama quei profumi e quei sapori che lo fanno sentire a casa in qualunque posto si trovi e forse proprio per questo motivo ha scelto di iniziare la sua biografia parlandoci della ricetta del pesto.
Non ha mai avuto comportamenti da star e non ha mai avanzato assurde pretese; l’unica sua richiesta durante le riprese in giro per il mondo è stata quella di avere una stanza con un angolo cottura dove, finito il lavoro sul set, potersi rifugiare a cucinare, un valido espediente per riuscire a rimanere fedeli a stessi ed alle proprie origini.
Quando a otto anni si trasferisce a Napoli con i genitori e la sorella, incontra un mondo completamente nuovo.
Quello ligure è un popolo tenace e testardo, i napoletani sono solari e fantasiosi; Giannini fa sue tutte queste caratteristiche.

Leggendo la sua biografia, incontriamo un perfezionista, un uomo che ama lo studio e la preparazione, ma che allo stesso tempo si scopre essere un uomo aperto all’innovazione, alla ricerca dell’escamotage per superare gli intoppi che possono nascere durante le riprese, un uomo per cui la recitazione è finzione e soprattutto gioco.

A Napoli frequenta un istituto tecnico elettronico; quelle per la fisica, l’elettronica e la scienza sono per lui delle vere passioni tanto che ancora oggi egli si considera un elettronico mancato.

Giannini approda al teatro in maniera piuttosto casuale, ha già conseguito il diploma in elettronica, quando viene invitato a salire sul palco per sostituire un attore assente ad uno spettacolo messo in scena dagli amici di un amico, spettacolo al quale egli era solito assistere e del quale conosceva ormai tutte le battute.
Il regista dello spettacolo riconosce subito il suo potenziale e lo incoraggia ad iscriversi all’accademia.
Giannini decide di darsi una possibilità come attore e si iscrive alle selezioni per entrare all’accademia di arte drammatica Silvio D’Amico dove non solo viene preso, ma ottiene anche una borsa di studio.
Due soli anni di accademia a Roma e la sua carriera inizia a decollare, fin da subito si esibisce infatti per grandi platee e condivide la scena con attori già affermati.

Giancarlo Giannini ci parla molto della sua infanzia, ma ci racconta pochissimo della sua vita privata; una scelta, quella di difendere la sua privacy, che egli ha mantenuto rigorosamente sin dagli esordi.
Non manca invece di raccontarci numerosi episodi ed aneddoti legati alle persone che ha incontrato durante la sua lunga ed intensa carriera che lo ha visto lavorare in teatro, recitare per il cinema sotto la direzione dei più grandi registri italiani e stranieri, essere regista lui stesso oltre che doppiatore di famosissimi attori hollywoodiani tra cui Jack Nicholson, Mel Gibson, Al Pacino, Dustin Hoffman, Michael Douglas.
La sua è una vita fatta di incontri con i grandi del teatro, ma soprattutto del cinema. Ha conosciuto e recitato con straordinarie attrici e importanti attori: Anna Magnani, Monica Vitti, Mariangela Melato, Stefania Sandrelli, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Alain Delon, Keanu Reeves, solo per citarne alcuni, ma sono davvero tantissimi.
Così come sono tantissimi gli straordinari registi con i quali ha avuto l’onore e il privilegio di lavorare e dei quali in queste pagine ci racconta particolarità e curiosi episodi: da Luchino Visconti a Lina Wertmuller, da Fassbinder, a Monicelli, da Pupi Avati a Franco Zeffirelli… e volendo citare qualche americano possiamo ricordare Ridley Scott, Spielberg….

Giancarlo Giannini si definisce “ancora un bambino”, ma leggendo queste pagine ne esce un personaggio piuttosto contraddittorio.
Un uomo estroverso ed introverso allo stesso tempo, un bambino per la sua voglia di recitare e giocare, di costruire oggetti con le proprie mani, di scoprire il mondo, ma anche un uomo che ama i suoi momenti soli, un uomo che desidera la solitudine e non la teme, così come non ha paura della morte perché per lui la morte è il mistero più grande, è il raggiungimento della conoscenza.

Quando leggiamo del Giancarlo bambino che solitario medita sulla spiaggia, ci chiediamo se egli sia mai stato davvero un bambino e allo stesso tempo quando leggiamo del Giannini adulto che entra in un negozio e compra un robot per montarlo e smontarlo affascinato dai suoi meccanismi, comprendiamo perché lui si ritenga ancora tale.
Inevitabilmente si sovrappongono davanti ai nostri occhi le immagini di un bambino già adulto e quella di un adulto ancora bambino.

