giovedì 21 agosto 2014

“Inferno” di Dan Brown

INFERNO
di Dan Brown
MONDADORI
Protagonista del romanzo è nuovamente il celebre personaggio nato dalla penna di Dan Brown, Robert Langdon, l’affascinante professore di storia dell’arte ed esperto di simbologia.

Il titolo “Inferno” è un chiaro richiamo alla prima cantica della Divina Commedia ed proprio a Dante e alla forte simbologia presente nella sua opera più famosa che si ispira la vicenda del romanzo.

Robert Langdon si risveglia in un letto di ospedale a Firenze dopo essere stato ferito alla testa da un colpo di pistola.
Il trauma cranico ha compromesso la sua memoria a breve termine; il professore non ricorda praticamente più nulla di quanto accaduto nelle ultime ore prima dell’incidente e tanto meno ha idea del perchè si trovi nel capoluogo toscano.

Langdon è continuamente ossessionato dall’immagine di una bellissima donna, non più giovane e dai capelli argentei, che lo richiama dall’altra sponda di un fiume le cui acque sono rosso sangue.
La donna, ai cui piedi si trovano cadaveri e corpi in agonia, in una specie di visione dell’inferno dantesco, ripete solo due parole: cerca trova.

La dottoressa Sienna Brooks mentre esamina il quadro clinico di Robert porgendogli domande e sollecitandolo a ricordare qualcosa, lo informa che al suo arrivo in ospedale ripeteva continuamente “very sorry” come se volesse scusarsi di qualcosa con qualcuno.

Ben presto chi ha sparato a Robert riesce a rintracciarlo, entra nella sua stanza e fredda con un colpo da arma da fuoco il dottor Marconi, il medico con cui Sienna stava collaborando.
La dottoressa Brooks, dopo un primo momento di smarrimento, afferra il paziente per un braccio e lo conduce immediatamente fuori dall’ospedale.
I due riescono a sfuggire all’inseguimento del killer e a giungere a casa di lei.
Sienna, ormai coinvolta nella misteriosa vicenda, si vede costretta suo malgrado a fornire tutto l’aiuto necessario a Langdon perché questi possa ricostruire cosa sia realmente accaduto negli ultimi giorni e capire per quale motivo qualcuno lo voglia morto…

“Inferno” è uscito in libreria da più di un anno e i pareri su questo romanzo sono piuttosto discordi.
Qualcuno è rimasto affascinato e qualcuno invece lo ha definito semplicemente un romanzo come tanti altri.
Se lo paragoniamo a “Il codice Da Vinci” credo che rimarremmo ovviamente tutti delusi dalla lettura, non solo perché il più celebre romanzo di Dan Brown sia realmente più coinvolgente, ma perché alla sua uscita “Il codice Da Vinci” era davvero qualcosa di nuovo e come tale era stato in grado di affascinare milioni di lettori.

Ho letto tutti i libri di questo autore e, ad essere sincera, nonostante il mio iniziale scetticismo, “Inferno” mi è piaciuto molto di più di altri suoi romanzi.

Indubbiamente il mio interesse è stato fortemente sollecitato dai richiami a Dante, alla simbologia della Divina Commedia, dai dipinti presi in esame senza dimenticare la splendida ambientazione del racconto che passa da Firenze a Venezia per giungere fino ad Istanbul nelle sue pagine conclusive: Palazzo Pitti, il corridoio vasariano, il Duomo di Firenze e il Battistero, Piazza San Marco e il Duomo, il racconto della Venezia dei Dogi e infine Santa Sophia ad Instanbul.

Ho trovato particolarmente interessante anche la costruzione della storia incentrata sulla corsa contro il tempo per sventare la minaccia di un nuovo virus in grado decimare la popolazione mondiale; affascinante il confronto tra la peste dei secoli passati e qualcosa di estremamente letale creato in vitro dall’uomo.

“Inferno” è un giusto mix di storia dell’arte, adrenalina e temi di attualità come l’etica a cui dovrebbe attenersi la ricerca scientifica o il problema della crescita senza controllo della popolazione mondiale contrapposto al costate impoverimento delle risorse perché questa sia in grado di sopravvivere.

Confesso che  ho trovato le prime pagine del romanzo terribilmente noiose e che è stato davvero faticoso superarle, ma una volta entrata nella dinamica del racconto sono stata letteralmente catturata dalla velocità e dall’intelligenza con cui questo è stato orchestrato e dagli immancabili colpi di scena finali.

Dan Brown ha dimostrato ancora una volta di essere il migliore nel saper condurre il lettore all’interno della narrazione, di essere in grado di coinvolgerlo nell’indagine e nella ricostruzione dei vari elementi attraverso i quali giungere alla soluzione del caso.



lunedì 18 agosto 2014

“Le navi dei vichinghi” di Frans Gunnar Bengtsson

LE NAVI DEI VICHINGHI
di Frans Gunnar Bengtsson
SUPERBEAT
Frans Gunner Bengtsson (1894-1954) fu un importante poeta e scrittore svedese che scrisse diversi saggi su vari personaggi letterari e storici tra cui Walter Scott, Joseph Conrad e il re svedese Carlo XII.

L’opera che gli diede più fama fu però “Le navi dei vichinghi”, romanzo che venne pubblicato in due parti, la prima nel 1941 e la seconda nel 1945.

Il libro narra le vicende di Orm il Rosso, figlio di Toste e di Asa.
Orm aveva un fratello maggiore di nome Odd, un ragazzo robusto e saggio che già in giovane età era solito accompagnare il padre nei viaggi per mare in cerca di prede e di bottino.

Nonostante Odd avesse dimostrato fin da subito di essere un abile navigatore ed un valoroso guerriero, Asa gli preferiva Orm più docile caratterialmente e fisicamente più alto e snello del fratello, tanto da preoccupare la madre per la sua salute cagionevole.

Quando Odd raggiunse l’età per andare per mare, la madre convinse il padre a farlo rimanere a casa ancora per un altro anno adducendo come scusa un sogno premonitore secondo il quale, se il figlio fosse partito, avrebbe certamente incontrato la morte sulla tolda di una nave.
Toste acconsentì alla richiesta della moglie, ma durante l’assenza del padre e del fratello, la fattoria fu attaccata e Odd fu fatto prigioniero dagli uomini di Krok.

Questi erano partiti da Liester con tre navi con l’intenzione di fare bottino nel paese degli slavi, ma le cose non erano andate esattamente come si erano aspettati.
Odd, grazie all’astuzia invece di essere ucciso da coloro che l’avevano catturato, non solo riuscì a salvare la pelle, ma addirittura ad unirsi alla spedizione di Krok e partire per una grande avventura.

Inizia così il racconto del primo dei  tre viaggi per mare affrontati da Odd il Rosso nel corso della sua lunga vita.
Leggendo delle sue peregrinazioni lo vediamo conquistare bottini e vincere battaglie; leggiamo di come fu catturato e reso schiavo, costretto per anni a remare incatenato insieme ai suoi uomini sulle navi del califfo; lo ritroviamo poi, grazie alla sua arguzia e ai colpi della sua buona stella, tra le guardie del visir Almansur e poi di nuovo nella sua terra alla corte di Harald Dente Azzurro, re di Danimarca; infine leggiamo delle sue razzie sulle coste inglesi impresa che lo guidò sino a Westminster dinnanzi a Etelredo, re d’Inghilterra…

Molto interessante è la breve introduzione al romanzo di Michael Chabon.
Egli non ci parla solo della storia, ma ci racconta anche di come da giovane egli sia venuto in possesso del romanzo, regalatogli da una zia che si era stabilita per una ventina d’anni proprio in Danimarca.

Michael Chabon lesse per la prima volta il romanzo intorno all’età di quattordici anni rimanendone letteralmente affascinato. 

“Le navi dei vichinghi” è una bellissimo racconto d’avventura le cui storie di battaglie epiche, avventure per mare, scorribande, razzie, omicidi, storie d’amore e incontri con straordinari personaggi ne fanno un libro adatto anche ai lettori più giovani.

L’opera di Bengtsson è un romanzo storico di grande fascino grazie sopratutto alla sapiente ironia con cui lo scrittore riesce a delineare i suoi protagonisti, vedi ad esempio l’ipocondria da cui è afflitto un guerriero forte e valoroso come Orm il Rosso, e per l’abilità e lo humour con cui riesce a risolvere situazioni piuttosto controverse come l’incontro e l’inevitabile scontro delle diverse religioni: l’antico pantheon vichingo, il cristianesimo, la religione musulmana senza dimenticare l’introduzione persino dell’elemento ebreo, tramite il personaggio del giudeo Solimano.

“Le navi dei vichinghi” è un classico imperdibile che racconta l’epopea di un popolo epico, audace e di grande fascino, un romanzo assolutamente da leggere.