Giannini affascina il lettore per la sua energia, la sua sete di conoscenza, per il suo desiderio di capire come siano fatte le cose, per l’entusiasmo che prova nel costruire oggetti con le proprie mani; stupisce il lettore con le sue passione per la fotografia e la pittura e lo sbalordisce con i brevetti delle sue invenzioni.

Si scopre così una persona che non perde occasione per mettersi in gioco, che non si tira mai indietro, che accetta le sfide perché gli permettono di cercare di raggiungere quella famosa asticella che qualcun’altro prima di lui ha posto lassù in alto e che, se possibile, vorrebbe egli stesso riuscire ad alzare ancora un poco per chi ci proverà dopo di lui.

Io sono sempre stato un artigiano della recitazione. Non ho mai improvvisato, ho sempre avuto una preparazione molto solida alle spalle.

Interessante leggere il pensiero di un attore del suo calibro sui vari metodi di interpretazione.
Per Giannini recitare è un gioco, è finzione e in quanto tale il personaggio deve essere interpretato dall’attore facendo propria la parola chiave “creatività”.
Ad Hollywood è tutto diverso; secondo l’acclamato metodo dell’Actors Studio, infatti, l’attore deve calarsi nella parte, deve immedesimarsi nel personaggio stesso.

Loro hanno gente che entra nel personaggio, stando male come stanno male nella finzione. Ma non scherziamo, ragazzi, io mica sono per quella scuola. Io interpreto un personaggio. Io lavoro sul personaggio. Non fatemi fare troppi sforzi, dai, su. E ` solo un gioco.

Giannini ripete spesso che recitare è un gioco, “to play” in inglese vuole dire sia giocare che recitare, ma è un gioco serio perché l’attore ha comunque delle responsabilità ben precise nei confronti del pubblico:

Noi attori abbiamo un dovere nei confronti degli altri: siamo privilegiati, e il risarcimento verso chi ci guarda deve essere chiaro, netto, immediato. Abbiamo il dovere di ricordare a tutti che c’è un’alternativa alla realtà, alla logica, all’omologazione e all’istinto.

Ci sono poi pagine bellissime sul comprendere che tipo di regista l’attore si trovi di fronte.
Secondo Giannini già alla seconda scena si può comprendere se il registra è un illuminato o un mediocre.
Nel primo caso si può aprire un dialogo fatto di proposte e controproposte, il tutto porterà a produrre qualcosa di eccellente e mai visto prima.
Nel secondo caso, Giannini suggerisce, di fare quello che il regista chiede, senza discutere tanto sarebbe solo tempo sprecato oltre a portare solo una sofferenza atroce.
Giannini ovviamente lo applica al suo mondo, quello del set cinematografico, ma è indubbiamente un valido suggerimento per ognuno di noi qualunque sia la nostra occupazione.
                                                                                                                               
Giancarlo Giannini è un personaggio vulcanico e per sua stessa ammissione sempre in continuo movimento:

Devo avere idee, altrimenti mi spengo. Devo sperimentare, pensare, creare, altrimenti è come entrare in letargo e buttare via qualcosa di prezioso. Non mi sono mai fermato, in tutta la mia vita.

“Sono ancora un bambino (ma nessuno può sgridarmi)” è un libro un po’ disordinato, dirompente e frenetico come il suo autore.
Fa sorridere il fatto che un’autobiografia di un attore che usa la carta millimetrata per disegnare assi cartesiane sulle quali riportare gli stati d’animo del personaggio che deve interpretare e che disegna una griglia a colori per ricordare quali personaggi si incontrino nelle varie scene, sia così “caotica” inteso ovviamente nel senso buono del termine.
Giannini riesce a catturare l’attenzione del lettore e a mantenerla viva pagina dopo pagina grazie anche a questi continui “salti” del racconto che non sempre segue una linearità temporale.