Un unico consiglio prima di affrontare il testo, se non siete ferratissimi sulla geografia della Scania, dello Jutland e dei vari luoghi all’epoca in cui il racconto è ambientato, procuratevi una mappa che vi aiuterà nel vostro “viaggio”…buona lettura!


domenica 17 agosto 2014

“Il nuotatore” di Zsuzsa Bánk

IL NUOTATORE
di Zsuzsa Bánk
NERI POZZA 
La storia è ambienta in Ungheria negli anni ’50 del secolo scorso quando la cortina di ferro divideva in due l’Europa.

Katalin lavora in una fabbrica a Papa. Ogni mattina esce di casa e Kata, la sua bambina, puntuale si alza all’alba per poterla salutare dalla finestra.

Un giorno però Katalin se ne va in silenzio, prima della solita ora, così che nessuno possa vederla. 
Un giorno come tanti altri decide di abbandonare il marito Kalman e i figli Kata e Isti per andare all’ovest attraversando il confine austriaco.
Katalin non parte sola, ad accompagnarla in questa avventura verso una nuova vita c’è la sua amica Vali.

Quando l’aria in paese diventa irrespirabile a causa del continuo parlare della gente, Kalman vende casa e terreno e parte con i bambini.
I tre iniziano a girovagare per il paese senza alcuna prospettiva e senza alcuna intenzione di trovare un luogo da poter chiamare nuovamente casa.

Le loro peregrinazioni li portano a chiedere ospitalità ai parenti sparsi nelle varie regioni ungheresi.
La prima tappa è Budapest dalla madrina Manci, poi è la volta di Szerencs a casa della zia Zsofi per proseguire fino a Siofok dalla Zia Agi.
In seguito i tre si fermano per qualche tempo a casa della nonna paterna Anna per fare ritorno di nuovo a casa di zia Zsofi a Szerencs.

In questo continuo peregrinare senza meta, sospesi fuori del tempo, i giorni trascorrono sempre uguali nell’attesa di qualcosa di indefinito; non c’è nessuna felicità tranne in rari momenti sul lago Balaton come quando Isti può nuotare libero, senza essere assillato dai problemi, dalle paure e dai dubbi.

Non ci lasciavamo dietro nulla. Il tempo adesso passava in un attimo, andava semplicemente avanti anche se non succedeva niente, almeno niente di quel che volevamo noi. Quando l’orologio batteva le ore sembrava quasi scherzasse. Più avanti cominciai a nascondere pietre, piume o monete nelle case in cui vivevamo per un po’ prima di lasciare anche queste.

Dalle parole di Kata, io narrante della storia, traspare la costante paura di lei e di Isti di essere vittime di un nuovo abbandono, la continua ricerca di un luogo a cui appartenere e di trovare persone alle quali legarsi, la triste consapevolezza di essere un peso per il padre ed il tormento di non comprendere come la madre abbia potuto abbandonarli.

Il ritmo del racconto è lento e descrittivo così da poter scandire meglio la lentezza stessa della vita dei protagonisti e sottolineare il monotono trascorrere delle stagioni che si succedono sempre uguali in quelle atmosfere rarefatte sotto quei cieli bassi e grigi.

quell’aspettare sospesi prima o poi sarebbe finito. Invece quella sensazione non passava, non ci lasciava più. Restava e si attaccava ai nostri giorni, a quell’estate (…)

Il romanzo di Zsuzsa Bánk non è solo il racconto della famiglia Valencei, del loro dolore, della loro incapacità di comunicare e dell’abbandono che tanto ha segnato la loro esistenza come famiglia e come singoli individui, ma è anche il racconto di un popolo che ha perso la fiducia in se stesso, di una nazione oppressa che ha dimenticato la propria identità e non sa come ritrovarsi.

“Il nuotatore” è un romanzo struggente e malinconico che attraverso le sue pagine parla direttamente al cuore del lettore.



lunedì 28 luglio 2014

“Il fantasma dell’Opera” di Gaston Leroux (1868 – 1927)

IL FANTASMA DELL’OPERA
di Gaston Leroux
NEWTON COMPTON EDITORI
Pubblicato nel 1911 “Il fantasma dell’Opera” è forse il romanzo più conosciuto di Leroux, opera che contribuì inoltre a consacrare definitivamente la fama dello scrittore.

Ad oggi sono molte le trasposizioni cinematografiche del libro la cui fortuna ha visto anche adattamenti teatrali, trasformazioni in musical e perfino adattamenti per il balletto.

La trama del romanzo è nota a tutti.

Erik, conosciuto da molti come il fantasma dell’Opera e da alcuni come il signore delle botole, vive nei sotterranei del teatro.
Il suo aspetto mostruoso non gli permette di potersi presentare in pubblico se non indossando una maschera che nasconda le sue orribili fattezze.
                                                                                               
E’ prodigiosamente magro e il suo frac volteggia sopra una impalcatura scheletrica. I suoi occhi sono così profondi che le pupille, immobili, non si distinguono bene. Insomma, si vedono soltanto due grandi buchi neri come dei crani morti. La sua pelle, tesa sull’ossatura come la pelle di un tamburo, non è bianca, ma sgradevolmente giallastra; il naso è così minuscolo da essere invisibile di profilo, e l’assenza di quel naso è cosa orribile a vedersi. Tre o quattro lunghe ciocche castane sulla fronte e dietro le orecchie fungono da capigliatura.

Erik è però un personaggio dalle mille risorse: è un abile costruttore, a lui viene attribuita infatti in parte la costruzione del teatro con i suoi numerosi cunicoli, passaggi segreti e botole; è un capace ventriloquo, tanto da essere definito il migliore del mondo, e per finire è dotato di eccezionali doti canore.

Proprio grazie alla sua magnifica voce, Erik presentandosi come l’angelo della musica riesce ad ammaliare Christine Daaé, una giovane ed ingenua cantante, orfana di padre.
Il padre della ragazza, un valente violinista di origini svedesi, aveva raccontato a Christine, quando questa era solo una bambina, la storia dell’angelo della musica e, proprio a causa del ricordo legato al genitore, lei ingenuamente cade nel tranello di Erik.

Christine un giorno rivede a teatro un amico di infanzia, Raoul ovvero il visconte di Chagny; questi si innamora perdutamente della ragazza da lei ricambiato.
La loro storia d’amore però sarà una storia di tormenti e paura poiché il fantasma dell’Opera non ha nessuna intenzione di cedere al rivale la donna che anch’egli ama perdutamente e userà ogni mezzo a sua disposizione per sposare Christine e sbarazzarsi di Raoul.

Leroux conduce sapientemente la narrazione tenendo sempre alta l’attenzione del lettore utilizzando le strutture del romanzo epistolare e diaristico.
Riesce inoltre a rendere sempre partecipe il lettore della storia porgendo a questi il racconto da diversi punti di vista attraverso le testimonianze, i racconti, le memorie di vari personaggi.

Le ultime pagine che riguardano l’epilogo del racconto e svelano chi sia in effetti Erik, sono affidate alla testimonianza di colui che a teatro è conosciuto come il Persiano ma che Erik chiama il daroga.
Il daroga (capo della polizia) aveva salvato la vita ad Erik anni addietro in Persia quando questi era stato condannato a morte dal sultano perché non potesse mai svelare i misteri del palazzo che gli aveva costruito e non ne potesse costruire di simili per altri committenti.

Il Persiano si sente quindi responsabile dei delitti commessi da Erik e tenta in tutti i modi di porgli un freno.

Raoul e Christine sono due tra i personaggi principali, eppure non mi hanno particolarmente entusiasmata: troppo ingenua e svenevole lei, troppo imberbe e mellifluo lui, insomma ben lontani da personaggi dai caratteri forti e ben delineati come Mina Murray e Jonathan Harker vessati da Dracula nell’omonimo romanzo di Bram Stoker.

Erik è invece un personaggio ben riuscito, non solo per la descrizione del suo aspetto fisico, delle sue qualità diaboliche e per la sua astuzia, ma sopratutto per quel senso di pietà che sa infondere nel lettore al termine della narrazione quando vengono svelati i particolari della sua infanzia e quando egli stesso apre il cuore al Persiano raccontandogli del bacio dato e ricevuto da Christine.

Il fantasma dell’Opera è un mostro, un essere crudele che come Frankenstein, celebre personaggio nato dalla penna di Mary Shelley, rivendica la sua appartenenza al mondo degli uomini con gli unici mezzi che ha a sua disposizione.
Lui essere deforme dalla voce d’angelo anela esclusivamente ad essere amato come qualunque altro essere umano.

Amami e vedrai! Avevo soltanto bisogno di essere amato per diventare buono!

“Il fantasma dell’opera” è un romanzo teatrale e gotico dove le descrizioni dei luoghi sono dettagliatissime e perfette.
Ogni cosa è raccontata da Leroux con una tale dovizia di particolari che il lettore non fa alcuna fatica a ricreare nella sua mente ogni angolo del teatro e della casa sul lago.