Perché leggere questo libro?
Perché è interessante leggere di un personaggio così versatile, capace di interpretare ruoli comici e drammatici con la stessa intensità e bravura, un uomo dotato di grande spiritualità ed allo stesso tempo di un notevole senso pratico.
Perché racconta la storia del cinema italiano con qualche assaggio del mondo hollywoodiano al quale l’Italia non dovrebbe invidiare nulla.
Perché fa venire una voglia matta di riscoprire il nostro cinema e di andare a rivedersi tutti i vecchi film per capire, conosce e approfondire.




domenica 21 settembre 2014

“Chiara di Assisi” di Dacia Maraini


CHIARA DI ASSISI
Elogio della disobbedienza
di Dacia Maraini
RIZZOLI

Dacia Maraini scrive che sono i personaggi a chiederle di essere raccontati, si presentano alla sua porta per un tè e poi magari domandano di restare anche per la cena e a volte chiedono pure un letto per la notte; a quel punto lei capisce che è giunto il momento di scrivere un nuovo libro.

Se ci soffermiamo a riflettere un momento, non è poi così diversa la dinamica che spinge un lettore a scegliere un libro. Spesso, infatti, è lo stesso libro a sceglierci e non viceversa.

Così è accaduto che “Chiara di Assisi” di Dacia Maraini mi abbia scelta…
Un giorno di luglio, una delle tante domeniche piovose che hanno caratterizzato la nostra estate, mi sono imbattuta per caso nella replica di una puntata di “Visionari”, la trasmissione di Corrado Augias.
La puntata era dedicata a Chiara di Assisi; ospiti in studio Dacia Maraini, la professoressa Chiara Frugoni e Giacomo Galeazzi.
Non sono particolarmente religiosa, come tanti sono cattolica non praticante, e ad essere sincera avevo una conoscenza solo superficiale di Santa Chiara, la cui figura spesso è stata messa in ombra dall’immensa figura di San Francesco.
Sono rimasta però talmente affascinata da questa donna che al ritorno dalle vacanze ho deciso che era giunto il momento di cercare di scoprire chi fosse veramente Chiara e, quasi senza rendermene conto, mi sono ritrovata a leggere il volume di Dacia Maraini.

E’ fondamentale quando si decide di avvicinarsi a questa figura di donna, poi divenuta santa, non dimenticare mai che non può e non deve essere giudicata in base a criteri moderni.
Chiara, come la stessa Dacia Maraini sottolinea più volte, è una giovane del suo tempo e come tale ha compiuto delle scelte, comportandosi in modo che ai nostri occhi potrebbe sembrare banale, forzato o talvolta persino scontato, ma che nella realtà dei fatti per lei non lo fu affatto.

Il libro non lo si può definire né un romanzo né un saggio.
La Maraini trova un simpatico e devo dire molto ben riuscito escamotage per introdurre la storia di questa mistica.
Inventa una misteriosa corrispondenza con una ragazza siciliana, tale Chiara Mandalà, che la invita a scrivere di quella santa che porta il suo stesso nome.
Il racconto assume quindi dalle prime pagine uno stile epistolare per poi passare ad una forma diaristica in cui la scrittrice giorno per giorno annota non solo quanto apprende su Chiara di Assisi nel corso delle sue ricerche, imponente la bibliografia consultata, ma anche le sue stesse impressioni su questa straordinaria figura femminile del Duecento.

Chiara Mandalà è una ragazza strana che ad un certo punto sparisce dal racconto, permettendo così alla scrittrice di seguire la propria personale ricerca sulle orme della santa di Assisi, salvo poi farsi nuovamente viva alla fine del racconto per discutere delle conclusioni tratte dalla Maraini su quanto appreso.

La motivazione addotta da Chiara Mandalà alla domanda del perché per lei sia così importante che uno scrittore o una scrittrice scriva questo libro è in apparenza priva di senso: Chiara non riesce a capire se stessa e ritiene semplicemente che se qualcuno, Dacia Maraini è la sua seconda scelta, scrivesse di Santa Chiara, lei finalmente sarebbe in grado di trovare la sua strada.

Oltre al nome, le due Chiara hanno in comune un rapporto conflittuale con il cibo: Chiara Mandalà è anoressica e per quanto riguarda Santa Chiara è risaputo che digiunasse spesso e mangiasse comunque pochissimo.

Leggendo la vita di Santa Chiara e l’importanza che per lei assunse il digiuno, si ha quasi l’impressione che i disturbi alimentari, così comuni nella società moderna, nascano quasi da uno stesso desiderio di spiritualità.  

Spiritualità che nel caso della santa fu di origine religiosa, ma che nel mondo contemporaneo potrebbe essere anche di natura diversa.
E’ come se il corpo sia considerato un impedimento per raggiungere l’io più profondo o il divino e per questo motivo si decida di boicottarlo privandolo del naturale sostentamento.