E’ una storia terribile e misteriosa dove si potrebbe dire che i veri protagonisti siano i sentimenti: la passione, la vendetta, l’amore, la gelosia, la compassione…

E’ un romanzo che raccoglie in se diverse tipologie di scrittura che appartengono a diversi stili letterari come il poliziesco, la commedia, l’avventura e l’horror. 
Forse si deve anche a questa contaminazione di generi se “Il fantasma dell’opera” riesce ancora oggi, a più di un secolo dalla sua prima pubblicazione, ad affascinare il lettore moderno e a coinvolgerlo dalla prima all’ultima pagina.



domenica 27 luglio 2014

Eduardo De Filippo (1900-1984) e "Le poesie"


Sono nato a Napoli il 24 maggio 1900, dall’unione del più grande attore-autore-regista e capo-comico napoletano di quell’epoca, Eduardo Scarpetta con Luisa De Filippo, nubile. Ma ci volle del tempo per capire le circostanze della mia nascita perchè a quei tempi i bambini non avevano la sveltezza e la strafottenza di quelli d’oggi e quando a undici anni seppi che ero “figlio di padre ignoto” per me fu un grosso choc. La curiosità morbosa della gente intomo a me non mi aiutò certo a raggiungere un equilibrio emotivo e mentale. Così, se da una parte ero orgoglioso di mio padre, della cui Compagnia ero entrato a far parte, sia pure saltuariamente, come comparsa e poi come attore, fin dall’età di quattro anni quando debuttai nei panni d’un giapponesino nella parodia dell’operetta Geisha, d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi chiacchiere e malignità mi opprimeva dolorosamente. Mi sentivo respinto, oppure tollerato e messo in ridicolo solo perchè “diverso”. Da molto tempo, ormai, ho capito che il talento si fa strada comunque e niente lo può fermare, ma è anche vero che esso cresce e si sviluppa più rigoglioso quando la persona che lo possiede viene considerata “diversa” dalla società. Infatti, la persona finisce per desiderare di esserlo davvero, diverso, e le sue forze si moltiplicano, il suo pensiero è in continua ebollizione, il fisico non conosce più stanchezza pur di raggiungere la meta che s’è prefissa. Tutto questo però allora non lo sapevo e la mia “diversità” mi pesava a tal punto che finii per lasciare la casa materna e la scuola e me ne andai in giro per il mondo da solo, con pochissimi soldi in tasca ma col fermo proposito di trovare la mia strada. Dovrei dire: di trovare la mia strada nella strada che avevo già scelto da sempre, il teatro, che è stato ed è tutto per me. 
(Da “Eduardo De Filippo. Vita e opere”. Arnoldo Mondadori Editore, 1986)


Eduardo De Filippo è conosciuto da tutti come autore di teatro oltre che come regista ed attore, ma pochi sanno però che il grande Eduardo fu anche autore di poesie.
All’inizio si trattava di semplici componimenti giovanili, ma nel corso degli anni questa sua attività divenne complementare alla sua produzione teatrale.

LE POESIE
di Eduardo De Filippo
EINAUDI 

Come lo stesso De Filippo ha più volte raccontato succedeva spesso che durante la scrittura di una commedia la sua ispirazione subisse degli arresti, delle pause e allora per non interrompere il lavoro, dal momento che la voglia di riprenderlo sarebbe stata certamente assente, Eduardo lo accantonava per un momento e, con un foglio bianco dinnanzi a lui, iniziava a buttare giù dei versi che avessero attinenza con i personaggi della commedia a cui stava lavorando.
Nascono così poesie come “Tre ppiccerille” legati alla celebre “Filumena Marturano” o “Donn’Amalia” e “L’enemì” legate a “Napoli Milionaria”.

Il linguaggio di De Filippo non è il linguaggio plebeo che possiamo ritrovare ad esempio in Raffaele Viviani il quale aveva esperienza diretta di un mondo fatto di lavandaie, scugnizzi, domestiche, acquaioli, artigiani...
La lingua di De Filippo è quella della borghesia nel primo novecento e il linguaggio del popolo che lui utilizza nasce dalla sua acuta capacità di osservare quelle categorie di persone che egli non frequenta abitualmente.

Nelle poesie di Eduardo De Filippo troverete tutta quell’ironia che spesso fa sorridere, ma allo stesso tempo fa riflettere, quella sua sottile comicità nella descrizione di personaggi e situazioni che sono sì divertenti, ma spesso anche terribilmente amare.