E’ come se il corpo fosse qualcosa che impedisce di raggiungere lo spirito, Il piacere della tavola le era diventato molesto, come il sapore della costrizione, il sapore dell’obbligo.

Chiara rifiutava infatti tutto ciò che era imposizione compreso il bisogno del cibo.

Entrambe le Chiara inoltre sono vergini, non solo il corpo viene quindi punito con la fame, ma viene privato anche di ogni altro piacere che possa distogliere la persona dalla più profonda spiritualità e dal raggiungimento della piena libertà.

Ma chi era Chiara di Assisi?

Chiara ha scelto la povertà assoluta. Ha abbandonato una stanza addobbata, un matrimonio agiato, una casa, dei camini accesi, vesti di broccato, gioielli, buon cibo, l’affetto dei suoi, per andare ad abitare in una bicocca, al freddo, dormendo su un sacco riempito di foglie su un pavimento gelido, contando solo su un poco di cibo elemosinato.

Partendo da queste premesse Dacia Maraini rende partecipe il lettore del suo viaggio alla ricerca delle motivazioni che spinsero una giovanissima e bellissima ragazza a compiere scelte così drastiche.
La Maraini si interroga sul perché Chiara abbia deciso di seguire Francesco.
Sembra impossibile che una giovanissima donna, praticamente una ragazzina, potesse avere una volontà così ferrea da scegliere una strada così difficile; una scelta della quale, non dimentichiamolo, non si pentì mai.
Chiara, pur giovanissima, si innamorò dell’ideale francescano a tal punto da sacrificare tutto per sposare la povertà.
A Francesco dobbiamo riconoscere il grande merito di essere riuscito a trovare una tanto risoluta e virtuosa seguace, senza nulla togliere ovviamente alla vocazione di Chiara che fu vera e profonda.

Viene inoltre spontaneo chiedersi quanto sulla scelta di Chiara abbia influito il rifiuto del matrimonio.
Dobbiamo ricordare che le donne nel medioevo avevano solo due possibilità: il matrimonio o il convento. Chiara scelse liberamente il secondo, ma non ci sono certezze che fosse stata indotta a ciò per sfuggire al primo.
Di certo però sappiamo che, se anche il desiderio di evitare il matrimonio le fece scegliere il convento, lei non si pentì mai della sua scelta, tanto che diventata badessa del convento di San Damiano per volere di San Francesco, non rivendicò mai per se stessa il ruolo di protagonista, ma anzi spesso, come si evince dalle testimonianze tratte dal processo per la sua canonizzazione, compì lei stessa i compiti più umili e non disdegnò neppure di gettarsi ai piedi delle monache per convincerle dei loro errori e riportarle sulla retta via .

Ma nonostante questo buono e mite carattere Chiara di dimostrò sempre irremovibile nei suoi proposti e, facendo appello a tutta la sua dolcezza, perseguì sempre il suo fine:

Et mai non podde essere inducta né dal papa né dal vescovo Hostiensi che recevesse possessione alcuna.

Possedere qualcosa significa doverlo difendere e nel difenderlo diventare schiavi di quel qualcosa; Chiara desiderava la libertà, non voleva vincolo alcuno, nessuna imposizione.
La povertà diventa un privilegio laddove non è imposta, ma è decisa per libera scelta.

La libertà non è soltanto arbitrio, la libertà non è rifiuto delle regole o chissà quale altra diavoleria.
Esiste anche la libertà della curiosità, della scoperta, della conoscenza, dello scambio, del vagabondaggio.

Potrei parlarvi ancora per ore di questo libro: bellissime sono ad esempio le immagini della vita nel convento di San Damiano, potrei raccontarvi della malattia di Chiara e del suo modo di affrontarla, un’invalidità che la costrinse a letto dai trenta ai cinquantanove anni, ma davvero vorrei che scopriste da soli questa donna, non solo per la sua religiosità della quale ovviamente era impregnata, ma per la forza e per la dolcezza che emanava quella sua esile figura che sapeva essere contemporaneamente mite ed energica, remissiva e potente, tanto da riuscire a modificare le regole del suo tempo.

“Chiara di Assisi” è un libro affascinate come la sua protagonista, interessante e ben documentato, che vi conquisterà sin dalle prime pagine.
Un ottimo punto di partenza inoltre per chi volesse in seguito approfondire l’argomento.