De Filippo ci racconta la sua Napoli con un paternalismo bonario, ci racconta una Napoli fatta di macchiette e di personaggi che vivono ‘into vascio (nel basso, abitazione poverissima sulla strada), che si ingegna per tirare a campare, che campa ‘a bona ‘e Dio.

Nella produzione teatrale di Eduardo così come nelle poesie c’è tutta la filosofia di un popolo, quello napoletano, per cui la famiglia e i figli vengono prima di tutto “E figlie so' figlie e so' tutt'eguale!" (da "Filumena Marturano"), un popolo abituato a dimenticare i torti subiti “chi avuto-avuto” tipico del famoso detto “chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato”.

Non posso dirvi che le poesie di Eduardo siano facilissime da leggere perchè il napoletano è piuttosto ostico per chi è completamente digiuno di questo dialetto, ma le note a piè di pagina facilitano molto chi decida di cimentarsi in questa avventura letteraria.
Da parte mia posso dirvi che lo sforzo sarà ben ripagato perché non solo sono poesie molto interessanti ma sono anche un pezzo di storia del nostro paese.

Mi piacerebbe chiudere questo post con ‘E pparole (tratta dal volume “Le poesie” edito da Einaudi). La scelta di questi versi è stata totalmente casuale perché tutte sono poesie bellissime che meriterebbero di essere lette.


‘E pparole

Quant’è bello ’o culore d' ’e pparole
e che festa addiventa nu foglietto,
nu piezzo ’e carta -
nu’ importa si è stracciato
e pò azzeccato -
e si è tutto ngialluto
p’ ’a vecchiaia,
che fa?
che te ne mporta?
Addeventa na festa
si ’e pparole
ca porta scritte
sò state scigliute
a ssicond’ ’o culore d’ ’e pparole.
Tu liegge
e vide ’o blù
vide ’o cceleste
vide ’o russagno
’o vverde
’o ppavunazzo,
te vene sotto all’uocchie ll’amaranto
si chillo c’ha scigliuto
canusceva
’a faccia
’a voce
e ll’uocchie ’e nu tramonto.
Chillo ca sceglie,
si nun sceglie buono,
se mmescano ’e culore d’ ’e pparole.
E che succede?
Na mmescanfresca
’e migliar’ ’e parole,
tutte eguale
e d’ ’o stesso culore:
grigio scuro.
Nun siente ’o mare,
e ’o mare parla,
dice.
Nun parla ’o cielo,
e ’o cielo è pparlatore.
’A funtana nun mena.
’O viento more.
Si sbatte nu balcone,
nun ’o siente.
’O friddo se cunfonne c’ ’o calore
e ’a gente parla cumme fosse muta.
E chisto è ’o punto:
manco nu pittore
po’ scegliere ’o culore d’ ’e pparole.

(1971)





martedì 22 luglio 2014

“L’uomo che non poteva morire” di Timothy Findley

L’uomo che non poteva morire
di Timothy Findley
Beat
Edizione originale Neri Pozza

Londra, mercoledì 17 aprile 1912. Al n. 18 di Cheyne Walk un uomo si impicca ad un albero nel proprio giardino utilizzando il cordone di seta della sua veste da camera.
A ritrovare il cadavere dell’uomo è il suo cameriere-maggiordomo, il signor Forster, che taglia il cordone e adagia il corpo sull’erba.
Non è la prima volta che il signor Pilgrim, questo è il nome del defunto gentiluomo, prova a togliersi la vita.
Il signor Forster avverte il dottor Greene il quale, prima di certificare il decesso, preferisce chiedere ad un collega, il dottor Hammond, di confermare quanto da lui constatato.
Il certificato di morte viene quindi redatto e firmato da entrambi i dottori.
Dopo sei, sette ore al massimo però il Signor Pilgrim torna in vita così come era accaduto dopo i precedenti tentativi di suicidio.

Lady Sybil Quartermaine accompagna l’amico Pilgrim in una clinica psichiatrica in Svizzera, la clinica Burgholzli, un famoso centro di ricerca di studi psichiatrici che vanta un’eccellente fama internazionale.

Pilgrim viene affidato alle cure del dottor Carl Gustav Jung, un celebre medico e psichiatra che cura i propri pazienti con metodi innovativi e non coercitivi.
Egli preferisce infatti ascoltare e, per quanto possibile, assecondare il malato nel tentativo di ricondurlo alla ragione senza imporgli un brusco ritorno alla realtà.

Quello che Lady Quartermaine chiede al dottor Jung non è la guarigione dell’amico poiché lei, come Pilgrim, è fermamente convinta che egli sia incapace di morire e che viva da sempre.

L’unico aiuto che chiede al dottor Jung è che questi riesca a dare a Pilgrim una qualche ragione per vivere, qualcosa che lo aiuti a sopravvivere alla nausea della sua vita o meglio alle condizioni in cui è costretto a viverla.
Sibyl chiede per l’amico Pilgrim un semplice raggio di speranza.

Ma chi è veramente Pilgrim? È davvero un uomo che non può morire? Un essere imprigionato nella condizione umana? Oppure è semplicemente un pazzo schizofrenico?

“L’uomo che non poteva morire” è un romanzo dove si intrecciano mistero, religione, filosofia e psicologia. E’ un romanzo mistico e visionario.

Come il dottor Jung anche il lettore è completamente spiazzato e soggiogato da Pilgrim. La ragione lo porterebbe ovviamente a credere che egli sia semplicemente un malato di mente, un folle, ma è difficile non lasciarsi affascinare dai suoi “sogni” di esistenze precedenti: la Gioconda, un pastore spagnolo storpio, un maestro vetraio a Chartres…

Egli insiste nel sostenere di aver vissuto ogni epoca storica: la guerra di Troia, l’ellenismo, la lussuria di Roma antica, il medioevo così via fino ai primi del Novecento.
Scrive nei suoi diari di aver conosciuto eroi classici come Achille ed Ettore, un genio come Leonardo Da Vinci, di essere stato soggiogato da Santa Tersa d’Avila, di aver cenato con Henry James e di essere stato amico di Oscar Wilde
Sembra tutto talmente reale che alla fine pare impossibile che Pilgrim stia mentendo o meglio che ogni cosa sia solamente frutto di una mente malata.

Timothy Findley pone il lettore davanti ad un interrogativo pirandelliano: che cos’è davvero la pazzia? Non siamo forse tutti un po’ folli? Non cerchiamo forse tutti nella nostra vita di evadere dalla realtà?

“L’uomo che non poteva morire” è un libro intenso e commovente.
Un romanzo che fa riflettere, che indaga gli abissi dell’identità umana e che pone interessanti domande sull’esistenza di Dio e degli dei, sul valore salvifico della cultura e dell’arte e sul diritto alla libertà di ogni uomo.




lunedì 21 luglio 2014

“Mrs. Poe” di Lynn Cullen

Mrs. Poe
di Lynn Cullen
Neri Pozza

Chiunque ami il romanzo storico e Poe divorerà quest’opera” così Erica Robuck si è espressa in merito al libro di Lynn Cullen.
Dopo averlo letto posso concordare che chiunque ami il romanzo storico e il romanzo vittoriano non potrà non amare questo libro e poco importa se non ha mai nutrito particolare simpatia nei confronti di Edgar Allan Poe, al termine della lettura del romanzo, vi posso assicurare che nessuno potrà resistere al suo fascino, tanto da volerne immediatamente conoscere tutta la produzione letteraria.

Il romanzo di Lynn Cullen è ambientato nell’anno 1845 e narra la storia vera, ovviamente romanzata anche se come l’autrice tiene a precisare le cose inventate avrebbero potuto benissimo accadere, della relazione tra Edgar Allan Poe e la poetessa Frances Osgood.

Frances Osgood, insieme alle figlie Vinnie ed Ellen, era ospite dei coniugi Bartlett.
Il signor Bartlett, marito di Eliza la più cara amica della poetessa, era un noto libraio ed editore.
Frances Osgood era stata costretta ad accettare la generosità dell’amica dopo che il marito l’aveva abbandonata, lasciandola senza un soldo e incalzata dai creditori, fuggendo con una delle sue tante conquiste.

Samuel Osgood era nella realtà un pittore ritrattista piuttosto celebre alla sua epoca, che amava dipingere le signore benestanti, le quali non riuscendo a resistere al suo fascino, ne diventavano molto spesso le amanti.

Frances aveva incontrato il celebre Edgar Allan Poe ad una delle riunioni a casa della signora Anne Charlotte Lynch che aveva istituto presso la sua dimora un vero e proprio salotto letterario al quale partecipavano non solo poeti e letterati ma ogni personalità influente: scienziati, filosofi, editori, giornalisti, naturalisti, dagherrotipisti.

Edgar Allan Poe era anch’egli sposato. Tra lui e la moglie Virginia, che era tra l’altro sua cugina, c’era una differenza di 13 anni. Poe l’aveva presa in moglie all’età di 26 anni quanto Virginia ne aveva solamente 13.

Poe si innamorò perdutamente di Frances fin dal loro primo incontro, riconoscendo in lei la sua anima gemella.
Frances, che a sua volta non mancava di corteggiatori da lei sempre ignorati, non seppe resistere alla passione che sentiva nascere nei confronti di quell’uomo così misterioso e affascinante.
Nacque così una relazione per la maggior parte platonica, fatta di sguardi e di scambi di poesie.
Il loro amore fu però sempre assoggettato ad inevitabili e grandi sensi di colpa nei confronti della moglie Virginia che in quel periodo era già gravemente malata di tubercolosi.

Edgar Allan Poe era all’epoca un personaggio molto famoso a New York, la sua poesia “Il corvo” gli aveva procurato una notorietà assoluta, ma a causa delle recensioni in cui egli massacrava i colleghi si era creato anche molti nemici.
La notorietà di Poe e le sue inimicizie insieme all’ipocrisia e al perbenismo della società del tempo, sempre fonte di maldicenze e pettegolezzi, misero a dura prova la relazione dei due amanti creando notevoli ostacoli alla loro relazione spesso funestata da avversità e malasorte.

Non tutti i biografi di Edgar Allan Poe sono concordi nel ritenere che tra lui e Frances Osgood ci fosse stata davvero una relazione illecita.
Personalmente mi piace credere che Lynn Cullen attraverso le sue ricerche, di cui parla dettagliatamente nella “nota dell’autrice” alla fine dell’opera indicando anche qualche cenno bibliografico per chi volesse approfondire la conoscenza di Poe e della società di New York a lui contemporanea, abbia trovato la giusta chiave di lettura degli eventi storicamente accertati, ritenendo che tra i due ci fu una relazione e che proprio da questa relazione nacque Fanny Fay, la terzogenita della Osgood.

La trama del romanzo, la descrizione di New York con le sue strade percorse da calessi,  carrozze e carri, con i marciapiedi coperti dalla neve, il progresso che avanza inesorabilmente con la costruzione di nuovi edifici che sottraggono giorno dopo giorno spazio al verde cittadino, la descrizione della società di quel tempo, del pubblico delle conferenze e degli ospiti dei salotti letterari, la galleria di personaggi storici che scorrono sotto i nostri occhi pagina dopo pagina: Hawthorne, l’autore di “La lettera scarlatta”; Morse, l’inventore del linguaggio del telegrafo, la scrittrice Margaret Fuller, John James Audubon, celebre ornitologo e pittore; il poeta Walter Whitman autore della famosa poesia “Oh Capitano, mio capitano!” solo per citarne alcuni…. fanno di “Mrs. Poe” un romanzo affascinante come i suoi protagonisti.

E come i suoi protagonisti il libro è anche un romanzo inquietante e coinvolgente, tanto da assumere a tratti le caratteristiche di un romanzo gotico.

Il romanzo è influenzato certamente dalle atmosfere suggestive e macabre dei racconti di Poe, basti pensare a racconti quali “Il gatto nero”, “William Wilson, “Rivelazione mesmerica”, opere tra l’altro citate spesso all’interno dello stesso romanzo della Cullen.

Non tralasciando temi cari al romanzo del Settecento e dell’Ottocento come quello della vicenda di Mary sedotta e abbandonata dal padrone o quello della casa di Madame Restell dove si eseguivano aborti clandestini, l’autrice riesce a creare una storia tipicamente neogotica riuscendo a sviluppare gli aspetti psicologici dei singoli personaggi e indagandone le loro ossessioni e gli incubi personali.

Il carattere cupo e appassionato di Edgar Allan Poe ricorda a tratti quello di un celebre personaggio della letteratura come il signor Rochester, come lui Poe è legato ad una donna dal vincolo matrimoniale ma è perdutamente innamorato di un’altra, la sua vera anima gemella.
Le loro anime riescono a comunicare pur senza che loro siano fisicamente vicini, riescono a dialogare a distanza così da riuscire ad accorrere alle richieste di aiuto l’uno dell’altra senza bisogno di parole.

Il romanzo di Lynn Cullen non è solo “la vera storia di un’attrazione fatale” (Nancy Bilyeau) o la descrizione de “lo scintillante mondo della New York del 1840, dove i poeti erano celebrità e le emozioni un lusso” (Oprah.com), “Mrs. Poe” è sopratutto un romanzo scritto da un’autrice contemporanea che è bravissima a far rivivere le emozioni e la magia che solo i grandi romanzi della letteratura sono capaci di regalare.